«Su questa pietra edificherò la mia Chiesa»
Organizzazione ecclesiastica fra III e IV secolo
Per avere una panoramica complessiva di come fosse articolata la Chiesa a ridosso del regno di Costantino, è necessario considerare vari elementi, che vanno dall’analisi delle fonti a quella dei problemi storici concernenti, da un lato, i rapporti tra potere politico e organizzazione ecclesiastica all’interno dell’Impero romano e, dall’altro, la specificità dell’organizzazione delle singole comunità cristiane1.
Ogni movimento sociale o religioso, per poter sopravvivere, ha bisogno di crearsi delle strutture e darsi determinate norme di vita e di organizzazione. I cristiani dei primi secoli si danno indicazioni pratiche e organizzative, per regolare la vita dei singoli e delle comunità, e così nascono testi di carattere canonico e liturgico. Questo tipo di letteratura è in genere molto ripetitivo e di stampo giuridico. Le opere, quando non sono emanazioni conciliari, normalmente sono anonime e molto varie per contenuto e valore. Per i primi quattro secoli non si può parlare di diritto canonico, che verrà all’esistenza più tardi, poiché il contenuto di questi scritti spazia dalle norme etiche ai consigli pratici con indicazioni di carattere organizzativo. Il loro utilizzo è difficile, perché normalmente non se ne conosce la provenienza, se non in maniera ipotetica, e neppure è nota la loro effettiva applicazione nello spazio e nel tempo. Siamo abituati a ricostruire le istituzioni della Chiesa antica utilizzando questa letteratura e i canoni conciliari, sia ecumenici sia locali. Questi ultimi pongono altri problemi che vanno nella stessa direzione, poiché non conosciamo la loro ricezione e la loro forza obbligante. Per esempio, i canoni dei concili greci orientali, eccetto quelli di Nicea, erano del tutto ignoti in Occidente nel IV secolo; quelli occidentali non sono stati mai conosciuti in Oriente, fatta eccezione per il cosiddetto concilio di Cartagine del 419 a partire dal VI secolo. Le opere anonime della Collectio Veronensis (i materiali un tempo denominati della Traditio Apostolica, la Didascalia e i Canones ecclesiastici apostolorum) non sembra siano state diffuse in Occidente perché se ne conosce un solo manoscritto, palinsesto di una traduzione fatta alla fine del IV secolo. La tradizione orale vivente – che non siamo in grado di ricostruire – delle singole Chiese e la prassi concreta, che si impara con l’esercizio e l’esperienza, determinano l’organizzazione istituzionale e la liturgia.
La Chiesa, staccatasi dalla sua matrice giudaica e dal suo ambiente originario, e influenzata dalle nuove condizioni di vita, a seconda delle regioni nelle quali si espande, sviluppa lentamente e progressivamente le sue istituzioni, nel corso dei primi secoli. Tali istituzioni risentono e talvolta si ispirano all’ambiente sociale in cui nascono e di qui deriva la loro diversità nelle varie regioni. Questa esigenza viene espressamente messa in rilievo in uno dei documenti più antichi, i Canones ecclesiastici apostolorum (composti verso il 300 in Egitto)2. L’anonimo autore mette in bocca ai singoli apostoli le varie prescrizioni, senza ricorrere a un genere romanzato, come avviene per altri testi apocrifi. Tutto ciò accade per prescrizione di Gesù, che fa obbligo a loro di provvedere ai singoli ministeri, prima della loro separazione. E ciascuno degli apostoli, a loro volta, dice come deve essere un ministero. Tutti i membri della comunità, nel proprio ruolo, devono restare fedeli a queste prescrizioni che provengono dalle origini. Il complesso di norme, ridotte inizialmente all’essenziale, cresce in base alle esigenze di sviluppo e si trasmette oralmente nelle varie comunità. Così, per esempio, da Tertulliano e soprattutto da Cipriano, con i loro riferimenti, possiamo conoscere quali erano le tradizioni della Chiesa africana del III secolo, tradizioni che non siamo in grado di ricostruire nei diversi passaggi della loro costituzione, né possiamo sapere come queste tradizioni si ampliano e si modificano nel corso del IV secolo.
Il genere di letteratura cosiddetta canonico-liturgica, per ricostruire l’organizzazione delle comunità cristiane antiche, è affidabile solo relativamente. Non sappiamo infatti quanta diffusione e quale ricezione questo tipo di fonte abbia avuto nelle varie province. Le norme che si trovano in un documento letterario, prodotto in un determinato ambiente, non si possono generalizzare, perché spesso hanno valore solo locale. Inoltre un testo specifico può rispecchiare la realtà dell’organizzazione delle comunità di una certa area geografica, oppure può esprimere il desiderio dell’autore di migliorare la spiritualità e l’organizzazione delle comunità in relazione alle accresciute esigenze di grandezza e al cambiamento dei tempi sociali, politici e religiosi. I testi posteriori riutilizzano quelli anteriori con omissioni di elementi non più in uso, con aggiunte, spostamenti di brani, integrazioni e interpolazioni. Pertanto non sono opere di un singolo autore, ma di più editori che riutilizzano testi anteriori. Per questo gli studiosi moderni cercano di rintracciare le fonti, i diversi adattamenti successivi e le ispirazioni3. Si tratta di un’operazione delicata, che richiede sensibilità filologica e storica e che spesso dà luogo a ricostruzioni fantasiose. Talvolta l’editore antico successivo cerca anche di correggere una teologia più arcaica disseminata in vari punti del testo. Inoltre questi scritti, proprio per la loro utilità pratica, appartengono a un genere che possiamo definire dei ‘testi viventi’: sono soggetti a continui adattamenti regionali e locali non solo successivi, ma anche contemporanei a seconda delle Chiese nelle quali essi ottengono credito. Tuttavia non bisogna dimenticare che in queste opere anonime non si sa quanto sia inventato dall’autore e quanto invece risalga allo specifico della comunità di appartenenza dell’autore stesso.
I materiali testuali più antichi con carattere canonico-liturgico, prima di Costantino, sono: la Didachè, la cosiddetta Traditio apostolica, la Didascalia e i Canones ecclesiastici apostolorum (da non confondersi con le Costituzioni apostoliche, che sono posteriori). Benché tale letteratura nei primi secoli sia scritta in greco, essa è stata tradotta anche in latino – influendo pertanto anche nella Chiesa occidentale – e in altre lingue orientali. La Didascalia fu composta in Siria, verso il 230 e si presenta come trascrizione dei comandi degli apostoli: «Noi iniziamo a scrivere il libro della Didascalia come i santi apostoli di Nostro Signore ce l’hanno data, con riguardo ai capi della santa Chiesa, e i canoni e le leggi per i credenti, come essi hanno comandato»4. Scomparsone il testo originale greco (si conserva un solo frammento5), la Didascalia ci è giunta riscritta nelle Costituzioni apostoliche e in diverse traduzioni (circa un terzo in latino, completa in siriaco, in copto, in arabo e in etiopico). Il suo anonimo autore, più probabilmente un vescovo che un diacono, presenta un quadro completo delle norme che devono regolare la vita di una comunità cristiana attorno al suo vescovo. Questi è il centro e la guida spirituale e amministrativa della comunità, già ben organizzata; è il medico di tutti e il dispensatore della Parola.
Altri testi sono utili per il nostro periodo: il Testamento di nostro Signore Gesù Cristo, di cui si conservano frammenti in greco e latino, che è giunto per intero nelle lingue orientali (siriaco, copto, arabo, etiopico); i Canones ecclesiastici apostolorum; i Canoni di Ippolito (un raccolta di 38 canoni, conservati solo in lingua araba); le Costituzioni apostoliche, che, anche se vengono composte attorno al 380, riportano tradizioni anteriori.
Un’altra fonte sono le decisioni conciliari degli inizi del IV secolo: Ancira, Neocesarea, Nicea, Laodicea, etc. Questi testi vanno usati insieme a quanto dicono gli scrittori cristiani loro contemporanei. I testi conciliari, infatti, da una parte rispecchiano la situazione esistente, dall’altro intendono correggere certi abusi.
Secondo Eusebio di Cesarea, Costantino conosce il cristianesimo alla vigilia della battaglia di ponte Milvio. Suo padre Costanzo è pagano. Lo è anche la madre Elena, che, secondo Eusebio, sarebbe stata poi convertita da suo figlio6. Si può pensare che tale affermazione serva solo a elogiare Costantino, perché in realtà egli aveva già alcune conoscenze di questa religione attraverso certi cristiani a lui vicini, presenti a corte, o vescovi conosciuti in Gallia. Ha sentito parlare e assistito alla persecuzione ed è a conoscenza dei martiri cristiani. Quando inizia la sua politica religiosa a favore del cristianesimo, tra la fine del 312 e gli inizi del 313, Costantino ha già idee chiare. Ha infatti scelto le Chiese di Milziade di Roma e di Ceciliano di Cartagine, capo della «legittima e santissima Chiesa cattolica»7. Almeno dagli inizi del 313, ma forse prima, ha al suo fianco, come collaboratore, Ossio di Cordova. Infatti nella lettera scritta a Ceciliano, inviata non più tardi dei primi giorni di marzo del 313, Costantino parla di un documento redatto da Ossio di Cordova, che dà istruzioni sulla ripartizione di una somma inviata dall’imperatore. Costantino pertanto sceglie la Chiesa cattolica episcopale e sinodale per risolvere i problemi religiosi che gli si presentano, a cominciare dall’esclusione dei donatisti. Pertanto l’imperatore conosce la Chiesa cristiana: è al corrente sia della sua organizzazione locale nei vari ministeri, sia dell’importanza e dell’articolazione delle comunità, nonché dei loro collegamenti.
