storicismo
Movimento filosofico che, a partire dalla metà del 19° sec. fino agli anni fra le due guerre mondiali, ha posto l’accento sull’irriducibilità della conoscenza storica a leggi universali e necessarie, come quelle tipiche delle scienze naturali, giungendo, nei suoi esiti più rappresentativi, a proclamare la superiorità della conoscenza storica su quella delle altre discipline, in quanto soltanto tale conoscenza sarebbe capace di cogliere gli aspetti individuali e i valori che costituiscono l’essenza più profonda della vita e della realtà spirituale, e, in partic., il suo continuo mutare, il suo irriducibile dinamismo. Lo s. si è affermato soprattutto in Germania e in Italia, ma secondo linee di sviluppo piuttosto differenti.
Il termine è già presente e in uso fra i romantici dell’Athenaeum. Nello s. sono state spesso fatte rientrare anche la concezione della storia di Hegel, che vedeva nella storia la manifestazione dell’Assoluto, e quella di Marx, che, partendo dalla visione di Hegel, sviluppò una concezione materialistica della storia, scandendo il progresso storico secondo fasi legate allo sviluppo della struttura economica. Per gli stessi motivi, la Scienza nuova (1a ed. parziale 1725, 2a ed. completa 1744) di Vico è stata considerata un’opera che ha precorso lo storicismo. Ma si tratta di un uso generale e improprio del termine. Lo s. in senso stretto nasce dalle discussioni filosofiche alle quali dette luogo la grande storiografia tedesca del 19° sec., e in partic. quella di Ranke e di Droysen (del quale è da ricordare, in questo contesto, il fondamentale Sommario di istorica, 1868).
Il vero iniziatore della corrente è da individuarsi in Dilthey, che, prendendo le mosse dalla polemica antipositivistica di Droysen, ne riprese e sviluppò il concetto di «comprensione». Nella Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883; trad. it. Introduzione alle scienze dello spirito), in un quadro fortemente kantiano, anche se nel suo pensiero fortissima è anche l’influenza di Hegel, Dilthey distinse radicalmente le scienze naturali e le scienze dello spirito (che oggi chiameremmo piuttosto «scienze umane») in base al loro metodo: non l’oggetto distingue i due gruppi di discipline, ma il diverso rapporto che con esso istituisce il ricercatore e le diverse connessioni che ne scaturiscono. Applicando i principi di quella che egli denominò «psicologia descrittiva», Dilthey distinse gli oggetti naturali da quelli psichici in base al seguente criterio: i primi appartengono a un’esperienza esterna, cioè a dati che la nostra mente costruisce come «fuori» da sé stessa, e quindi come qualcosa di «diverso dal Sé»; i secondi invece rappresentano stati interni, cioè «sono stati emotivi, come anche gli atti del pensiero e della volontà» (Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, 1905-10; trad. it. Per una fondazione delle scienze dello spirito). Base della psicologia generale, questi stati costituiscono l’esperienza interna, momento di autoconoscenza che Dilthey fa risalire a Marco Aurelio e ad Agostino e vede svilupparsi fino all’ermeneutica romantica di Schleiermacher e al Faust di Goethe. L’esperienza interna, in quanto capacità di rivivere un oggetto dall’interno, di «comprendere» (Verstehen) un’esperienza (Erlebnis), è dunque una modalità di conoscenza radicalmente diversa da quella delle scienze naturali, che si basano sull’esperienza esterna e, con le leggi universali e necessarie a cui mettono capo, non fanno altro che «spiegare» (Erklären), cioè istituire connessioni estrinseche fra dati obiettivi, che restano completamente altri, separati dal soggetto. In questo modo, la storia, così come tutti i prodotti della cultura provenienti dall’interiorità, veniva nettamente distinta come il campo delle scienze dello spirito, nelle quali vige un principio di comprensione che implica la capacità psicologica di «rivivere» la singolarità dell’esperienza storica che si esamina.
