Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scoperta, lo studio sperimentale e la concettualizzazione delle modificazioni fisiologiche, associate ai processi di sviluppo e alle risposte immunitarie, rappresentano le più avanzate frontiere della ricerca biomedica dell’Ottocento insieme ai tentativi di definire l’organizzazione funzionale del sistema nervoso. L’embriologia si trasforma da descrittiva in sperimentale e l’immunologia emerge dagli sviluppi della batteriologia sperimentale, prefigurando importanti indirizzi per la maturazione scientifica della medicina.
L’evoluzione dell’embriologia descrittiva
Durante l’Ottocento viene raccolta una grande quantità di dati empirici sulle caratteristiche degli embrioni; inizialmente tali dati vengono messi in relazione alle principali questioni emerse dal dibattito tardo settecentesco sull’origine delle correlazioni strutturali tra le forme viventi, sollevando successivamente il problema dei meccanismi che sono alla base della diversificazione strutturale e funzionale delle specie.
Agli inizi del secolo Christian Heinrich Pander (1794-1865) e Karl Ernst von Baer scoprono che l’embrione è costituito da foglietti strutturalmente diversi, detti foglietti embrionali, da cui derivano sempre gli stessi tessuti fisiologicamente differenziati nell’animale adulto. Nel 1817 Pander presenta i risultati delle sue ricerche sull’embrione di pollo nei primi cinque giorni di sviluppo che includono la denominazione e la descrizione del blastoderma con i tre foglietti germinativi. Nel 1824 viene poi descritta la segmentazione, cioè la fase iniziale dello sviluppo che consiste nella divisione dell’uovo fecondato in due parti.
Von Baer prosegue gli studi di Pander, gettando le basi dell’embriologia descrittiva moderna e stabilendo i presupposti dell’embriologia evoluzionistica.
Nel descrivere in modo dettagliato il processo di formazione a partire dall’uovo – degli strati germinali e quindi degli organi e delle parti del corpo, Von Baer riscatta la concezione epigenetica dello sviluppo rispetto all’approccio preformistico che aveva dominato il Seicento e il Settecento. Egli mostra come lo sviluppo proceda attraverso un processo di progressiva specializzazione che va dal generale allo speciale, dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indifferenziato al differenziato. Von Baer formula questa idea in una serie di proposizioni – divenute note come “leggi di Von Baer” – che contraddicono la tesi, diffusa tra i morfologi del tempo e rilanciata in chiave evoluzionistica nella seconda metà dell’Ottocento da Ernst Haeckel, per cui lo sviluppo dell’embrione ricapitolerebbe la storia morfologica della vita.
Per Von Baer lo sviluppo di tutti gli animali procede da una sola forma comune – il germe – manifestando prima le caratteristiche più generali e poi, progressivamente, quelle più specializzate. Dal germe, ad esempio, si passa all’archetipo – forma-tipo generica di tutti i vertebrati – quindi alla forma specializzata tipica di un uccello e infine alla forma specifica di una gallina.
L’embriologia si impone con Von Baer come guida per la definizione del piano strutturale degli organismi, ma nel momento in cui Robert Remak osserva che la formazione dei foglietti avviene per divisione cellulare l’embriologia diviene anche l’ambito privilegiato per l’applicazione della teoria cellulare. A metà Ottocento lo sviluppo viene visto come il risultato di processi di determinazione descrivibili a due livelli: quello dei foglietti germinativi, in cui si stabiliscono il futuro istologico e la forma degli organi e dell’animale, e il livello cellulare, dato che i foglietti sono costituiti di cellule derivate ognuna dalla cellula uovo fecondata e il tentativo di ricondurre i processi dello sviluppo alla funzione della cellula rappresenta l’altra linea di ricerca embriologica.