Subito dopo la vittoria di ponte Milvio di Costantino su Massenzio, il 28 ottobre 312, una lunga serie di benefici conferiti alla Chiesa cattolica produce come effetto un incremento del clero. In particolare è a partire dal 313 che Costantino procede a una serie di concessioni. Infatti agli inizi di quest’anno l’imperatore concede che i ministri cattolici siano esentati dai munera8. Questo è confermato dalla relazione che Anullino invia all’imperatore il 15 aprile del 3139. Agostino fa spesso riferimento a tale testo. Forse dello stesso anno è la legge di Cod. Theod. XVI 2,1 che constata che i chierici della Chiesa cattolica, nonostante i privilegi loro concessi, sono intimoriti da una fazione di eretici e pertanto vengono inseriti nella curia (o destinati a uffici) o incaricati della riscossione di tasse. Ancora in Cod. Theod. XVI 2,2, che pure potrebbe essere del 313 – anche se la datazione manoscritta è al 319 –, viene ribadita l’esenzione dai munera per i chierici, affinché non siano distolti, per un sacrilego livore di alcuni, dai servizi divini. Tale esenzione favorisce gli ingressi dei cristiani nel clero, allettati dai privilegi di cui avrebbero potuto godere in quanto chierici. I chierici devono essere aumentati sensibilmente e immediatamente senza un discernimento da parte dei vescovi. Forse questi sono contenti di accrescere il numero dei componenti del clero, ma disattenti sulla qualità di queste persone. Atanasio, nella sua invettiva contro i meliziani, critica coloro che, benché pagani e membri della curia, diventano cristiani e al contempo anche vescovi, raccogliendo sussidi, per sfuggire alle liturgie10. L’attrazione per la funzione episcopale mostra parimenti come essa, oltre ai privilegi che permetteva di acquistare, era percepita come un segno evidente di promozione sociale, in un momento in cui la Chiesa, perfettamente integrata nelle strutture statali, partecipa del loro potere. Ora, se il clero proviene da questo ceto della società, è in grado di svolgere anche un ruolo specifico e influente. L’aumento della popolazione cristiana sia nelle città sia nei villaggi richiede un clero più numeroso, ma anche preparato; nelle grandi città ci sono più chiese, nelle quali deve svolgersi il servizio liturgico. Le facilitazioni a esso concesse forse hanno determinato un afflusso nel clero maggiore del previsto, con grave detrimento dei servizi pubblici necessari, ma anche della qualità del clero.
Nel 329 Costantino cambia radicalmente politica con la costituzione, riportata in Cod. Theod. XVI 2,6, valida sia per l’Oriente sia per l’Occidente, verso i ministri cattolici della religione cristiana, dopo la grande generosità del 313 per l’Occidente romano. La legge stabilisce forti restrizioni per l’entrata nel clero. L’esenzione non deve essere concessa per richiesta popolare (vulgari consensu). Poiché non è necessario un clero numeroso oltre misura (citra modum), d’ora in poi si può aggregare all’ordine clericale qualcuno solo per rimpiazzare un chierico defunto. Il nuovo chierico non deve avere origine curiale – progenie municeps (un civis curialis) – poiché, anche se giovane, è già o sarà successivamente membro della curia. L’ultima restrizione stabilisce che il candidato non debba possedere beni immobili, che lo possano rendere idoneo a sopportare i munera civilia. Un cittadino con sufficienti beni (patrimonio idoneus), e quindi adatto a essere membro della curia, non può entrare nel clero. In caso di divergenza e di dubbio bisogna dare ragione alle richieste dell’assemblea municipale per motivo della aequitas. Il legislatore aggiunge una considerazione di responsabilità sociale e civica: coloro che hanno beni terreni devono provvedere alle necessità del secolo presente (opulentos enim saeculi subire necessitates oportet), mentre i pauperes devono essere sostentati dai beni della Chiesa (pauperes ecclesiarum divitiis sustentari). Naturalmente i pauperes chierici non sono i poveri in senso moderno, bensì coloro che non hanno sufficiente ricchezza per essere adatti alla curia. La quantità della ricchezza richiesta variava da città a città, a seconda della sua grandezza. Costantino suppone che le singole Chiese ormai possiedano sufficienti possibilità economiche per sostentare il proprio clero (ecclesiarum divitiis), grazie a donazioni. Le comunità ecclesiali non hanno libertà di scelta. In realtà lo scopo principale della nuova legislazione è di non indebolire le curie e solo i curiales interessano all’imperatore, non tanto gli altri, che non sono costretti alla curia. Può esserci un aumento del clero, purché i suoi membri siano di bassa condizione economica. Difatti le lamentele che noi conosciamo per mancanza di clero riguardano proprio l’appartenenza agli ordines.
La legislazione costantiniana – con la debita correzione da parte di Valentiniano I – non favorisce la Chiesa nel reclutamento del suo personale, e ciò comporta varie conseguenze. Innanzitutto queste leggi, che impongono forti limitazioni alle ‘vocazioni’, non facilitano la missione della Chiesa. L’aumento del numero dei cristiani nelle città e l’espansione della cristianizzazione nei villaggi e nei latifondi richiede un maggior numero di persone, che a tempo pieno e ben preparate si dedichino al servizio della comunità. Non è possibile organizzare le missioni o inviare personale altrove; la scarsità del clero ha spinto Costanzo a concedere di nuovo l’immunità clericis ac iuvenibus11 – dove il termine iuvenes dovrebbe indicare i membri del clero inferiore. In secondo luogo chierici (vescovi, presbiteri, diaconi, etc.) possidenti sono richiamati alla curia e quindi diventano membri del consiglio municipale. Essi devono partecipare alle assemblee, prendere decisioni (che possono riguardare anche il culto pagano e i templi) e adempiere anche alle funzioni proprie del loro ruolo. Non sembra che la legge del 32312, che proibisce di costringere il clero cattolico a partecipare ai sacrifici pubblici, riguardi chierici cattolici curiali. Altra conseguenza negativa per la Chiesa della legislazione costantiniana, pur a essa favorevole, è il basso livello culturale del clero, che deve essere scelto tra i pauperes, i quali non sono stati in grado di procurarsi una buona istruzione profana. Normalmente solo i figli dei curiales possono frequentare le scuole di un qualche livello superiore. Patrizio, un curialis di Tagaste, non aveva la possibilità economica di inviare suo figlio Agostino a studiare a Cartagine; gli fu possibile solo con l’aiuto del ricco Romaniano. Il reclutamento del clero è un settore sensibile per indicare il livello culturale dei chierici. Un ulteriore effetto collaterale, per la Chiesa, dei vantaggi a essa concessi concerne quelle categorie di persone che, per leggi imperiali, non possono entrare nel clero: schiavi, coloni adscripticii (originales). A Roma, nel 36513, viene proibita l’entrata nel clero ai fornai e, nel 445, vengono interdetti tutti i membri delle corporazioni14. Analogamente, nel 452 questo divieto è esteso ai collegiati di altre città15. Ci sono anche le esclusioni derivanti dalla legislazione ecclesiastica: non possono essere ordinati i membri di alcune categorie sociali. Di qui deriva la domanda relativa a chi potesse entrare nel clero. Da quale ceto sociale proveniva il clero ordinato? Un ultimo esito negativo concerne, infine, la limitazione delle esenzioni ai soli ortodossi e non agli scismatici o agli eretici. È un modo di fare pressione per favorire l’unità di tutti i cristiani a discapito di gruppi e divisioni. In questi tempi di lotte dottrinali e di confusione bisogna dimostrare la propria ortodossia di fronte alle autorità civili; che spesso nel quarto secolo erano ancora pagane.
Questo complesso di leggi, ecclesiastiche e civili, può contribuire allo studio sociologico e intellettuale del clero del IV e V secolo.
Per quanto riguarda l’organizzazione delle comunità cristiane, un lungo cammino è stato compiuto a partire dalla prima generazione cristiana con incisive trasformazioni fino al concilio di Nicea del 325. Non è compito del presente saggio ricostruire le tappe di questo cammino, che è stato variegato e non è documentabile con precisione nello spazio e nel tempo. Si può solo accennare a qualche momento che segna un salto di qualità o che è un segnale di qualcosa in fieri.
Eusebio di Cesarea scrive: «[gli apostoli] nelle varie località straniere si limitavano a gettare le fondamenta della fede, mettendovi poi, come pastori, altri, cui affidavano la cura di quanti erano appena stati accolti tra loro, mentre essi ripartivano per nuove regioni e nuove genti, con la grazia e la collaborazione di Dio»16.
Lo storico ecclesiastico mostra così il passaggio dalla condizione di comunità con ministri itineranti a quella di ministri stabili che hanno cura di una comunità locale specifica, la quale si sente in relazione con le altre.
I cristiani sin dagli inizi sono ossessionati dalle diversità e dall’unità nella disciplina e nella dottrina in relazione alla preghiera di Gesù «perché tutti siano una sola cosa»17. Le diversità non diminuiscono nei secoli successivi, ma si accentuano. Si parta anzitutto dall’esperienza paolina: Paolo, per ben due volte, si reca a Gerusalemme per confrontarsi con Pietro e possibilmente con qualche altra ‘colonna della Chiesa’ madre. È importante la testimonianza paolina: dopo tre anni dalla sua conversione l’apostolo si reca a Gerusalemme per incontrare Pietro, perché la città si presta di più all’elaborazione della memoria di Gesù, in quanto lì erano avvenuti i tragici, ultimi avvenimenti della sua vita. Ora, Paolo scrive: «In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco»18. Paolo già conosce Gesù, ha elaborato la sua teologia e va a trovare Pietro perché, se da una parte vuole affermare la sua indipendenza dalla Chiesa di Gerusalemme, dall’altra desidera conoscere meglio la memoria di Gesù. Per capire dove sono andati gli altri apostoli se non sono più a Gerusalemme, Paolo compie ancora un altro importante viaggio a Gerusalemme circa quattordici anni dopo, verso l’anno 51:
Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito a una rivelazione. Esposi loro il Vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano19.
[...] riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione20.
In questa visita Paolo ritrova Pietro e Giacomo e anche Giovanni. È questo il cosiddetto concilio di Gerusalemme.
