Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’eredità wagneriana contribuisce a rendere il confronto fra musica a programma e musica assoluta una delle chiavi di volta del panorama musicale del tardo Ottocento, unitamente all’altrettanto complessa questione dell’esaurimento del linguaggio armonico tonale. Nel campo della musica per orchestra il predominio del poema sinfonico, secondo il dettato della scuola neotedesca, sembra avere decretato la fine della sinfonia che, invece, rinasce con una fioritura di ampiezza insospettata, richiamando in gioco le ragioni della musica assoluta e incrinando il credo romantico della fusione fra la musica e le altre arti. Fra i compositori che meglio hanno saputo interpretare questo groviglio di questioni spiccano le figure di Richard Strauss con la sua acuta reinvenzione del poema sinfonico e di Gustav Mahler le cui sinfonie sono la più geniale compenetrazione di intenti programmatici e invenzione formale.
A fine Ottocento il sistema della musica borghese che si era consolidato nell’arco dell’ultimo secolo sembra essere arrivato a un punto critico: generi, stili, teorie, pratiche sociali, il linguaggio musicale stesso appaiono sempre più come un retaggio del passato dalle prospettive molto incerte. L’armonia tonale dopo Wagner suona esausta e irrimediabilmente logorata, il teatro d’opera è afflitto da crescenti difficoltà economiche, mentre fra pubblico e compositori sembrano essersi deteroriate quella sintonia e condivisione di ideali che in passato, pur con frequenti incidenti, avevano favorito il trionfo del gusto musicale romantico e dei suoi inediti paradigmi formali e poetici.
La percezione di una crisi generalizzata è particolarmente acuta nel mondo musicale di lingua tedesca, a causa di uno scenario politico e sociale segnato da conflitti e disagi profondi e dominato dal sempre più manifesto processo di dissoluzione di quell’impero che per secoli è stato il fondamento della cultura e dell’arte mitteleuropea. Ciononostante, la musica viennese e tedesca a cavallo fra Otto e Novecento attraversa un momento indiscutibilmente fecondo e per certi versi antitetico alla contemporanea crisi politica e sociale.
La scomparsa di due giganti come Richard Wagner (1813-1883) e Johannes Brahms (1833-1897) lascia un’enorme eredità, un patrimonio di innovazioni tecniche, di idee e suggestioni che si tratta di raccogliere e amministrare. Ad assumersi questo compito è la generazione degli autori nati dal 1860 in poi, fra i quali spiccano decisamente il direttore d’orchestra boemo Gustav Mahler (1860-1911), il bavarese Richard Strauss (1864-1949) e il viennese Arnold Schönberg (1874-1951). Le questioni sul tappeto possono ricondursi a tre snodi cruciali: il dualismo musica a programma/musica assoluta, la sorte del linguaggio armonico classico-romantico e, strettamente intrecciato ai primi due, il dilemma della forma musicale.
La cosiddetta Neudeutsche Schule (scuola neotedesca) capeggiata da Wagner e Liszt ha imposto nella seconda metà dell’Ottocento, in Europa come oltreoceano, la concezione di una musica intrinsecamente espressiva, capace come nessun’altra arte di esprimere contenuti poetici nel modo più profondo e universale. Archiviate le preoccupazioni di stile e di forma, la nuova frontiera della musica è la Symphonische Dichtung (poema sinfonico), la cui sostanza musicale – forma, armonia e melodia – è la diretta manifestazione sonora dell’idea poetica, totalmente libera da ogni precetto di scuola.
In questo clima, relegata in soffitta la musica da camera, negli anni Novanta l’attenzione di giovani compositori come Mahler e Strauss si rivolge al Lied ma, soprattutto, all’orchestra e alle sue formidabili risorse coloristiche e descrittive, in una rincorsa a un allargamento degli organici e all’invenzione di nuovi effetti sonori che sembra non avere limiti.
L’affermazione di Richard Strauss in campo orchestrale è bruciante, con una serie di Tondichtungen (letteralmente “poemi sonori”) che fra il 1889 e il 1899 riscuotono un grande successo di pubblico e che, all’epoca, rappresentano la quintessenza stessa della modernità. I titoli sanciscono l’idea di un legame ormai indissolubile fra musica e contenuto poetico-letterario: Don Juan, Macbeth, Morte e trasfigurazione (Tod und Verklärung), Till Eulenspiegel, Così parlò Zarathustra (Also sprach Zarathustra), Don Quixote, Una vita d’eroe (Ein Heldenleben).
Ma al volgere del secolo la poderosa spinta creativa dello Strauss sinfonista segna il passo, sintomo di una svolta che, in pochi anni, lo avrebbe condotto a dedicarsi al teatro musicale, genere nel quale la sua avventura creativa giungerà al suo culmine. In realtà il compositore di Monaco ha già da tempo preso le distanze dal concetto di poema sinfonico nell’accezione neotedesca, approdando al convincimento che la musica, per quanto insopprimibilmente espressiva, non può illudersi di trarre dall’idea poetica la propria sostanza formale e non può quindi prescindere da un’organizzazione e da una tornitura specificamente musicale. Sul piano linguistico – terreno altrettanto controverso nell’acceso dibattito di quegli anni – Richard Strauss raccoglie e rilancia la sollecitazione wagneriana di una sintassi armonica la cui ragion d’essere è ormai lo sfruttamento sistematico del cromatismo, spingendo fino all’esasperazione tensioni tonali e scarti enarmonici che, mentre sforzano l’impianto tonale fino ai limiti del collasso, vengono risolti in una magistrale e irresistibile enfasi espressiva.