La nascita dell’embriologia sperimentale
Nel corso degli ultimi tre decenni del secolo il confronto teorico sull’origine delle forme viventi si indirizza verso una ridefinizione delle concezioni preformista e di epigenetismo, ovvero ci si interroga se lo sviluppo sia predeterminato a livello di fattori causali interni all’uovo fecondato o se siano le condizioni esterne a determinare l’esito dello sviluppo.
L’interesse per l’embriologia è stimolato dallo sviluppo delle tecniche microscopiche e istologiche, dagli appoggi istituzionali e dall’aspettativa che attraverso l’indagine fisiologica si possano scoprire i processi di sviluppo dei meccanismi dell’ereditarietà e dell’epigenesi. L’attenzione degli embriologi si concentra infatti sui determinanti dello sviluppo e sui rapporti tra ereditarietà, sviluppo ed evoluzione.
Soprattutto in Germania vengono messi a punto programmi di ricerca basati su metodi analitici e sulla sperimentazione.
Verso la fine dell’Ottocento la ricerca embriologica viene condotta principalmente nelle stazioni di biologia marina, e in particolare alla Stazione zoologica di Napoli, fondata da Anton Dohrn nel 1872, e al Marine Biological Laboratory di Woods Hole, fondato nel 1888.
Nel 1874 Wilhelm His propone un modello meccanico dello sviluppo, basato sulla crescita ineguale dei foglietti embrionali, che nega la preformazione – in quanto assunzione di una preesistente definizione della forma specifica dell’animale – ma ammette una predeterminazione dell’embrione a livello di parti prelocalizzate nel citoplasma dell’uovo. Oltre a His anche altri fisiologi, insofferenti alle vaghezze dell’approccio morfologico, aderiscono alla concezione epigenetica dello sviluppo che attribuisce particolare importanza alle cause prossime o esterne dello sviluppo.
Questi approcci vengono considerati insoddisfacenti da Wilhelm Roux che nel 1888 lancia il programma della meccanica dello sviluppo (Entwicklungsmechanik) attraverso il quale mira a costruire una teoria dei processi formativi, utilizzando i metodi e gli strumenti della chimica e della fisica. L’esperimento, inteso come modificazione delle condizioni di sviluppo, è già da decenni una pratica costante della ricerca embriologica, manca tuttavia l’idea generale di una ricerca volta a individuare le cause prossime dello sviluppo.
Wilhelm Roux critica le strategie degli embriologi contemporanei che cercano di integrare lo studio della forma e quello della funzione (fisiologia dello sviluppo), ritenendo che l’obiettivo della ricerca sperimentale in embriologia debba eseguire un indirizzo meccanicistico. Roux ha in mente una “scienza causale della morfologia” e soprattutto egli insiste sul ruolo dei fattori interni all’uovo quali determinanti dello sviluppo, confutando per esempio le esperienze di Edward Pflüger circa gli effetti delle forze di gravità nella segmentazione.
Nel 1888 Roux presenta i risultati degli esperimenti di “danneggiamento” di una delle due cellule che si formano dopo la prima divisione dell’uovo fecondato, osservando che la cellula rimanente dà origine a mezzo embrione. Secondo l’embriologo tedesco ciò dimostra che la divisione cellulare è qualitativa e la cellula ha un destino predeterminato, indipendente dalla presenza di altre cellule e da fattori esterni. A questo punto le ricerche di Roux si sposano con quelle di August Weismann, il quale assume l’esistenza di una sostanza ereditaria – l’idioplasma, localizzato nel nucleo – che andrebbe incontro a cambiamenti qualitativi durante lo sviluppo.
Roux e Weismann basano la loro teoria dello sviluppo a mosaico – per cui il differenziamento delle cellule dipende dalla distribuzione del materiale citoplasmatico contenuto nell’uovo nelle diverse fasi della divisione cellulare – anche sul fenomeno della divisione cellulare che porta alla riduzione del materiale ereditario cromosomico (meiosi), descritta da Eduard van Beneden nel 1883.