A questo punto è necessario fare un piccolo salto di circa quarant’anni, citando una lettera scritta a Roma, a nome della comunità dove quasi vent’anni prima erano morti Paolo e Pietro. Essa comincia con parole forti e inusuali nel linguaggio del tempo: «La Chiesa di Dio che è pellegrina in Roma alla Chiesa di Dio che è pellegrina in Corinto». Tutte e due le Chiese sono di Dio, sua proprietà. Ma una di esse si sente in dovere di intervenire negli affari interni dell’altra e si rammarica di intervenire in ritardo in relazione «alle questioni che si agitano presso di voi [...] ovvero all’empia e sacrilega sedizione, aberrante ed estranea agli eletti di Dio»21. L’autore aggiunge che gli apostoli «predicando per i villaggi e le città, costituirono le loro primizie, provandole con lo Spirito, ovvero i vescovi e i diaconi dei futuri credenti»22, e prosegue: «E diedero l’ordine che alla loro morte succedessero nel loro ministero altri uomini provati»23 e pertanto «riteniamo che non sia giusto allontanare dal loro servizio [leitourgia] coloro che furono istituiti da quegli apostoli [...], che prestarono rettamente servizio al gregge di Cristo»24. La lettera considera i vari ministri – vescovi e diaconi, non parla dei presbiteri – come coloro che svolgono una leitourgia (un’opera pubblica), in latino un munus. I ministri svolgono una liturgia permanente, stabile e vitalizia. È evidente che, nella lettera, il termine leitourgia, pur mantenendo il significato originario di prestazione per la comunità, acquista caratteri diversi: è oggetto di un canone (kanon) e di una regola (epinome, che l’antica versione latina della lettera rende con lex). Tutto il vocabolario di Clemente Romano, autore della lettera, va in questa direzione: kathistemi (‘costituire, nominare’), diadechomai (termine tecnico per la successione in una carica), hypotasso (‘sottomettersi a un’autorità’; per converso, coloro che disobbediscono sono responsabili di una stasis, ‘guerra civile, insurrezione’)25.
Eusebio di Cesarea, in numerose occasioni26, usa il termine leitourgia per indicare l’ufficio episcopale come sinonimo di episcopè o di episcopos; talvolta usa il termine ‘pastore’. In un brano molto significativo Eusebio alterna i vari termini per indicare la stessa realtà. Scrive: «Ebbene, morto Igino dopo il quarto anno di episcope, Pio assunse il ministero [leiturgia] di Roma. Ad Alessandria fu designato pastore [poimen] Marco [...]; deceduto Marco dopo dieci anni di leitourgia, ricevette la leitourgia della chiesa di Alessandria Celadione»27.
Eusebio adopera anche l’espressione ‘diaconia dell’episcope’28 o ‘liturgia dell’episcope’29. Pertanto il vescovo svolge un servizio pubblico nella nuova città, nell’ecclesia di Dio, una comunità di cittadini (cioè di battezzati). Il battesimo conferisce la cittadinanza dei membri della Chiesa. Come per nascita da cives romani si diventa civis (polites), così con la nuova nascita (battesimo) si diventa cittadino della nuova politeia.
Qualche decennio più tardi le Lettere del vescovo Ignazio di Antiochia testimoniano ampiamente la ‘triade’ composta da vescovi-presbiteri-diaconi, esprimendola in maniera decrescente o crescente e definendola negli obblighi e nei diritti.
Nel frattempo si sviluppa l’esigenza della koinonia nella disciplina e nella fede mediante l’istituzione della sinodalità. Nella seconda metà del II secolo, in relazione alla Pasqua, ci sono dispute, contatti e viaggi per risolvere le divergenze, ma soprattutto si convocano concili. La prassi conciliare, sempre a carattere regionale, si sviluppa lentamente, ma le prime testimonianze di assemblee importanti risalgono appunto alla seconda metà del II secolo in ambiente orientale, specialmente in Asia Minore. Nella provincia romana di Asia (la parte occidentale della penisola anatolica) si hanno assemblee episcopali per combattere il montanismo30. Su richiesta di papa Vittore (193-202) si riuniscono concili al fine di stabilire una data uniforme per celebrare la Pasqua31. Verso il 230 si tiene un’importante riunione episcopale a Iconio, nella Licaonia; ne parla anche Firmiliano di Cesarea, che era stato presente insieme con i vescovi «della Galazia, della Cilicia e delle altre regioni vicine»32. In questo sinodo viene dibattuta anche la questione della validità del battesimo amministrato dagli eretici33. Ora, Firmiliano scrive a Cipriano: «Si rende necessario che ogni anno noi, presbiteri e vescovi, ci raduniamo in assemblea, per regolare quanto è stato affidato al nostro zelo, per provvedere alle questioni più gravi di comune accordo»34. Ai primi concili dell’Asia Minore si riferisce Tertulliano quando scrive che nelle regioni orientali si riuniscono «concili formati da tutte le Chiese nei quali si trattavano in comune le questioni più importanti»35. La sinodalità è non solo a livello interdiocesano, ma anche nell’ambito della stessa comunità. Le comunità locali si riuniscono intorno al vescovo per la scelta del clero e per prendere le decisioni più importanti. L’attività conciliare si sviluppa e si organizza meglio nel corso del III secolo. Era la prassi di Cipriano a Cartagine e a Roma. Il concilio di Nicea del 325 codifica una prassi, abbastanza comune agli inizi del IV secolo, quando prescrive al canone quinto: «È sembrato opportuno che in ogni provincia abbia luogo, due volte l’anno, un sinodo, affinché tali questioni vengano esaminate da tutti i vescovi della provincia riuniti insieme nello stesso luogo».
Come già suggerito da Eusebio, ai ministri itineranti si sostituiscono quelli stabili. Clemente Romano, già alla fine del I secolo, parla dei ministri stabili ed eletti a vita, che non si possono sostituire a piacimento36. Il cristianesimo si presenta anzitutto come fenomeno urbano, dove la guida delle singole comunità ha carattere piuttosto collegiale, ma con grande varietà di situazioni. In momenti diversi l’autorità locale su una comunità si concentra nelle mani del vescovo.
Abbiamo due generi di fonti per delineare la figura del vescovo che si va costruendo tra il II e il III secolo. La prima fonte di informazioni tende a tracciare l’immagine ideale del santo vescovo, la seconda invece offre informazioni sulle deficienze, le aberrazioni, le bramosie e le ambizioni dei vescovi. Questa figura di guida si elabora e si sviluppa lentamente. Innanzitutto c’è una stretta correlazione tra il vescovo e la sua comunità locale, una sorta di matrimonio spirituale inscindibile. Questa concezione è alla base dell’ecclesiologia di comunione tra le Chiese. La cattolicità è intrinseca in ogni Chiesa locale, che per sua natura è cattolica non nel senso geografico, ma in quanto destinata ad accogliere tutti.
Quando il vescovo si afferma come guida unica – si parla di episcopato monarchico – egli è proprio il capo della comunità: il suo potere si accresce, in quanto è maestro che insegna (il suo simbolo è la cattedra); è liturgo, perché celebra la liturgia; istruisce inoltre i fedeli con l’insegnamento e la predicazione omiletica; funge infine da giudice nella comunità. Può sembrare che il vescovo si sostituisca alle autorità civili, almeno nell’ambito delle comunità cristiane: Gregorio Taumaturgo ad esempio, verso l’anno 260, condanna e assolve persone che hanno commesso violenze, rubato, abusato di donne. In ogni caso il vescovo è un giudice con il potere di decidere chi espellere dalla comunità; è l’amministratore dei beni della Chiesa; deve essere attento ai bisognosi di ogni genere, alle vedove, alle vergini consacrate, agli orfani, ai carcerati, all’ospitalità; assolve e condanna i peccatori; mediante la sua predicazione indica ai fedeli i modelli di condotta da seguire; decide sull’ammissione dei battezzandi e la riammissione dei colpevoli; nomina, come membri del clero, persone di sua scelta, pur consultando altri membri del clero e fedeli; paga gli altri membri del clero.
Ogni comunità ha un solo vescovo che la rappresenta anche presso le altre Chiese o nei vari sinodi. È il vescovo a decidere chi ammettere, espellere o riammettere nella comunità. In linea teorica egli non può essere trasferito ad altra sede, anche se conosciamo molte eccezioni; è obbligato alla residenza37; non può compiere ordinazioni al di fuori della sua diocesi, né ordinare persone di altre diocesi oppure scomunicate da altri vescovi. Amministra la giustizia nell’ambito della comunità; ha cura dei poveri e di tutti i bisognosi. Deve preoccuparsi di tutto il clero e della sua condotta. Nel suo ruolo di presidente egli deve edificare il popolo santo, la comunità, corpo di Cristo. In una parola deve pascere il gregge a lui affidato. Il vescovo è il successore degli apostoli, rappresentante di Dio nella comunità. È scelto da Dio; opporsi a lui è resistere a Dio stesso; chi non è con il vescovo, non è nella Chiesa. Per questo si esigono da lui le virtù e le capacità necessarie per essere di esempio a tutti e per adempiere i suoi numerosi doveri. La legislazione diventa sempre più esigente in merito all’ammissione all’episcopato. Deve essere ‘specchio’ per tutti. Egli governa la sua Chiesa fino alla morte e non può essere deposto, se non in caso di grave inadempienza, di indegnità o di eresia, in genere da un concilio provinciale.