Quello del poema sinfonico e della musica a programma non è tuttavia un monopolio indiscusso. L’affievolirsi della fede lisztiana e wagneriana nella totale fusione di musica, poesia e dramma si accentua anche in virtù dell’influenza della corrente brahmsiana e delle numerose implicazioni legate al concetto di “musica assoluta”. A farsi strada, per il momento, non è tanto l’idea di musica intesa come pura forma astratta e superiore a ogni contenuto semantico (idea piuttosto in ribasso all’epoca), bensì la percezione, ampiamente intrisa di simbolismo, dell’ingenuità del concetto di musica a programma, la consapevolezza che le relazioni dei diversi linguaggi poetici fra loro – e di essi con il mondo materiale e spirituale – sono infinitamente più complesse e sfuggenti.
Accanto ai numerosi poemi o schizzi sinfonici di matrice programmatica, gli ultimi decenni del secolo registrano la contemporanea vigorosa rinascita della sinfonia, data per defunta cinquant’anni prima e ora di nuovo autorevole protagonista, intrigata spesso con propositi poetico-narrativi di varia natura. Oltre a Brahms, vero nume tutelare delle forme classiche, a riscoprire le intatte potenzialità della sinfonia sono compositori come Pëtr Il’ič Tchaikovsky, Anton Bruckner, Antonín Dvořák, ai quali infine si aggiunge Gustav Mahler con le sue dieci poderose creazioni sinfoniche composte fra il 1884 e il 1910.
Il tormentato ed esaltante percorso sinfonico di Mahler muove proprio dal rovello di come trasfondere in una forma musicale adeguata un’ispirazione poetica straripante, che disdegna ogni didascalicità della musica a programma, ma che non rinuncia a trasfigurare musicalmente l’urgenza della propria visionaria interiorità. La Prima sinfonia (1884-88) è paradigmatica di questa ricerca: nata come poema sinfonico, viene via via spogliata di ogni attributo programmatico, pur senza perdere una caratterizzazione fortemente allusiva, riassumibile nella lancinante ironia della celeberrima marcia funebre costruita sulla melodia del canone popolare medievale Fra’ Martino (Bruder Martin).
L’ironia mischiata ora al sarcasmo ora a malinconici abbandoni; l’attrazione invincibile per le musiche di estrazione popolare a volte idealizzate a volte ferocemente caricaturizzate; l’altrettanto forte inclinazione a utilizzare stereotipi musicali di ogni genere (sia di infima estrazione, sia di ascendenza illustre) caricandoli di una forte intenzionalità espressiva o descrittiva; il gusto spiccato per i contrasti più improvvisi e brutali, spesso traumatizzanti dal punto di vista della “forma” classicamente intesa; l’introduzione abituale (nella seconda, terza, quarta e ottava sinfonia) di testi poetici, al punto da generare un’ideale convergenza fra il genere sinfonico e il Lied per orchestra, il genere che rappresenta l’altro grande versante della produzione mahleriana. Sono solo alcuni dei caratteri che, all’epoca, assicurano al sinfonismo mahleriano una notorietà tanto ampia quanto controversa e per certi aspetti famigerata. Proverbiali divengono le reazioni d’insofferenza da parte del pubblico nei confronti di un autore che sembra farsi gioco della più illustre tradizione compositiva e poco si cura della coerenza in materia di linguaggio, a volte violando senza ritegno la condotta tonale, altre volte accogliendola pienamente con un’enfasi fin troppo plateale.
Ma questi stessi caratteri, scandalosi per l’epoca, sono anche alla base della successiva riscoperta di Mahler e della straordinaria attualità che la sua musica riveste a un secolo di distanza. Nella seconda metà del secolo, l’inattualità che Mahler stesso si attribuiva si muta in attualità grazie a un’attitudine del compositore che si direbbe postmoderna antelitteram, volta a coniugare culture e stili musicali di estrazione diversa, talora profondamente conflittuali e, con essi, comporre uno scenario o una narrazione tale da abbracciare “tutto un mondo”.
In Mahler i conflitti non vengono mascherati in nome dell’arte bella, ma sono liberi di esplodere in tutta la loro carica simbolica e dirompente. Questa “verità” secondo Theodor W. Adorno ha un prezzo elevatissimo: la grandezza di Mahler sta nel suo mettere impietosamente in luce il destino della musica moderna, ossia la distruzione dell’opera compiuta e della forma musicale immanente. A questa lettura si contrappone quella di Hans H. Eggebrecht, secondo il quale la grandezza di Mahler sta piuttosto nel rendere nuovamente possibile una compiutezza formale su basi empiriche e profondamente interiorizzate, al di là e al di sopra di convenzioni ereditate o di presunte derive storicistiche.