talassemia
Patologia a trasmissione ereditaria di tipo autosomico recessivo, legata a particolari alterazioni strutturali dell’emoglobina, molto diffusa nei paesi del bacino mediterraneo e in varie regioni subtropicali e tropicali.
Le t. sono distinte in due gruppi contrassegnati dalla lettera alfa o beta a seconda che il gene anomalo sia tra quelli che controllano la sintesi delle globine alfa o beta, che costituiscono le catene polipeptidiche dell’emoglobina. La forma alfa ha una ampia gamma di manifestazioni cliniche che vanno dalla forma grave dell’idrope feto-placentare, dovuta alla delezione di tutti e 4 i geni alfa, alla forma di portatore silente, per la delezione di un solo gene alfa. Le forme beta sono dovute a mutazioni puntiformi e la patogenesi delle manifestazioni cliniche è dovuta all’eritropoiesi inefficace, per morte intramidollare dei globuli rossi e dei precursori. Nella t. l’emoglobina normale è sostituita da emoglobina F che ha un’alta affinità per l’ossigeno, e ciò crea un ulteriore stimolo a livello midollare per la produzione di globuli rossi. I pazienti talassemici vanno incontro a un sovraccarico di ferro (in organi, come cuore, fegato e ghiandole endocrine, che vengono alterati nelle loro funzioni), in piccola parte legato all’aumentato assorbimento intestinale necessario allo stimolo continuo di produzione dei globuli rossi, ma soprattutto dovuto all’alto apporto di ferro con le trasfusioni terapeuticamente necessarie nelle forme omozigoti al fine di mantenere il valore di emoglobina al di sopra di 9 g/dl, consentendo un corretto sviluppo psicosomatico.
Il meccanismo autosomico recessivo determina una differenza di manifestazioni cliniche: un solo gene ereditato da uno dei due genitori genera la condizione di portatore eterozigote (forma minima di t. detta minor); se si eredita il carattere recessivo da tutti e due i genitori si ha una forma grave di t. (t. major) con severe manifestazioni cliniche. Nella forma eterozigote, i pazienti sono asintomatici o hanno solo una modesta anemia, con un ampio spettro di quadri clinici intermedi, dovuti alla diversa espressione fenotipica del difetto genetico. La forma omozigote, detta anche morbo di Cooley, è una forma di anemia estremamente grave, che si evidenzia dalla nascita con splenomegalia importante, per l’aumentata distruzione dei globuli rossi. Si evidenzia pallore e subittero già nei primi mesi di vita. Il paziente necessita di frequenti emotrasfusioni, con conseguente continuo sovraccarico di ferro, L’eccessivo incremento della popolazione eritroide midollare porta a delle alterazioni scheletriche permanenti, con ridotto accrescimento e disfunzioni ormonali.
Una precoce diagnosi prenatale ha ridotto in maniera drastica l’incidenza delle forme estremamente gravi. Una terapia trasfusionale appropriata continua, con deplezione di ferro mediante farmaci ferrochelanti, ha ridotto l’incidenza di gravi complicazioni scheletriche e disfunzioni organiche e ha aumentato significativamente la sopravvivenza. Il trapianto di cellule staminali emopoietiche allogeniche nella forma omozigote è la terapia di elezione: fattori prognostici sfavorevoli sono l’età avanzata, il sovraccarico di ferro e l’esistenza di epatopatia pretrapianto.
Aggiornamenti terapeutici
Dal punto di vista genico distinguiamo diversi tipi di talassemie, in base alla catena globinica colpita dal difetto.
Nella forma eterozigote di talassemia alfa si ha un trait talassemico, con lieve riduzione dell’emoglobina, microcitosi e ipocromia dei globuli rossi (alfa-talassemia minor). Una forma intermedia, risultato di una doppia eterozigosi (delezione di 3 geni su 4) è la malattia da emoglobina H (formata da quattro catene globiniche beta, anziché da due beta e due alfa), che comporta un quadro di talassemia intermedia, con livelli emoglobinici intorno a 8÷9 g/dl, che può ulteriormente ridursi e richiedere un supporto trasfusionale in occasione di infezioni.