I tentativi compiuti da Roux per ricondurre i processi dello sviluppo all’autodifferenziamento dimostrano il ruolo fondamentale del materiale ereditario per la costruzione della forma animale, l’autodifferenziamento è infatti un differenziamento alimentato da cause interne all’uovo e indipendenti dalle interazioni fra le parti e con l’ambiente. Tuttavia la teoria di Roux e Weismann non è controllabile e le critiche degli epigenisti al programma preformista di Roux e Weismann trovano un sostegno fondamentale quando nel 1891 Hans Driesch scopre il carattere regolativo dei processi di sviluppo.
Studiando lo sviluppo di blastomeri di uova di riccio di mare, separati allo stadio di due e quattro cellule, Driesch osserva che possono dare origine a organismi completi di dimensioni dimezzate o ridotte a un quarto se vengono separati. Per spiegare la capacità degli embrioni di reinstaurare la loro unità organizzazionale dopo che questa era stata disturbata attraverso procedure sperimentali, Driesch elabora il concetto metafisico di entelechia, cioè ipotizza l’esistenza di un principio vitale interno all’organismo, tale da guidarlo verso un fine predeterminato e irriducibile ai processi chimico-fisici che si manifestano nello sviluppo. A livello euristicamente più concreto Driesch introduce la nozione di “valore posizionale” dei costituenti della massa embrionale, riconoscendo che il destino di una cellula nell’embrione è una funzione della sua posizione. Questa scoperta dovrà attendere oltre mezzo secolo per essere rielaborata da Lewis Wolpert con la teoria dell’informazione posizionale, che rappresenta oggi uno dei modelli teorici principali dello sviluppo embrionale.
Nel 1895 Thomas Hunt Morgan mostra che anche nell’esperimento di Roux si possono ottenere gli stessi risultati dell’esperienza di Driesch, infatti se si inverte la posizione del blastomero non distrutto si ottiene un organismo completo di dimensioni ridotte.
Diversi embriologi sperimentali si dedicheranno agli inizi del Novecento all’indagine dei fattori causali che controllano la plasticità dei processi di sviluppo embrionale.
Le origini dell’immunologia
L’immunologia prende forma nel corso degli anni Ottanta dell’Ottocento come branca della microbiologia medica e comincia ad assumere un profilo autonomo agli inizi del Novecento.
Sin dall’antichità viene osservata l’immunizzazione naturale a seguito della guarigione spontanea di un’infezione. L’immunità acquisita naturalmente, così come l’immunizzazione artificiale attiva contro il vaiolo, praticata nell’Europa del Settecento attraverso la vaiolizzazione – cioè somministrando l’agente del vaiolo umano – e dal 1796 inoculando il vaiolo vaccino, manifestano chiaramente la proprietà di essere “specifiche”. L’immunizzazione naturale o artificiale, ad esempio contro il vaiolo, immunizza infatti solo da questa malattia infettiva. Tale proprietà richiama l’attenzione di Louis Pasteur, il quale mette in relazione la sua teoria circa l’eziologia microbica delle malattie infettive con il fenomeno dell’acquisizione dell’immunità come conseguenza del contatto con un agente patogeno non letale. Secondo Pasteur l’instaurarsi dell’immunità è dovuto al fatto che il microbo, sviluppandosi all’interno dell’ospite in una forma attenuata, provoca l’esaurimento di “qualche principio” essenziale e quindi rende l’organismo inadatto per la crescita di quel tipo di agente patogeno; nel 1879 Pasteur scopre infatti l’attenuazione dei germi patogeni e la possibilità di utilizzare tali forme meno virulente per l’immunizzazione preventiva.
