Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia e la filosofia della tecnica sono fra le discipline che più si sono modificate negli ultimi anni. Per quanto riguarda la storia, è possibile indicare il senso di questa trasformazione attraverso il passaggio da una concezione che possiamo definire realista a una concezione nella quale la tecnica risulta una costruzione sociale. Nella storia della tecnica si riconoscono quattro grandi impostazioni, che indicheremo in modo schematico, e che danno luogo ad altrettante concezioni della tecnica: l’internalista, l’esternalista, l’evoluzionista e la costruttivista.
Concezioni della tecnica
Secondo la concezione internalista, la tecnica viene concepita come separata da altri fattori (storici, culturali, ideologici, economici) che non vengono trascurati in assoluto, ma considerati a parte, come non direttamente influenti sulla tecnica stessa. Il mutamento tecnico, quindi, si identifica con i caratteri interni propri ai vari artefatti, ai vari oggetti, alle varie macchine, insomma alle varie realizzazioni tecniche. In questa ottica i mutamenti tecnici vengono descritti come la soluzione di problemi specifici, tecnici appunto. Lo sviluppo delle tecniche sarebbe il risultato della soluzione di problemi – tutti interni alla tecnica – sino al momento irrisolti. Ad ogni soluzione proposta si affacciano nuovi problemi che suscitano nuove risposte, in un procedere che possiamo considerare come indefinito. Notiamo che in questo processo non esistono scambi fra la tecnica e le complesse interazioni di fattori storici contemporanei.
La seconda concezione è quella esternalista. Nella versione più estrema, l’esternalismo spiega la tecnica e il suo sviluppo con la presenza di un insieme di domande specifiche. In questo caso la crescita economica e l’innovazione si mostrano come due fenomeni paralleli, in cui il primo stimola il secondo. In tale visione la tecnologia intesa in senso stretto (secondo il modello internalista) e le conoscenze scientifiche vengono in un certo modo messe in secondo piano. Non mancano tuttavia approcci complementari che attenuano questo assunto del “primato dell’economia” e sottolineano invece che esistono in ogni circostanza precisi vincoli scientifici e tecnici. Le conoscenze scientifiche e tecnologiche non rappresentano una fonte unica indifferenziata dalla quale si può attingere liberamente a seconda dei bisogni della società. In questo caso si può parlare di una autonomia non totale ma parziale della scienza e della tecnica rispetto a fattori esterni. Questa è la posizione di un autore come Nathan Rosenberg (Inside the Black Box: Technology and Economy, 1982) secondo il quale lo sviluppo tecnologico si realizza perché conoscenze e pratiche tecnologiche si differenziano. La domanda – sostiene Rosenberg – non è sufficiente a spiegare lo sviluppo della tecnica (in altri termini, il passaggio da invenzione a innovazione). In questa ottica gli insuccessi, i fallimenti tecnici, non sono un buco nero, ma servono spesso di stimolo a sviluppi successivi della tecnica. In ogni caso la storiografia deve considerare l’insuccesso altrettanto utile e interessante quanto il successo. Secondo Rosenberg, e la corrente di ricerca di cui egli è uno dei massimi protagonisti, il processo tecnico risulta dall’intreccio, non schematico, né lineare – tra forze dell’offerta (le possibilità tecnologiche) e forze della domanda (mercato, crescita economica, e così via).
In questa immagine blandamente economicista dovrebbe figurare anche Marx (spesso meno determinista dei suoi seguaci), dal momento che i rapporti fra economia, tecnologia e conoscenze scientifiche non sono secondo lui affatto lineari né rigidi. Molti studiosi marxisti ci hanno abituato invece a una economia che dirige in modo ferreo lo sviluppo tecnologico. Sul versante opposto, abbiamo avuto varie teorie di determinismo tecnologico, nelle quali è invece la tecnologia a determinare senza scarti possibili la vita economica e la vita generale della società.
La terza immagine della tecnica è quella evoluzionista, che ha esercitato un’attrazione costante sugli studiosi, e ha raccolto molti consensi, anche se in alcuni casi ha aggiunto non più di una spolveratura di termini e concetti evoluzionisti a concezioni fondate su altre basi teoriche. Da questa prospettiva, la tecnica è interpretata come una riorganizzazione di uno stato di cose a un momento dato, imposto da necessità e bisogni. A seconda dei vari autori, diverse sono le spiegazioni che vengono offerte dell’evoluzione tecnologica. In generale, coloro che fanno uso di questa interpretazione assumono l’esistenza di una carenza iniziale, una necessità, di fronte alla quale viene trovata una prima soluzione tecnica, rudimentale e provvisoria, che viene poi rivista e perfezionata. Le invenzioni più significative non sarebbero altro che una sintesi di precedenti tappe evolutive. L’accento è posto sulla gradualità del cambiamento tecnologico, che non è visto come un passaggio brusco, ma come il risultato cumulativo di tanti piccoli cambiamenti, di tanti passi precedenti, che non sono mai definitivi. George Basalla, ad esempio, in The Evolution of Technology (1988), interpreta la tecnica come la selezione della pratica più adatta secondo principi che di darwiniano hanno solo il nome e l’ispirazione. Nello schema di questo autore un ruolo cruciale assumono infatti i bisogni ai quali si risponde con soluzioni tecniche diverse, e fra queste restano, vincono, vengono tramandate, solo le più adatte, dove “più adatte” significa anche “migliori”, quelle che risolvono i problemi in modo più efficace. Alla fine del processo evolutivo che vede in competizione macchine, strumenti, soluzioni tecniche, è possibile rintracciare nel processo anche una forma di razionalità, in quanto le soluzioni tecniche vincenti sono le migliori e sono anche le più razionali. Ma la razionalità non è presente nel corso del processo evolutivo e la si individua solo a posteriori.