La costruzione di Dilthey lasciava aperto il problema del carattere propriamente scientifico della conoscenza storica: se essa si legava a un «comprendere» di eventi interiori e irripetibili, comprendere che era operato da un soggetto storico singolare e storicamente situato, non rischiava così di disperdersi in un’infinità di interpretazioni individuali? Weber, specialmente nei saggi di riflessione metodologica e filosofica con cui accompagnò la sua attività di storico e di sociologo (Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, 1922; trad. it. parziale Il metodo delle scienze storico-sociali), cercò di fondare in modo diverso la scientificità della disciplina storica, rifiutando lo psicologismo diltheyano e reintroducendo la spiegazione mediante cause e principi generali in campo storico. In partic., è assai rilevante la dottrina del «tipo ideale»: certamente, anche per Weber nel campo della storia e della sociologia non sono applicabili categorie generali come quelle di spazio e di tempo, e la stessa causalità deve assumere una veste non meccanica, ma ciò non significa che si debba rinunciare al momento astratto della conoscenza, alla costruzione di modelli. Il «tipo ideale», concezione in cui di nuovo si fa sentire l’influenza di Goethe, è un modello astratto di una certa entità storica, per es., del capitalismo, che non è pienamente realizzato da nessuna delle sue ricorrenze concrete, ma che permette di evidenziare i tratti specifici del fenomeno studiato e di operare un’ampia correlazione fra esempi diversi di esso, costituendo così un tipo di astrazione valida per le scienze dello spirito. Weber prendeva così convincentemente le distanze dal relativismo, con una concezione che, pur privando di certezze assolute le scienze dello spirito, forniva tuttavia a esse la garanzia di un’obiettività entro certi limiti perseguibile (e il complesso della sua opera storiografica e sociologica sta a dimostrare la fecondità di tale assunto). Ben diverso era l’orientamento di Simmel, la cui riflessione si indirizzava, a partire da Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892; trad. it. I problemi della filosofia della storia ), lungo i passi di Dilthey: ne accettava lo psicologismo e la netta distinzione fra scienze della natura e scienze dello spirito, proprio per il carattere individualizzante delle seconde e ne accentuava radicalmente il relativismo. Nel seguito della sua evoluzione, dopo un periodo in cui si avverte l’influenza della fenomenologia di Husserl e dunque la riaffermazione del carattere non relativo dei valori, Simmel approdava, con la sua opera conclusiva, Lebensanschauung (1918; trad. it. L’intuizione della vita), a una ripresa di tematiche vitalistiche e radicalmente irrazionalistiche (i riferimenti a Schopenhauer e a Nietzsche erano espliciti e ricorrenti) che lo facevano pendere di nuovo nettamente dalla parte del relativismo: egli legava infatti il processo storico a una metafisica della vita come dinamismo continuo e inarrestabile, come flusso puro, che volta a volta si raggela in forme fisse e concluse (un punto in cui sembra avvertirsi ancora un’eco del periodo precedente e dell’influenza di Husserl), ma solo per poi superarle distruggendole, in un processo infinito che non ha scopo al di fuori di sé stesso e che non si cura della stabilità di alcun valore, né tanto meno di quelli dell’uomo, che risulta alla mercé di questa corrente del tutto irregimentabile.
Già quella dell’ultimo Simmel era una concezione venata di un forte pessimismo per quanto riguarda lo stato della civiltà moderna, vista in preda a una specie di febbrile rincorsa della novità i cui esiti apparivano sempre più radicalmente nichilistici. Con Spengler e con la sua opera Der Untergang des Abendlandes (vol. I, 1918; vol. II, 1922; trad. it. Il tramonto dell’Occidente) pessimismo e conservatorismo fanno blocco in una concezione che si ispira a Schopenhauer, ma anche a Nietzsche, applicando alcuni aspetti del loro pensiero alla realtà storica. Anche nella sua concezione sono presenti i temi diltheyani della «comprensione» dell’Erlebnis come carattere fondamentale delle scienze dello spirito, ma il centro di essa è dato dalla ripresa delle due categorie (a cui aveva dato largo corso nella cultura tedesca Tönnies) di Kultur («cultura») e Zivilisation («civiltà»): la prima è una condizione in cui un popolo costituisce una comunità organica, legata da valori che la rendono coerente e diretta da un centro vitale ispiratore; la seconda è invece la società democratica decadente, legata dallo scambio meramente economico fra parti separate, essenzialmente meccanica e governata non da valori profondamente condivisi, ma da opinioni e mode esteriori. La scelta originale di Spengler è di applicare la concezione morfologica di Goethe al processo storico, visto come una successione di fasi organiche (o di culture) e di fasi meccaniche (civiltà). Questo processo è per l’autore un processo necessario, per cui non è possibile arrestare il progresso della decadenza. Alla base di questa visione, vi è, come in Simmel, ancora una filosofia della vita che, in questo caso, comanda non un processo di sviluppo inarrestabile, benché cieco, ma un processo ciclico. Altra caratteristica della visione di Spengler è il fatto che le singole formazioni storiche sono considerate come vere e proprie strutture: entità chiuse e incomunicabili, ognuna da spiegare e giustificare iuxta propria principia, secondo una concezione radicalmente relativistica che qualche critico ha avvicinato alla concezione delle età storiche rette da episteme e tra loro del tutto eterogenee che, molti anni dopo, Foucault formulerà in una sua notissima opera (Les mots et les choses, une archéologie des sciences humaines, 1966; trad. it. Le parole e le cose). Nella concezione per cui ogni cultura deve inevitabilmente decadere in civiltà e la fase di disgregazione di quest’ultima non può che comportare una rigenerante ricaduta nella barbarie, si avverte in qualche modo l’eco della visione ciclica di Vico, eco che peraltro, nel testo di Spengler, si trova distorta e annegata in una congerie di concezioni biologistiche e razzistiche che presentano non poche affinità con le ideologie conservatrici e con lo stesso nazismo che, non molti anni dopo la pubblicazione dell’opera, avrebbe conquistato il potere in Germania.