La nascita dell’immunologia si può tuttavia far risalire alla prima ipotesi che l’immunità costituita sia in realtà una risposta attiva dell’organismo all’invasione di un corpo estraneo. Lo zoopatologo russo Elie Metchnikoff (1845-1916) è il primo ad assumere questa prospettiva nello studio dell’immunità. Nel 1884 egli ipotizza che l’immunità sia il risultato dell’attività fagocitica dei leucociti (teoria della fagocitosi) e pone tale attività in relazione con la storia evolutiva ed embriologica di queste cellule.
Alla spiegazione cellulare dell’immunità avanzata da Metchnikoff, negli anni Novanta batteriologi tedeschi contrappongono un’interpretazione umorale, basata sulla scoperta di fattori solubili del siero sanguigno coinvolti nelle risposte agli agenti patogeni, scoperta resa possibile dallo sviluppo delle tecniche batteriologiche.
Nel 1889 il batteriologo tedesco Hans Büchner descrive la proprietà battericida del sangue, attribuendola alla presenza di un insieme indefinito di sostanze albuminoidi che chiama alessine e che saranno successivamente riconosciute come complemento. L’anno seguente, lavorando nel laboratorio di Robert Koch a Berlino, Emil Behring e Shibasaburo Kitasato scoprono che l’organismo, in risposta all’inoculazione di esotossine batteriche, produce delle sostanze in grado di neutralizzare e prevenire selettivamente l’azione dannosa dei veleni e che perciò vengono chiamate antitossine. Behring e Kitasato dimostrano inoltre che la resistenza all’infezione assicurata dalle antitossine può essere trasferita passivamente da un animale all’altro, mediante il siero di un donatore immunizzato che manifesta una proprietà antitossica specifica.
Nel 1891 il componente del siero immune in grado di reagire in modo specifico con le sostanze che ne provocano la formazione viene denominato anticorpo da Paul Ehrlich. Nel 1899 viene inoltre introdotto il termine antigene per denotare una sostanza che induce la formazione di anticorpi.
La specificità dei sieri immuni trova applicazione sia a livello terapeutico con la produzione di antisieri in grado di neutralizzare gli effetti tossici degli agenti patogeni (sieroterapia), sia a livello diagnostico attraverso l’utilizzazione degli antisieri per visualizzare la presenza dell’agente patogeno (sierodiagnosi).
Per i primi immunologi l’immunità è chiaramente una manifestazione adattativa della fisiologia cellulare, sia in senso evolutivo sia funzionale. La risposta dell’organismo a una sfida ambientale, cioè la produzione di una sostanza protettiva a fronte di un’aggressione infettiva o tossica, può di fatto spiegarsi in due modi alternativi: ipotizzando una rielaborazione del materiale antigenico da parte dell’organismo stesso, come vuole la teoria avanzata da Hans Büchner nel 1893 – che viene presto sperimentalmente confutata – oppure immaginando, come sostiene Ehrlich nel 1898, che l’anticorpo preesista sotto forma di catene laterali presenti sul protoplasma della cellula e che l’incontro fra queste strutture molecolari, normalmente devolute alla fisiologia nutrizionale della cellula, e l’antigene determini una sovrapproduzione di catene laterali che vengono immesse in circolo come anticorpi (teoria delle catene laterali).
Alla fine dell’Ottocento si afferma comunque l’idea che le basi fisiologiche dell’immunità possano essere spiegate attraverso lo studio delle proprietà chimiche dell’anticorpo e dell’antigene, e nel volgere di pochi anni prende forma l’immunochimica. Tuttavia i concetti e gli apparati tecnici a disposizione dei chimici e dei fisiologi non sono ancora adeguati per stabilire la natura dell’anticorpo, né per comprendere le basi chimiche dell’interazione antigene-anticorpo. L’immunologia dovrà dunque passare attraverso una lunga stagione di riflusso teorico, durante la quale non mancheranno importanti contributi a livello di conoscenze sulla chimica-fisica dell’interazione antigene-anticorpo e sulle basi immunitarie delle risposte allergiche, per riemergere come scienza biomedica fondamentale solo dopo la seconda guerra mondiale.