La prima e fondamentale funzione del vescovo è la predicazione, sua riserva esclusiva: egli deve istruire i fedeli, conservarne la purezza della fede, allontanarli dall’errore, correggere gli erranti. Anche se tutto ciò è un peso ingrato, non deve abbandonarlo, in quanto è un precetto divino. Inoltre il vescovo è centro della liturgia: presiede l’eucarestia, amministra i sacramenti dell’iniziazione, riammette i pentiti, consacra le vergini, le vedove, le chiese, l’olio (crisma). In una parola deve preoccuparsi delle anime e dei corpi della sua comunità e la sua buona condotta giova a tutti, sia nella vita presente sia in quella futura: egli deve essere subordinato alla Scrittura, su cui basa i suoi giudizi; deve tenere unita la sua comunità contro le divisioni; deve combattere le deviazioni dottrinali; deve rappresentare la sua comunità presso le altre. La sua stessa elezione e la sua ordinazione avvengono alla presenza e con la partecipazione di tre o più vescovi, come anche richiede il concilio di Nicea38. In certi casi la cifra dei vescovi consacranti è molto elevata. Si pensi all’ordinazione di Maiorino a Cartagine nel 307, in cui se ne contano settanta, alcuni provenienti da altre province. La sede cartaginese è così importante che alla scelta e alla consacrazione del vescovo prendono parte anche i vescovi della lontana Numidia.
Tre elementi concorrono alla corretta scelta del vescovo: il giudizio di altri vescovi vicini, l’approvazione del clero locale e quello della comunità locale. Colui che possieda queste tre condizioni è considerato eletto da Dio. In realtà la competizione spesso dà luogo alla ribellione e alla presenza di più vescovi nella sede episcopale. Un esempio-limite di elezione contrastata è quanto accade a Cirta (Constantina, Numidia) forse nel 305. Qui due fazioni difendono il proprio candidato e sembra che la più qualificata, appoggiata dal clero, rifiuti l’elezione del suddiacono Silvano, che aveva consegnato nella Grande Persecuzione le Scritture e le memorie cristiane alle autorità politiche, e voglia un civis noster degno e non un traditor39. Silvano viene comunque eletto e consacra presbitero un certo Vittore, che gli consegna una consistente somma di denaro (venti folles), con cui egli a sua volta ricompensa i vescovi che lo hanno consacrato. Anche la ricca Lucilla di Cartagine finanzia questi vescovi (in tal caso con quattrocento folles), alcuni dei quali andranno a Cartagine per ordinare un vescovo dissidente (in una data incerta). I vescovi si tengono tutto il denaro, anche se una parte era destinata ai poveri (il vescovo Silvano di Cirta è accusato di essere fur rerum pauperum40). Due vescovi e due presbiteri rubano anche nel tempio di Serapide. Ora, Silvano è stato un traditor, è stato eletto con la violenza, ha preso un oggetto dal tempio di Serapide, ha ricevuto soldi per ordinare un presbitero e ha ordinato di lapidare il suo diacono Nundinario. Tutto il clero e i seniores di Cirta conoscono i crimini del loro vescovo e sono così suoi complici. Addirittura dieci (o nove) tra i vescovi consacranti hanno consegnato i libri sacri e le memorie cristiane (erano cioè traditores), e uno di essi è persino un omicida41. Nel 320 il contrasto, le lotte e le malefatte di vescovi e clero vengono esposte davanti alle autorità romane, che con impassibilità, imparzialità e correttezza burocratica fanno indagini per riferire all’imperatore Costantino.
I Canones ecclesiastici apostolorum, già menzionati, offrono il quadro di come poteva essere organizzata la comunità locale in questo periodo. Il testo presenta Gesù mentre dice agli apostoli:
Prima di divedersi le province come in sorte, regolati la loro divisione, la dignità dei vescovi, la posizione dei presbiteri, la funzione di assistente del diacono, l’istruzione dei lettori, la condotta integra delle vedove e tutto ciò che è necessario per fondare e consolidare la Chiesa, affinché tutti, conoscendo l’immagine delle cose celesti, siano attenti a conservarsi puri dalla colpa, sappiano che debbono rendere ragione, nel grande giorno del giudizio, di ciò che non avranno praticato dopo aver ascoltato42.
Il testo rafforza la validità e l’obbligatorietà delle varie prescrizioni, oltre che con il comando di Gesù e la loro origine apostolica, anche con il giudizio finale di Dio sui comportamenti. Siccome queste prescrizioni provengono dagli apostoli, tutti i membri della comunità, ciascuno nel proprio ruolo, devono osservarle. Il testo citato, che ci offre l’immagine di una grande comunità dalle varie articolazioni, ormai si colloca a un grado avanzato nello sviluppo dell’organizzazione ecclesiastica.
Il vescovo locale, mediante la successione che è come una catena ininterrotta, viene fatto risalire ai tempi degli apostoli e, mediante l’ordinazione, egli si inserisce in una rete di relazioni. Il consacrante normalmente è il metropolita. L’ordinazione genera una sorta di filiazione tra la Chiesa del vescovo ordinante e la Chiesa del vescovo ordinato. Essa trasmette lo Spirito Santo, che è spirito di autorità. Il vescovo è protetto da diverse sanzioni, perché chi si oppone a lui si oppone a Dio: egli dovrà rendere conto a Dio della sua condotta nel giorno del giudizio.
La figura del vescovo e delle sue funzioni si vanno precisando attraverso l’esperienza, come mostrano 1Tm e le lettere di Ignazio. Erma presenta la figura della Chiesa, che ammonisce: «Dico a voi che siete i capi della Chiesa e occupate i primi posti» di non essere pieni di veleno, ma in pace, altrimenti «come volete ammaestrare gli eletti del Signore, se voi non siete ammaestrati? Dunque, ammaestratevi l’un l’altro e siate in pace tra voi»43. Nel martirio di Perpetua, gli angeli rimproverano il vescovo Ottato, dicendo: «Correggi il tuo popolo [plebem tuam], i tuoi fedeli vengono a te come se tornassero dalle gare del circo, litigando sulle squadre»44.
Il governo di una comunità religiosa affidato a una sola persona per tutta la vita è cosa non riscontrabile in altre religioni antiche, nemmeno nel giudaismo. Il vescovo ha una grande autorità, e l’autorità eccessiva genera tentazione (Cipriano elenca i difetti dei vescovi; così anche Origene in hom. 22 in Num. 4). Ora, se questa è la norma, in realtà fanno notizia le trasgressioni e le deficienze. L’ufficio del vescovo – e del modo in cui si è sviluppato – è ben descritto dalla Didascalia (III secolo) e dalla preghiera di ordinazione, un esempio della quale può essere reperito nella cosiddetta Traditio apostolica, testo risalente almeno agli inizi del III secolo, dal quale emerge essere una sintesi dei doveri dei vescovi. Essa afferma che la persona scelta dal clero e dal popolo è stata scelta da Dio. Si chiede a Dio che effonda «ora la potenza dello Spirito sovrano che tu hai dato al tuo diletto figlio Gesù Cristo»45. La Didascalia dedica una speciale trattazione ai vescovi che sono i vostri sommi sacerdoti, e ci sono diaconi, presbiteri, vedove e orfani. Il vostro sommo sacerdote e levita è il vescovo, che vi amministra la parola e che è il vostro mediatore; è anche per voi un maestro e, dopo Dio, il padre che vi ha generati per mezzo dell’acqua; egli è il vostro capo e la vostra guida, è il re potente che vi conduce all’Onnipotente. Onoratelo come Dio, poiché il vescovo vi presiede in quanto è per voi figura di Dio. Il diacono è tra voi come la figura di Cristo e dovete amarlo [...]. I presbiteri saranno considerati da voi come figure degli apostoli. Le vedove e gli orfani come figure dell’altare (9,4-7)46.
L’autore insiste nell’affermare che il vescovo ha la funzione di giudice e suggerisce che anche i pagani possono ascoltare la parola.
Anche se tutto si svolge secondo questa disposizione ideale, possono sorgere problemi provenienti da ambizioni, da invidie, dal rifiuto del comportamento del vescovo. Ciò accade quando il vescovo abusa del suo potere, non si dedica alla cura del gregge, diventa un tiranno, pensa molto di più alla città terrestre che a quella celeste, rinnega la fede nella persecuzione o diventa eretico. Nelle decisioni, in tali casi, l’istanza superiore è il sinodo, che si svolge a diversi livelli: a quello di una provincia ecclesiastica corrispondente alla provincia civile, a quello di più province vicine, oppure di molte province anche distanti. Al tempo di Cipriano molti vescovi convengono a Cartagine, convocati dal vescovo della città. Alcuni vescovi vi si recano anche da molto lontano.
Per vedere come si è organizzata una grande comunità possiamo leggere il brano, molto citato, di una lettera scritta da Cornelio, vescovo di Roma, verso il 251, al suo collega di Antiochia Fabio: «In essa [nella Chiesa di Roma] vi sono quarantasei presbiteri, sette diaconi, sette suddiaconi, quarantadue accoliti, cinquantadue esorcisti, lettori e sacrestani»47. A capo di essa vi è e vi deve essere un solo vescovo, Cornelio, contro Novaziano che è stato ordinato abusivamente. Non vi può assolutamente essere cattedra – simbolo della sede episcopale – contro cattedra48. Questa organizzazione è presente ormai in tutte le comunità urbane. Infatti cinquant’anni dopo, a Cirta, capitale della Numidia, secondo gli atti del verbale del 13 maggio del 303 (ad domum in qua christiani conveniebant), sono presenti: un vescovo, due (o tre) presbiteri49, due diaconi, quattro suddiaconi, sei fossori. Alla stessa comunità appartengono anche altri fossori, personaggi importanti per la sepoltura dei cristiani defunti, anche se al momento sono assenti. Ci sono pure sette lettori e sembra che ve ne siano altri ancora50. La lettura del verbale fatta dal curatore della colonia dimostra una traditio (consegna dei testi sacri e delle memorie cristiane alle autorità politiche) collettiva da parte del clero, che segue l’esempio del suo vescovo Paolo.