Importanti esponenti dello s. tedesco sono anche Troeltsch, di cui giova menzionare, in questo contesto, soprattutto l’opera Der Historismus und seine Probleme (1922; trad. it. Lo storicismo e i suoi problemi), e Meinecke, autore di Die Entstehung des Historismus (1936; trad. it. L’origine dello storicismo). Oltre a difendere, sulla scia di Dilthey, la specificità delle scienze dello spirito in quanto fondate sulla conoscenza dell’individuale e non su leggi universali e necessarie, questi due autori, riprendendo l’impostazione hegeliana, rifiutano di vedere nel corso storico un accavallarsi casuale di forme prodotte da un principio vitale caotico e inconoscibile: per entrambi, è presente nella storia l’Assoluto (o, per dir meglio, dato che i due autori sono cristiani, Dio), che si rivela nelle vicende storiche, permeandole dei suoi valori.
Il tema della storia è stato sempre al centro dell’attenzione di Croce, che inaugurò la sua riflessione filosofica con un lavoro che verteva proprio su tale tema (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, 1893). In questa memoria il filosofo napoletano imboccava la strada già indicata da Dilthey e dalla cultura tedesca che ne aveva variamente continuato l’opera: netta presa di distanza dal positivismo, e dunque rifiuto di concepire la storia come enunciazione di leggi del tipo di quelle naturali e come spiegazione causale degli eventi. Croce si spingeva, tuttavia, assai più in là e audacemente (il fatto era enunciato già nel titolo) concludeva con l’assimilazione della storia all’arte, insistendo sul suo irriducibile aspetto letterario e narrativo. Attraverso il capitale libro su Vico (La filosofia di Giovambattista Vico, 1911), gli studi su Hegel e Marx e i volumi della filosofia dello spirito, Croce veniva approfondendo e affinando la sua concezione della storia, soprattutto in Zur Theorie und Geschichte der Historiographie (1915; pubbl. in italiano con il titolo Teoria e storia della storiografia), i cui temi fondamentali sono l’irriducibile contemporaneità della storiografia, legata al valore che anima la personalità del ricercatore, e il legame inscindibile fra universale e singolare (in termini vichiani, fra filosofia e filologia) che si attua nella storiografia: poiché se non vi può essere storia senza l’illuminazione delle categorie filosofiche, la filosofia stessa si configura nella sua più profonda essenza come «metodologia della storiografia». Una svolta nella riflessione crociana sul tema della storia è costituita certamente dalla guerra e dall’avvento del fascismo: nel 1938, in un momento in cui la sua lontananza dal regime fascista si è tramutata ormai in una opposizione ferma, anche se meramente intellettuale, Croce scrive la sua opera più importante sull’argomento, La storia come pensiero e come azione, in cui l’esigenza di far argine all’ascesa dei regimi totalitari, non solo in Italia, lo porta a riprendere in modo ancor più preciso una serie di concezioni hegeliane. Nella polemica fra sostenitori di valori sovrastorici (come, per es., Meinecke) e relativisti (come Simmel), Croce prende una terza via: l’esistenza dei valori non è da mettere in discussione, ma essa si colloca nella storia, poiché la storia è «storia della libertà», in quanto espressione di ciò che di più alto ed essenziale vi è nell’uomo. In questo modo, Croce si ricongiungeva alla lezione di Hegel, vedendo nel processo storico l’espressione di un assoluto, ossia postulando che nel corso degli avvenimenti storici fosse individuabile un senso fondamentale e sovraindividuale. Lo s. di Gramsci è assai diverso da quello crociano: egli fu, infatti, fortemente influenzato dal filosofo napoletano, ma anche da un pensatore come Gentile, la cui filosofia dell’atto delineava una visione della storia assai diversa. Per Gramsci lo s. è innanzitutto un tentativo per riformulare in modo nuovo la concezione materialistica della storia di Marx, ma anche di Lenin, dopo la crisi che l’aveva investita alla fine del 19° sec., e che si era accentuata con l’avvento (1925) del fascismo in Italia e con gli eventi politici, soprattutto europei, fra le due guerre. Formatasi nel periodo immediatamente antecedente alla Prima guerra mondiale, la cultura di Gramsci