Nella talassemia beta si verifica un’eritropoiesi inefficace dovuta all’eccesso di produzione di catene alfa per soppressione di quella delle catene beta che determina le manifestazioni cliniche. Nella forma eterozigote, i pazienti sono asintomatici o hanno solo una modesta anemia, con un ampio spettro di quadri clinici intermedi, dovuti alla diversa espressione fenotipica del difetto genetico. Generalmente tale condizione può rimanere inosservata o essere svelata in concomitanza di altri esami: vi è una modesta riduzione dell’emoglobina con una netta microcitosi. Non sempre tali alterazioni sono visibili, ma vi sono anche condizioni di portatori silenti, in cui il difetto è visibile solo con analisi elettroforetica delle catene globiniche. Nella forma omozigote il paziente necessita di frequenti emotrasfusioni, che comportano però un costante e continuo sovraccarico di ferro. L’eccessivo incremento della popolazione eritroide midollare porta ad alterazioni scheletriche permanenti, con ridotto accrescimento e disfunzioni ormonali. Ulteriori complicazioni a cui possono essere soggetti i talassemici gravi sono le complicanze infettive, la calcolosi biliare e le ulcere malleolari.
Una corretta prevenzione con una precoce diagnosi prenatale, ha ridotto l’incidenza di forme estremamente gravi. Per una adeguata terapia trasfusionale è necessario ottenere un profilo antigenico completo prima della prima trasfusione; si trasfondono dai 10 ai 15 ml/kg di globuli rossi ogni 2÷4 settimane per mantenere i livelli di emoglobina superiori a 9÷10,5 g/dl. Si utilizzano emazie filtrate per la leucodeplezione, non superiori ai 7÷10 giorni di produzione, con particolare attenzione alla situazione degli anticorpi allogenici e autologhi sviluppati dopo una continua terapia trasfusionale. La scelta di trasfondere il paziente affetto da talassemia è il risultato di condizioni cliniche e laboratoristiche: un bambino con scarsa crescita e con modificazioni ossee, si giova di terapia trasfusionale anche se ha livelli di emoglobina superiori a 9 g/dl. Associata alla terapia trasfusionale è importante la ferrochelazione: più di 30 anni di esperienza nel campo con l’uso di deferoxamina ha portato a comprendere che la concentrazione di ferro epatico può essere mantenuta a livelli normali o modicamente elevati; si può prevenire così anche la fibrosi epatica e il rischio di patologie cardiache indotte dal sovraccarico di ferro. Con una corretta ferrochelazione (con deferoxamina per almeno 5 giorni a settimana) è possibile ottenere buoni risultati anche in merito alla crescita e allo sviluppo sessuale normale con miglioramento della sopravvivenza a lungo termine. Nei primi anni Ottanta del secolo scorso è stato introdotto in commercio il deferiprone, chelante bidentato utilizzato prima come singolo agente e poi associato a deferoxamina. Più recentemente è stato introdotto in commercio il deferasirox, chelante tridentato ancora in via di sperimentazione (2009): tale farmaco si è dimostrato altamente efficace nei pazienti talassemici, con dosaggio correlabile al fabbisogno trasfusionale e al peso del paziente. Il deferasirox determina sintomi collaterali prevalentemente gastrointestinali, come nausea, vomito e diarrea. Terapie sperimentali con farmaci ipometilanti (azacitidina e idrossiurea) permettono di creare uno sbilanciamento genico con produzione di geni alfa che sostituiscono la produzione di geni per le catene beta patologiche. Nelle talassemie, a livello sperimentale sono stati usati anche agenti con azione di rimodellamento cromatinico (butirrato, decitabina), sempre con lo scopo di produrre catene alfa globuliniche, ma il loro effetto a lungo termine rimane non chiaro. Il trapianto di cellule staminali emopoietiche allogeniche nella forma omozigote è la terapia d’elezione per ottenere la guarigione. Dopo l’eradicazione del midollo osseo talassemico, viene corretto il difetto genetico del globulo rosso attraverso l’infusione delle cellule staminali emopoietiche del donatore sano. La cellula staminale emopoietica allogenica deve superare la barriera immunologica e quindi deve essere genotipicamente o fenotipicamente HLA identica al ricevente, al fine di ridurre il rischio di rigetto e di GVHD (Graft Versus Host Desease), per i quali è necessario eseguire un trattamento immunosoppressivo adeguato ad abbattere le difese immunitarie dell’ospite in attesa dell’attecchimento. Più di 20 anni di esperienza trapiantologica hanno inoltre permesso di identificare tre categorie di rischio per il trapianto, valutando lo stato di sovraccarico di ferro, l’entità dell’epatomegalia e il grado di fibrosi portale. Anche l’età avanzata rappresenta un fattore prognostico sfavorevole. La sopravvivenza media va dal 60 al 95% a seconda della presenza o meno di tali fattori. Un altro limite all’applicazione di tale procedura trapiantologica è dato dalla difficoltà di trovare donatori HLA-compatibili: per questo l’introduzione del cordone ombelicale come fonte di cellule staminali ha permesso di implementare tale procedura.
Massimo Breccia
Claudio Cartoni