Con il termine ‘clero’ indichiamo una varietà di ministri, che svolgono un compito nell’ambito del servizio liturgico e di servizio alle comunità. Il concilio di Serdica del 342/343, forse ispirandosi alle carriere pubbliche, proibisce di accedere all’episcopato prima di essere passati per altri ministeri, e la norma si impone e si precisa, perché si stabiliscono gli interstitia, intervalli di tempo tra la ricezione di un ordine e il seguente, pensati affinché l’hom. ecclesiasticus eserciti per un periodo l’ordine ricevuto e si prepari al superiore. Così si crea un cursus, che diventa un’ascesa progressiva al grado superiore, visto sempre più come un onore (honor), una dignità (dignitas) nel senso forte del linguaggio giuridico romano: in ecclesia istae [episcopus et presbyter] sunt dignitates, scrive Girolamo51. Verosimilmente non siamo soltanto di fronte a una questione terminologica, perché, dal tempo di Costantino in poi si crea una frattura sempre più ampia tra la plebs e l’ordo, che va assumendo alcuni atteggiamenti e certe forme esteriori delle autorità civili.
Tertulliano è il primo autore a usare abbondantemente la terminologia sacerdotale per indicare sia i ministri sia le loro funzioni52. Il vescovo è il summus sacerdos e il clero è distinto dai laici53. Il concetto è affermato nella preghiera di ordinazione di un vescovo che si trova nel capitolo terzo della cosiddetta Traditio apostolica. Il vescovo è esplicitamente chiamato ‘sacerdote’, mentre i presbiteri lo sono solo indirettamente. Pure Origene adopera più volte sia il sostantivo ‘sacerdote’, sia la terminologia cultuale54: il vescovo è il sacerdos per eccellenza, il presbitero è sacerdos inferioris ordinis55. Pertanto con l’inizio del III secolo il vocabolario sacerdotale (hiereus = sacerdos; archiereus = summus sacerdos) viene ampiamente applicato, soprattutto al vescovo. Sacerdos è sinonimo di episcopus (sostantivo greco come tanti altri semplicemente translitterato in latino); solo raramente il termine si riferisce ai presbiteri: direttamente o indirettamente anche questi pare godano del sacerdozio (hierosyne) anche se di secondo ordine.
Il termine gerarchia – autorità sacra – è tardo e risale allo Pseudo-Dionigi (VI secolo); tra le sue varie accezioni, esso indica il ministero cristiano rivolto alla consacrazione degli uomini a Dio e lo strumento di tale opera santificatrice per costruire la Chiesa. Il ministero cristiano pertanto si definisce in rapporto al suo fine, l’economia della salvezza, cioè l’azione divina per gli uomini, nel senso che Dio, per realizzare il suo piano salvifico, si serve di altri uomini, che sono «ministri di Cristo e amministratori [oikonomoi] dei misteri di Dio» (1Cor 4,1), fra i quali ancora più fortemente il vescovo è definito «amministratore di Dio [theou oikonomos]» (Tt 1,7).
Nel corso del II secolo troviamo presbiteri, dottori e profeti, ma già con Ignazio di Antiochia appare definita, a capo della Chiesa, la triade vescovo-presbitero-diacono, anche se le rispettive funzioni non sono molto chiare. I tre ministeri costituiscono ormai per sempre la struttura gerarchica fondamentale e dirigente della Chiesa, e nel corso dei secoli III e IV le loro funzioni si precisano e si delimitano sia teologicamente, sia giuridicamente. Nascono intanto anche altri uffici di grado inferiore, con specifici compiti e uno statuto giuridico differente, cosicché si creano due blocchi. Il primo – i chierici superioris ordinis, che sono vescovi, presbiteri e diaconi – si trova in ogni Chiesa e ne costituisce la parte dirigente per autorità e cultura. Che la sua incidenza sociale sia molto forte, del resto, lo dimostra l’abbondante legislazione imperiale del IV secolo nei suoi riguardi. Il secondo gruppo, i chierici inferioris ordinis, variano come numero, compiti e importanza a seconda delle diverse province ecclesiastiche. A esso spettano gli uffici più umili, anche culturalmente, ed è socialmente meno rilevante. Questi chierici hanno diritti, responsabilità e doveri abbastanza diversi.
Si è soliti concepire i chierici superioris ordinis, come quelli afferenti ai ministeri di direzione – episcopato, presbiterato e diaconato –, quasi esclusivamente nella loro componente culturale. Questa è una concezione medievale. Nell’antichità invece essi abbracciano tutta la vita cristiana: insegnamento, culto, vita religiosa, assistenza di ogni genere e amministrazione dei beni della comunità. Scrive Gregorio di Nissa che il ministro, con l’ordinazione, «è costituito precettore, presidente, maestro, mistagogo dei misteri invisibili»56. La notevole varietà terminologica per indicarli può sconcertare, ma essa non riguarda tanto l’unità del ministero in sé quanto le sue molteplici funzioni. Le indicazioni sui ministri, quantunque si riferiscano soprattutto ai vescovi, riguardano anche i presbiteri e i diaconi, anche se in misura minore.
Molte di queste funzioni, aumentando sempre più il numero dei fedeli e dilatandosi le strutture della Chiesa locale, vengono gradatamente attribuite ai presbiteri. L’espansione del cristianesimo nelle zone rurali porta alla creazione, in alcune province dell’Impero già a partire dal III secolo, della figura del corepiscopo, vescovo della campagna, un dipendente del vescovo urbano, inferiore di rango, che non può ordinare presbiteri e diaconi senza la sua autorizzazione. La legislazione del IV secolo cerca di limitarne il numero e i poteri. Per questo in Oriente la sua figura tende a scomparire fino a restare priva di dignità episcopale nell’VIII secolo. Altrettanto avviene in Occidente. I presbiteri, che si chiameranno nel Medioevo inoltrato semplicemente sacerdoti, costituiscono il senato del vescovo, il presbyterium (presbiterio), formato sul modello dell’amministrazione delle città greco-romane e assimilato al collegio apostolico. Essi sono i consiglieri del vescovo, interpellati per condurre la comunità e per collaborare alla liturgia: nel battesimo, nella celebrazione eucaristica, nella riconciliazione dei penitenti, nell’ordinazione dei presbiteri. Viene loro riconosciuto il carattere sacerdotale, come già accennato, ma essi non agiscono in proprio, bensì sempre in stretta collaborazione con il vescovo. Il carattere collegiale non solo del sacerdozio, ma di tutto il ministero cristiano, è messo molto bene in risalto da Albano Vilela per il III secolo57. Tale collegialità si attenua talvolta per motivi occasionali, come la persecuzione e l’assenza del vescovo, e poi, a causa dell’espansione del cristianesimo sia nelle città sia nelle campagne, si moltiplicano anche i luoghi di culto come le chiese parrocchiali e i martyria. Tuttavia la collegialità resta ben salda a livello sia teorico sia – spesso – pratico.
Già nel III secolo viene permesso ai presbiteri di celebrare l’eucarestia, di battezzare, di riconciliare i penitenti, con il consenso esplicito del vescovo. Queste facoltà nei secoli seguenti tendono a diventare abituali nei luoghi appena menzionati, dove il vescovo non può essere presente. Lo sviluppo comunque non è uniforme e dipende dal numero dei vescovi insediati nella regione: in Africa o in Italia centromeridionale l’eccessivo numero dei vescovi, presenti in ogni cittadina, non dà spazio all’apostolato individuale dei presbiteri; in Italia settentrionale o in Gallia, invece, essi hanno maggiore autonomia e assicurano i servizi religiosi necessari nei vari luoghi. In Oriente, particolarmente in Egitto, esiste la figura del prete ambulante, il periodeuta, che visita le zone prive di sacerdoti stabili e tende a sostituire la figura del corepiscopo. L’arcipresbitero, il presbitero più anziano, già si incontra alla metà del IV secolo nelle chiese cattedrali. Ai presbiteri col tempo si affida sempre più la predicazione della parola, che pure era impegno tipicamente episcopale. La tendenza a trasferire al presbitero funzioni episcopali è tale che, nella seconda metà del IV secolo, qualcuno vuole equiparare i presbiteri ai vescovi e considerare la distinzione solo giuridica. Scrive Girolamo: «In realtà, se non guardi alla carica ricevuta, che altro fa un vescovo che non possa fare un presbitero?»58. Questi può infatti operare la consacrazione eucaristica. All’inizio, osserva Girolamo, non c’era altra distinzione tra i due uffici; per evitare scismi fu eletto solo il vescovo a presiedere la comunità. Comunque l’assimilazione tra i due ordini, anche se è sostenuta da diversi Padri, viene comunemente respinta con argomentazioni diverse.
I diaconi non sono i continuatori dei Sette degli Atti degli apostoli, anche se posteriormente sarà inteso così. Il termine diacono indica un servitore, un ministro, ed esprime una funzione, non un titolo. Non sappiamo se nel Nuovo Testamento il termine abbracci una pluralità di funzioni o un solo ufficio. Comunque, i diaconi dei testi neotestamentari sembrano svolgere solo funzioni di servizio e non hanno uno specifico ruolo liturgico. La cosiddetta Traditio apostolica sottolinea fortemente che essi non sono ordinati al sacerdozio, ma sono al servizio del vescovo con il compito di eseguirne gli ordini. Difatti prendono parte al consiglio dei presbiteri, ma amministrano e segnalano al vescovo ciò che è necessario fare59. Anche Cipriano insiste su questi concetti, poiché i diaconi «sono i ministri dell’episcopato e della Chiesa»60. I diaconi, essendo i più stretti collaboratori del vescovo e, nelle grandi città, in numero ridotto rispetto ai presbiteri, in pratica hanno più potere. Il loro numero può variare; alcune grandi Chiese si attengono al numero canonico di sette, che è considerato assolutamente non superabile; per questo sono notevolmente inferiori ai sempre crescenti presbiteri. Essi influenzano e determinano le decisioni del vescovo molto più del collegio dei presbiteri. Hanno un’ampia gamma di funzioni liturgiche, ma soprattutto sono incaricati dell’assistenza ai bisognosi, dell’amministrazione dei beni della comunità e di altre mansioni affidate loro dai vescovi. Sono uomini esperti nel governo e nella finanza, godono di prestigio, e per questo a Roma il papa, in genere, viene scelto per molti secoli dal loro rango. È perciò naturale che i diaconi avanzino pretese a diritti e onori non tradizionali. Sono innumerevoli i testi che richiamano i diaconi al loro rango, a non dimenticare che il loro ufficio è un ministerium, un servizio, secondo il significato originale della parola greca diakonos. Lo ricorda anche il concilio di Nicea del 325: «I diaconi sono i servitori dei vescovi e inferiori ai presbiteri»61. Ai diaconi non è permesso benedire, battezzare, offrire l’eucarestia, predicare, ma solo distribuire la comunione. Più tardi si permette loro di leggere il Vangelo durante la messa – prima era l’ufficio del lettore – e battezzare in certe condizioni. L’attività assistenziale consiste nel visitare gli ammalati e i poveri, nel soccorrerli e nell’aiutare i bisognosi d’ogni genere.