è largamente debitrice al neoidealismo italiano dell’epoca e alla sua netta opzione antipositivistica: così, pur non essendo un nemico della scienza, Gramsci ne adotta l’interpretazione pragmatistica che Croce ne aveva data. Anche la concezione marxista della storia ne risulta assai modificata: la possibilità di individuare leggi storiche, e in partic. di prevedere una vittoria del proletariato sulle basi di tali leggi, appare inficiata dal carattere complesso delle società moderne, e in partic. dal crescente ruolo degli intellettuali, che possono optare a favore dell’una o dell’altra classe sociale, a seconda delle situazioni. Per lo stesso motivo non può più considerarsi valida nemmeno la sottolineatura unilaterale del ruolo dell’interesse economico nel determinare la storia: l’effetto dell’ideologia, l’egemonia ideale e culturale hanno un ruolo essenziale nel far pendere il piatto della bilancia a favore dell’una o dell’altra classe che si combattono. È anche da ricordare la venatura di pessimismo della concezione della storia di Gramsci, compendiata dalla famosa formula del «pessimismo della ragione, ottimismo della volontà». Il pensatore sardo appare assai lontano dall’utopia marxiana dell’abolizione dello Stato e di un’umanità liberata, nella fase comunista, dal fardello del lavoro: l’uomo dovrà sempre dedicare una parte consistente del suo tempo alla cura e allo sviluppo delle forze produttive. All’espressione crociana «s. assoluto» (che per Croce significava una concezione radicalmente storica e immanentistica di tutto il reale) Gramsci attribuisce nei Quaderni del carcere (post., 1948-51; ed. critica 1975) un significato particolare: s. assoluto è per lui solo quello del socialismo marxista, poiché, a differenza dello s. idealista, esso ha portato avanti la concezione storicista del mondo, non considerando più la realtà di una società divisa in classi e caratterizzata dalla disuguaglianza come un dato di natura, immodificabile, ma come un dato radicalmente storico. In Italia, la pubblicazione dei Quaderni, nel dopoguerra, da parte di Palmiro Togliatti, ha dato luogo a una corrente di marxismo storicista e umanista che ha avuto un ruolo importante sia nella cultura del nostro paese sia a livello internazionale, nel quadro della crisi del marxismo stalinista a partire dagli eventi ungheresi del 1956.
Nella seconda metà del 20° sec., le questioni sulla storia che la corrente storicista aveva posto in precedenza hanno continuato a essere ampiamente dibattute, ma in termini fortemente modificati dall’attualità storica e culturale, cioè, per es., dall’irrompere del problema della tecnica come momento sempre più primario dell’esistenza umana, o dal verificarsi di un evento quale la Shoah, che ha reso difficile sostenere ogni concezione che vedesse la storia come animata da un senso. Sul piano culturale, la pubblicazione di The poverty of historicism di Popper nel 1944-45 (trad. it. Miseria dello storicismo) segna una linea netta di demarcazione rispetto al passato, innanzitutto nei paesi anglosassoni, ma poi, gradualmente, in tutti i paesi europei: l’accusa di un legame essenziale fra s. e totalitarismo gettava un’ombra su tutte le concezioni organicistiche («oliste», nei termini di Popper) che si erano succedute negli ultimi centocinquant’anni, anche se l’obiettivo polemico essenziale dell’autore era il marxismo e la sua pretesa di individuare leggi necessarie dello sviluppo storico (pretesa che per Popper è il vero nocciolo dello s.). Inoltre, negli anni Sessanta, l’affermarsi della cultura strutturalista, prima in Francia e poi a livello internazionale, ha comportato una rottura ancora più netta con l’impostazione storicistica e lo stesso può dirsi (salvo rare, interessanti eccezioni) per la filosofia analitica che si è affermata intorno agli stessi anni. Con il graduale declino, negli anni più recenti, di queste ultime correnti, nate prima della caduta del Muro di Berlino (1989) e dunque caratterizzate dalla divisione del mondo nei due campi capitalista e socialista, si è aperta una fase in cui il lascito dello s., che, come si è visto, è assai plurale e non riducibile a una formula semplice e unica, comincia a essere riconsiderato con più distacco e obiettività.