Nelle comunità cristiane esistono ministri inferioris ordinis. Anzitutto vi è il suddiacono, stretto collaboratore del diacono. Il ministero più importante è quello del lettore, presente in tutte le Chiese. Egli è incaricato di leggere nelle assemblee liturgiche; in alcune Chiese, come in Occidente e in Africa, è incaricato anche del canto. C’è anche l’ordo viduarum (delle vedove), ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa, con un posto speciale nelle assemblee liturgiche. Le vedove devono rispondere ai requisiti della prima lettera a Timoteo: aver compiuto sessant’anni, essere state sposate una sola volta, possedere la testimonianza delle buone opere. Sostentate dalla comunità, sicuramente si dedicano a opere di bene, a consigliare le più giovani, a una più intensa pratica ascetica. Devono praticare la continenza, una vita più dedita alla preghiera e all’ascesi. Il termine vedova, pertanto, indica sia una condizione sociale, sia una posizione ecclesiale, con diritti e doveri. Forse risale al III secolo, in alcune Chiese, il diaconato femminile: non è uno sdoppiamento del vedovato, ma una creazione del tutto nuova, che sostituisce in parte le funzioni delle vedove e in parte ne ha di diverse.
Secondo la Didascalia, la diaconessa e la vedova svolgono le medesime funzioni assistenziali, ma la prima svolge anche compiti liturgici relativi alle catecumene e al battesimo delle donne. Il vescovo romano Cornelio menziona 42 accoliti, 52 esorcisti, lettori e ostiari62. Cornelio, così, testimonia un’evoluzione: molte delle funzioni di servizio che nei primi due secoli erano proprie del diacono ora, nel III, sono affidate a persone distinte, aventi anche una denominazione specifica. Nelle Chiese dove non c’erano alcuni ordini minori, il loro ufficio è svolto da altri, che assommano in sé più funzioni. L’accolitato è proprio dell’Occidente, mentre in Oriente è più diffusa la figura dell’esorcista, che impone le mani ai catecumeni e ai malati e ha il compito di liberare il posseduto dalla presenza diabolica, secondo le credenze dell’epoca; nel rito dell’ordinazione egli riceve, come segno, il libro degli esorcismi. Quest’ordine non fu diffuso in ogni regione e sembra che scompaia verso il VI secolo. L’ostiario (il portiere) ha la cura dell’edificio; il suo ufficio, nell’alto Medioevo, almeno in alcuni luoghi, viene svolto dal mansionario (il sacrestano), che si occupa della chiesa presso la quale abita, o del cimitero. Ma il mansionario non appartiene al clero; ne fanno invece parte i già nominati fossores (copiatae), incaricati di scavare nelle catacombe e nei cimiteri le tombe dei defunti, nonché di eseguire tutte le opere di abbellimento; è di loro competenza anche l’amministrazione di questi luoghi. Ad Alessandria e, successivamente, a Costantinopoli sorge un’associazione di uomini, dediti alla cura degli infermi, detti parabolani, cioè letteralmente ‘coloro che rischiano la loro vita’. Il concilio di Nicea nomina, oltre ai vescovi, anche i presbiteri e i diaconi. Non menziona invece altri ministeri inferiori, se non limitandosi a parlare di altri «uomini del clero» e affermando che le diaconesse sono «contate a tutti gli effetti tra i laici»63.
Agli esponenti dei gradi superiori, come già si è accennato, Costantino concede privilegi ed esenzioni. In questo modo le autorità civili contribuiscono a differenziare e distinguere i vari gradi gerarchici e a metterli da parte, a separarli dai comuni fedeli. I beneficiari di dette esenzioni, si legge nel Codex Theodosianus, sono «quelli che si dedicano al culto e precisamente quelli che sono chiamati chierici»64. Di qui si evince la difficoltà dell’amministratore, molto spesso pagano, a interagire con il funzionamento della Chiesa. Per riconoscere infatti i destinatari dei privilegi voluti da Costantino, l’autorità civile deve basarsi sulle denominazioni usate dalla stessa comunità cristiana, o, al più, sull’elenco offerto dal vescovo, che è il punto di riferimento chiaro e indiscutibile.
A livello disciplinare e sociale, la Grande Persecuzione ha creato danni talvolta ingenti alle comunità cristiane, segnando la loro vita per decenni. In Africa, una delle conseguenze della Grande Persecuzione è lo scisma donatista, foriero di divisioni, ma anche di una riflessione sulla concezione della Chiesa e sui sacramenti. Alcune idee della Chiesa latina nascono in questo contesto. Le Chiese orientali, non avendo avuto il donatismo, non hanno maturato certe riflessioni. Ad Alessandria la questione dei lapsi (cristiani battezzati che tuttavia hanno perso lo statuto di salvati per avere abiurato) è riflessa nella lettera canonica di Pietro di Alessandria, con le sue norme penitenziali. Lo scisma meliziano è provocato dall’avversione per i cristiani che erano venuti meno durante la persecuzione. Melizio, portavoce dei rigoristi, compie ordinazioni per le sedi vacanti. I provvedimenti del concilio di Nicea (325) sono importanti per la teologia del sacramento dell’ordine e per la disciplina ecclesiastica65.
A Roma si pone lo stesso problema, ma in maniera diversa. Quando Costantino entra nella città, c’è un solo vescovo (non si sa se i novazianisti si trovassero a Roma) e la comunità cristiana è unita; non ci sono le grandi divisioni precedenti. Tuttavia c’è stata una grossa spaccatura per ragioni penitenziali. Nel 304 a papa Marcellino, morto durante la persecuzione di Diocleziano – e non sembra che abbia subito il martirio –, succede Marcello, forse dopo qualche anno di sede vacante, probabilmente per divisioni, non ben documentate, in seno alla Chiesa romana. La cronologia è alquanto fluida. Marcello muore nel gennaio del 308 e viene eletto Eusebio, che è consacrato il 18 aprile dello stesso anno. Seguendo un breve epigramma damasiano si può parzialmente ricostruire la situazione caotica ed estremamente tesa di Roma al tempo della sua elezione e del suo pontificato. Con molta difficoltà, come è normale in questi casi, Eusebio viene eletto dalla maggioranza. L’opposizione è guidata da un certo Eraclio: «Heraclius vetuit lapsos peccata dolere»66. Questi pretende la riammissione immediata dei lapsi alla piena comunione ecclesiastica. Eusebio invece esige che ci si attenga alla prassi usuale applicata in passato per la riammissione dei penitenti. Tra le due fazioni, appena dopo l’elezione del nuovo vescovo, scoppiano risse di tale entità da turbare l’ordine pubblico, per cui interviene l’imperatore Massenzio mandando in esilio sia Eraclio sia Eusebio (quest’ultimo a Siracusa). Il numero dei dissidenti deve essere stato considerevole per riuscire a esercitare una pressione di tale intensità. Eusebio, esiliato da Massenzio, muore subito nella città sicula in cui è relegato; di Eraclio si perde memoria. In ogni caso il seccessore non viene eletto subito, ma solo uno o due anni dopo.
A Eusebio, secondo il Catalogo liberiano, composto nel 336 e inserito nel Cronografo filocaliano, succede Milziade, che è vescovo di Roma per tre anni, sei mesi e otto giorni: viene eletto il 2 luglio del 311 e muore il 10 gennaio del 314. Se il predecessore Eusebio è morto nell’agosto del 309 oppure del 310, qual è la ragione di tanto ritardo (uno o forse due anni) nell’elezione del successore? Non sembra si possa addebitare ciò alla situazione politica contraria ai cristiani. Infatti Massenzio ha seguito una politica non persecutoria, anzi favorevole ai cristiani, sembra già dal 306. Pertanto la comunità cristiana gode di libertà religiosa e può organizzarsi al suo interno. Forse la sola ragione del ritardo nella scelta del successore di Eusebio sta tutta nelle forti tensioni che hanno sconvolto la comunità romana all’epoca della controversia tra Marcello ed Eusebio. Poiché dopo l’elezione di Milziade non si ha alcuna notizia del perdurare di tale tensione, si deve pensare che nel frattempo si sia trovato un modus vivendi e che la scelta di Milziade sia stata il frutto della pace riconquistata.
Il cristianesimo è anzitutto un fenomeno urbano, come suggerisce Eusebio. Le città, secondo la concezione greco-romana, sono il centro dell’organizzazione locale delle comunità, guidate, come già si è accennato, dal vescovo. Ogni comunità è autonoma ed è provvista delle strutture necessarie per il suo funzionamento. Per ogni provincia civile il numero delle sedi episcopali è in rapporto al grado di evangelizzazione, alla densità della popolazione, al numero dei centri abitati (città o municipia) e alla struttura municipale romana. In Africa, in Asia Minore, nell’Italia suburbicaria troviamo più sedi episcopali che in Gallia, in Egitto, nella penisola balcanica, etc. È esatta l’intuizione di Teodoro di Mopsuestia:
In origine vi erano di solito due vescovi, o al massimo tre, in ciascuna provincia, una situazione che prevaleva nella maggior parte delle province occidentali fino a tempi assai recenti, e che si può trovare ancora in parecchie province ancora al giorno d’oggi. Però col passare del tempo i vescovi furono ordinati non solo nelle città, ma anche in luoghi molto piccoli67.
La proliferazione delle sedi episcopali, per motivi sia politici sia religiosi, tende a crescere. Per opporvisi il concilio di Serdica stabilisce che nei villaggi o nei piccoli centri sia sufficiente un presbitero, senza ricorrere alla nomina di un vescovo68. In ogni caso, sia le Chiese urbane sia quelle rurali che non sono sedi episcopali hanno scarsa autonomia, perché solo la cattedrale ha il battistero e in essa normalmente devono convenire tutti i fedeli.
Con l’espandersi della comunità cristiana in una stessa città o in un distretto amministrativo, sorge la necessità di un decentramento ecclesiale a prevalente carattere cultuale; così nascono le ‘parrocchie’ urbane, cioè piccole comunità con a capo un presbitero, che sicuramente celebrava l’eucarestia69. Troviamo i primi inizi del sistema parrocchiale in Egitto già alla fine del III secolo. Nelle grandi città come Roma, Alessandria, Antiochia, Milano, come anche in centri di media grandezza, quali Nicomedia, si costruiscono diversi edifici di culto. Roma viene divisa in circoscrizioni pastorali, in ognuna delle quali vi è una domus ecclesiae, un edificio per il culto e l’abitazione del clero, che nel IV secolo viene chiamato titulus. Inoltre, in questo stesso secolo, si costruiscono oratori e chiese rurali nei piccoli centri abitati, cioè nelle villae (tenute), nei vici (villaggi), soprattutto in quelle diocesi molto estese, affinché la popolazione possa partecipare al culto. In Occidente il sistema parrocchiale si diffonde in Spagna e in Gallia nel corso del V e del VI secolo.
Le comunità locali si sentono parte integrante della Chiesa universale, intesa non come una federazione di Chiese locali, ma come un’unità nella sua origine, nel suo essere e nel suo fine. Le Chiese locali, pur autonome e primitive rispetto a ogni altra struttura, per conservare tale unità creano altri mezzi di comunione reciproca sovradiocesana. Mancano una centralizzazione e quindi uniformità, aspetti che progrediscono lentamente durante il III secolo. Le Chiese del II e III secolo, quando è possibile avere una documentazione, mostrano delle diversità tra di loro. Anche in Occidente, dove il vescovo di Roma ha il suo grande prestigio, non c’è uniformità disciplinare e organizzativa. La ‘triade’ vescovo-presbitero-diacono indica quali siano i ministeri comuni, ma non le altre funzioni e gli altri ministeri. La partecipazione ai concili nel IV secolo contribuisce a creare maggiore uniformità nelle diocesi civili e in ampie aree geografiche. Le differenti tradizioni liturgiche documentabili in tempi posteriori ne rispecchiano una nuova, che si era andata formando.
Inoltre, un movimento religioso come quello cristiano, che è diffuso nel vasto Impero romano e che aspira a una certa unità nella dottrina e nel vissuto, ha bisogno di scambi epistolari e di testi scritti: «questo doppio impulso per l’uniformità e la struttura organizzativa è veramente una delle caratteristiche più distintive del cristianesimo»70. Nel II secolo, Erma considera fondamentale l’armonia all’interno delle singole comunità e tra le comunità. Egli scrive che nella costruzione della torre hanno un posto privilegiato coloro che «hanno governato, insegnato e servito con purezza e santità gli eletti di Dio: di questi alcuni sono morti, altri vivono. Vissero sempre in armonia fra loro, mantennero la pace fra loro e si ascoltavano reciprocamente. Per questo nella costruzione della torre le loro giunture combaciano perfettamente»71.
Il concilio di Antiochia del 268 invia una sinodica (lettera circolare) che esprime lo spirito di universalità. Eusebio la attesta scrivendo: «I pastori riuniti stilarono allora di comune accordo un’unica lettera indirizzata alle persone di Dionigi, vescovo di Roma e di Massimo vescovo di Alessandria, e la inviarono in tutte le province, palesando a tutti il loro zelo e l’eterodossia di Paolo»72. La lettera comincia così: «A Dionigi [di Roma] e Massimo [di Alessandria] e a tutti i vescovi nostri colleghi sulla terra intera, ai presbiteri, ai diaconi e a tutta la Chiesa universale che è sotto il cielo»73. Antiochia, sede del concilio, è il punto di riferimento per l’Oriente; Alessandria per l’Egitto e la Libia, mentre Roma è il punto convergente di tutto l’Occidente latino, ma anche il legame di contatto con le Chiese orientali.
I vescovi, personificazioni e rappresentanti delle rispettive Chiese, erano di uguali diritti, ma reciprocamente dipendenti. Tale idea viene espressa nello stesso rito di ordinazione; alcuni di essi hanno un privilegio di onore rispetto agli altri, o perché la loro sede è una fondazione apostolica o perché la loro città è importante per ragioni politiche, culturali, economiche o religiose. Questo privilegio di onore include una certa autorità, in quanto le Chiese vicine fanno riferimento al vescovo di questa città per le ordinazioni episcopali e le assemblee sinodali. Tali riunioni sono composte dai vescovi dello stesso territorio, che può anche non coincidere con la struttura amministrativa romana, cioè la provincia. In tal modo già dal III secolo sorgono, non in ogni parte però, federazioni provinciali ecclesiastiche. Queste non ricalcano sempre i confini delle province; infatti una città come Antiochia ha un influsso che va dalla Palestina al Mar Caspio; Alessandria abbraccia tutto l’Egitto fino alla Cirenaica; Cartagine emerge su tutta l’Africa.
Il canone 6 del concilio di Nicea ammette e consacra la struttura sovradiocesana con le circoscrizioni metropolitane, riconoscendo inoltre alle Chiese di Roma, di Alessandria e di Antiochia maggiori diritti e su una più ampia estensione geografica rispetto alle altre Chiese. Il concilio di Nicea fa spesso riferimento all’organizzazione metropolitana: in ogni provincia (eparchia) due volte l’anno si devono tenere dei sinodi74; nelle ordinazioni episcopali devono convenire possibilmente tutti i vescovi della provincia ed è richiesto il consenso del metropolita75, cioè del vescovo della metropolis, la capitale della provincia76. Il metropolita è il centro della comunione provinciale: «Conviene che i vescovi di ogni comunità sappiano chi è il loro primus [metropolita] e che non facciano nulla al di fuori della propria Chiesa senza essersi prima consultati con lui [...]. Ma anche il primus non faccia nulla senza consultarsi con gli altri»77. Il concilio di Antiochia del 341 precisa ancora meglio: il metropolita ha la cura dell’intera provincia, ha il posto di onore e ogni vescovo non può operare al di fuori del suo territorio78.
Il sistema di organizzazione delle province ecclesiastiche sotto un metropolita non è omogeneo in tutto l’Impero romano. Anche in questo l’Oriente precede l’Occidente. In Spagna si compie parzialmente solo nella seconda metà del IV secolo. Nelle Gallie pure sorge tardi. L’anonimo autore del De septem ordinibus, del V secolo, lo considererà organizzazione recente e imposta per esigenze di disciplina. Il territorio delle Gallie, essendo suddiviso in due diocesi civili, non ebbe un’unità geografico-amministrativa, ma in più occasioni l’episcopato gallico fu visto come un insieme: nel concilio di Parigi del 360 riunito da Ilario; nell’affare di Priscilliano; nel concilio di Aquileia del 381; nella decretale Ad Gallos episcopos; nel concilio di Torino, riunito per i vescovi delle province della Gallia. In Africa, invece, mentre nella Proconsularis il metropolita – detto primate – è il vescovo di Cartagine, nelle altre province è il vescovo più anziano per ordinazione. Per tutta l’Italia, infine, la Chiesa e l’episcopato di riferimento sono quelli di Roma. Con Ambrogio (morto nel 397) Milano estende il suo prestigio e la sua autorità su tutta l’Italia annonaria e anche oltre.
Anche le ristrutturazioni amministrative romane hanno ripercussioni nell’organizzazione ecclesiastica, così che la riunione o la suddivisione di province o il cambio della metropoli civile hanno immediata conseguenza nelle strutture ecclesiastiche, con litigi e strascichi tra i vescovi. Spesso in tali casi si cerca un compromesso per non turbare troppo le situazioni acquisite.
I documenti antichi, soprattutto greci, usano la parola ‘onore’ (time) per indicare l’autorità del metropolita, che riguarda la creazione di nuovi vescovi, i concili provinciali, e tutti gli affari interdiocesani.
Il concilio di Nicea mette un po’ di ordine nella struttura organizzativa dei ranghi superiori delle autorità ecclesiastiche, ma lascia diversi problemi irrisolti, perché in genere cerca di rendere di diritto delle situazioni di fatto. Anche nei concili successivi si giunge a simili conclusioni. Questo modo di procedere consente a vescovi ambiziosi di introdurre novità e abusi, che successivamente saranno legittimati in concilio. Un caso tipico di questo modo di procedere riguarda il canone 6 del concilio di Nicea – del quale già si è fatto cenno – che nel concilio di Costantinopoli subisce una revisione e un ampliamento per concedere alla sede episcopale costantinopolitana il secondo posto dopo quello di Roma79, e nel concilio di Calcedonia del 451 fonda il patriarcato della Nuova Roma80. Cartagine, che di fatto esercita un influsso su tutta l’Africa, non arriverà mai a tale grado. Dagli anni del concilio di Nicea del 325 a quello di Calcedonia del 451 si hanno un’evoluzione e un assestamento della struttura sovrametropolitana che sfoceranno nella consacrazione di cinque patriarcati (pentarchia), con le rispettive zone di influenza.
Antiochia, che a Nicea ha visto riconosciuti i suoi diritti senza specificazioni geografiche, estende la sua giurisdizione nella vasta diocesi civile dell’Oriente; il suo influsso però è minimo oltre i confini dell’Impero romano. Gerusalemme invece – chiamata Aelia Capitolina dal tempo di Adriano a quello di Costantino – dipende dal metropolita di Cesarea di Palestina, pur avendo ricevuto attestati di onore al concilio di Nicea.
Sono state volutamente escluse dalla trattazione le strutture ecclesiastiche superiori delle comunità cristiane situate oltre i confini dell’Impero romano, che si vanno costituendo dal IV secolo in poi: Armenia, Georgia, Persia, Etiopia, Irlanda. Esse, per ciascuna regione, hanno aspetti così diversi da non essere facilmente unificabili. Inoltre anche l’esposizione svolta fin qui ha più carattere teologico-canonico che storico e, tuttavia, per ragioni di spazio, semplifica le stesse disposizioni conciliari canoniche, che presentano notevoli difficoltà di armonizzazione, perché costituirono una legislazione in fieri e tendente a rendere di diritto situazioni di fatto – cioè consuetudini più o meno consolidate.
Ripercorrere storicamente i primi secoli per vedere come si siano create tali situazioni è difficile, perché si dovrebbe tratteggiare una storia di anarchie, di rivendicazioni, di rifiuti, di lotte e ambizioni, di zelo per il bene, il tutto frammisto a speculazioni teologico-esegetiche e ad argomenti storici.
Per difendere diritti acquisiti o rifiutare le pretese di una sede metropolitana su una episcopale, oppure di una sede patriarcale su ambedue, assume importanza assoluta il rito della consacrazione episcopale, che stabilisce una specie di maternità, quindi con un rapporto di dipendenza, della sede del vescovo consacrante rispetto a quella del consacrato. Per questo, a livello canonico-liturgico, la storia dei raggruppamenti di comunità locali in circoscrizioni più vaste si riduce a storia delle ordinazioni episcopali. Lo storico però dovrebbe ricercare il perché e il modo in cui sia venuta a crearsi una determinata situazione di supremazia e di dipendenza tra sedi episcopali. Il sistema delle province ecclesiastiche, metropolitane prima e patriarcali poi, non coincide con le suddivisioni amministrative dell’Impero, anche se in effetti ci sono numerose somiglianze; il fattore politico in genere è determinante, tuttavia entrano in gioco altri elementi, come l’apostolicità, la cultura, il prestigio della città.
Una tale organizzazione ecclesiastica non produce un diritto divino – eccetto il caso del vescovo di Roma che, nella tradizione, giuridicamente si rifà al testo di Mt 16,18 –, ma è nata solo per esigenze di maggiore comunione ecclesiale e per risolvere problemi di fede e di disciplina a livello sempre più ampio.
1 J. Bingham, Origines ecclesiasticae: The Antiquities of the Christian Church, London 1870; J. Gudemet, L’Église dans l’Empire romain: IVe-Ve siècles, Paris 1958; C. Vogel, Circonscriptions ecclésiastiques et ressorts administratifs civils durant la première moitié du IVe siècle [du concile de Nicée (325) au concile d’Antioche (341)], in La géographie administrative et politique d’Alexandre à Mahomet, Actes du colloque de Strasbourg (Strasbourg, 14-16 juin 1979), Strasbourg 1979, pp. 273-291; V. Grossi, A. Di Berardino, La Chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni della Chiesa antica, Roma 1984; E. Cattaneo, I ministeri nella Chiesa antica: testi patristici dei primi tre secoli, Milano 1997; Storia del cristianesimo, a cura di Ch. Pietri, Roma 2000, vol. I, pp. 730-765; vol. II, pp. 54-83; 86-155; 521-548; A. Brent, The Imperial Cult and the Development of Church Order. Concepts and Images of Authority in Paganism and Early Christianity before the Age of Cyprian, Leiden 1999; P. Norton, Episcopal Elections 250-600. Hierarchy and Popular Will in Late Antiquity, Oxford 2007; J. Wagner, Die Anfänge des Amtes in der Kirche. Presbyter und Episkopen in der frühchristlichen Literatur, Tübingen 2011; Episcopal Elections in Late Antiquity. Structures and Perspectives, ed. by J. Leemans, P. Van Nuffelen, S.W.J. Keough et al., Berlin 2011. Cfr. anche molti lemmi nel NDPAC (ad es. Clero, Organizzazione ecclesiastica, Metropolita, Vescovo, etc.).
2 In inglese viene detto Apostolic Church Order, cfr. A. Stewart-Sykes, The Apostolic Church Order, Brisbane 2006; in tedesco Die apostolische Kirchenordnung; in francese Constitution ecclésiastique des apôtres.
3 A. Stewart-Sykes, The Apostolic, cit., pp. 1 segg.
4 Didascalia 1.
5 Didascalia 3,5-6,4.
6 Eus., v.C. III 47,2.
7 Eus., h.e. X 6,1.
8 Eus., h.e. X 7,2.
9 Gesta collationis Carthaginensis 3,215-220; Aug., epist. 88,2 riporta il testo.
10 Ath., h. Ar. 78,1-3.
11 Cod. Theod. XVI 2,10.
12 Cod. Theod. XVI 2,5.
13 Cod. Theod. XVI 3,11.
14 Novell. Valent. 20.
15 Ibidem.
16 Eus., h.e. III 37,3.
17 Gv 17,21.
18 Gal 1,18-20.
19 Gal 2,1-2.
20 Gal 2,9.
21 1 Clem. 1.
22 1 Clem. 42,4.
23 1 Clem. 44,2.
24 1 Clem. 44,3.
25 G. Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, Torino 2012, p. 24.
26 Per esempio: Eus., h.e. IV10,1 (leitourgia ed episcope); IV 11,6; IV 11,7; IV 6,4.
27 Eus., h.e. IV 11,6.
28 Cfr. Eus., h.e. V 1,29.
29 Cfr. Eus., h.e. V 6,1.
30 Cfr. Eus., h.e. V 16.
31 Eus., h.e. V 23,2
32 Cfr. Cypr., epist. 75,5,2 e 19,4.
33 Cfr. Cypr., epist. 75,19,4.
34 Cypr., epist. 75,4,3.
35 Tert., ieiun. 13,6.
36 Su questo argomento cfr. l’ampia introduzione di E. Prinzivalli a Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini, a cura di E. Prinzivalli, M. Simonetti, I, Milano 2010.
37 C Nic. (325), can. 16.
38 C Nic. (325), can. 6.
39 Traditor è colui che consegna (cioè, etimologicamente, ‘tradisce’) le Sacre Scritture (e le memorie cristiane) alle autorità politiche perché vengano distrutte. Il primo decreto di persecuzione, infatti, riguarda proprio la distruzione dei testi sacri.
40 Optat., app. 1,19.
41 Cfr. Aug., c. Cresc. III 27,30.
42 Canones ecclesiastici apostolorum, cap. 1 (A. Stewart-Sykes, The Apostolic Church Order, cit., p. 105).
43 Herm., vis. 3,17,7-9.
44 Pass. Perp. 13,6.
45 Trad. ap. 3. Nella traduzione del testo etiopico fatta da A. Bausi: «effondi la virtù che da te proviene, lo spirito guida, che hai concesso al tuo diletto Figlio Gesù Cristo» (Trad. ap. 3,3, in Christianity in Egypt: Literary Production and Intellectual Trends in Late Antiquity. Studies in Honor of Tito Orlandi, a cura di P. Buzi, A. Camplani, Roma 2011, pp. 16-69, in partic. 29).
46 Didascalia 9,4-7.
47 Eus., h.e. VI 43,11.
48 Cypr., epist. 68,2: «profanum altare erigere, et adulteram cathedram collocare».
49 Y. Duval, Chrétiens d’Afrique à l’aube de la paix constantinienne. Les premiers échos de la grande persécution, Paris 2000, pp. 50-55.
50 Ivi, p. 81.
51 Hier., tract. in psalm. 1.
52 Sacerdotalia munera: Tert., praescr. 41,8.
53 Tert., bapt. 17,1-2.
54 Cfr. per esempio Or., or. 29,9-10.
55 Cfr. Or., hom. 11 in Ex. 6.
56 Gr. Nyss., In diem luminem, PG 46 c. 581D.
57 A. Vilela, La condition collégiale des prêtres au IIIe siècle, Paris 1971.
58 Hier., epist. 146,1.
59 Cfr. trad. ap. 8.
60 Cypr., epist. 3,1.
61 C Nic. (325), can. 18.
62 Eus., h.e. VI 43,11.
63 C Nic. (325), can. 19.
64 Cod. Theod. XVI 2,2.
65 Cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma 1996, pp. 219-389.
66 Epigrammata Damasiana, rec. A. Ferrua, Città del Vaticano 1942, n. 18,1; Inscriptiones latinae christianae veteres, hrsg. von E. Diehl, Berlin 1925-1931, n. 963.
67 Thdr. Mops., I Tim. II 122.
68 C Sard., can. 6.
69 C Sard., can. 6.
70 R.S. Bagnall, Early Christian Books in Egypt, Princeton 2009, p. 2.
71 Herm., vis. 3,13,1.
72 Eus., h.e. VII 30,1.
73 Eus., h.e. VII 30,2.
74 C Nic. (325), can. 5.
75 C Nic. (325), can. 4.
76 II vescovo della metropoli è denominato metropolitanus, metropolites; in Africa anche primas, episcopus primae cathedrae (cfr. Aug., epist. 43,5,15; 53,2,4; 88,3; c. Cresc. III 27,30). II titolo di arcivescovo (archiepiscopus) non è sinonimo di metropolita, ma fino alla fine del V secolo si adopera per indicare i vescovi delle grandi sedi ed è quasi sinonimo di patriarca, benché quest’ultimo vocabolo divenga poi termine tecnico e, inoltre, a volte si applichi ai vescovi delle metropoli o di altre importanti sedi.
77 Can. App. 9.
78 C Ant. (341), can. 9.
79 Cfr. CCP (381), cann. 2-3.
80 Cfr. C Chalc., can. 28.