Assai più complesso – e darwiniano in senso proprio – è lo schema costruito da David L. Hull (Science as a Process: An Evolutionary Account of the Social and Conceptual Development of Science, 1988), pertinente soprattutto alle conoscenze scientifiche, ma che non esclude un’applicazione alle tecniche. Hull tratta la genealogia delle tecniche e la storia della scienza con lo stesso rigore e lo stesso distacco nei confronti dei contenuti di quelle teorie che un naturalista mette in opera per osservare gli individui e le specie di cui si occupa. La trattazione è rigorosa, il metodo è fedele a quello utilizzato da Darwin nelle sue osservazioni: egli giunge alla conclusione che l’elemento positivo è nell’esistenza di molteplici soluzioni di uno stesso problema; fra queste possibilità, quella che viene selezionata risulta anche la più razionale.
Infine, la quarta concezione della tecnica è quella costruttivista. In questa concezione si fa riferimento a quella che viene definita la “costruzione sociale della tecnologia”. La storia di ogni invenzione, innovazione, oggetto, macchina, artefatto, cioè di ogni prodotto della tecnica, è composta di diverse varianti e scelte. Tali scelte rispondono alle esigenze e agli interessi dei gruppi sociali implicati; ogni soluzione tecnica redistribuisce in modo diverso e perennemente instabile il rapporto di forze fra gli attori protagonisti di una data situazione. Il raggiungimento di una relativa stabilizzazione genera tuttavia nuovi rapporti di forza e al tempo stesso nuovi disequilibri, che fanno avvertire l’esigenza di un cambiamento, e così via all’infinito. In questa prospettiva, il concetto chiave è quello di “società”. I fattori sociali e culturali svolgono un ruolo talmente grande nella conoscenza scientifica e nella pratica tecnologica che si arriva a parlare di “costruzione” di ciò che queste due discipline scoprono o realizzano. In tutte le concezioni più o meno vicine al costruttivismo, l’ultima adottata non è altro che il risultato di un negoziato sociale che ha condotto a quella scelta piuttosto che a un’altra. In questo caso, quella scelta non è affatto la tecnica migliore, né la più efficiente, ma semplicemente quella che soddisfa meglio le esigenze di un certo numero di attori sociali. Nel caso in cui, dal punto di vista del costruttivismo, la tecnica non soddisfi le esigenze dei vari gruppi sociali, essa rimane irrealizzata, diventa un caso di tecnica possibile dal punto di vista tecnico, ma non viene messa in pratica, un classico esempio di insuccesso. Questo vale anche per la durata di una tecnica. Uno dei più noti esponenti dell’impostazione costruttivista in storia della tecnica, Thomas Hughes, non giustifica la durata di una tecnica con la sua validità, ma con l’inerzia. Dal momento che esiste, essa continua a esistere anche se non più perfettamente adeguata a risolvere il problema a cui era stata elaborata. In questa fase, che Hughes definisce momentum, la tecnica ha incorporato (come del resto avviene sempre) gli interessi professionali, economici e politici, e per questo solo motivo non scompare, a vantaggio di una tecnica più adeguata. Due noti esponenti di questa impostazione sono Bruno Latour e Wiebe Bijker.
Rapporto tra scienza e tecnica: la nascita dei macrosistemi nella società moderna
Oggi il legame fra scienza e tecnica viene interpretato in modi diversi: come un rapporto di stretta dipendenza, intendendo la tecnica come scienza applicata; di piena autonomia, considerando la tecnica dotata di una valenza cognitiva forte anche se non di tipo logico-argomentativo come quella scientifica; quasi di indentificazione tanto da formare un tutto unico che viene indicato con il conio recentissimo del termine tecnoscienza, che esprime un sottinteso polemico, in quanto tende a sottolineare da un lato che la scienza non è affatto un’attività autonoma e disinteressata (spesso essa nasce “per fare”, non “per conoscere”, e le tecniche che utilizza ne determinano sia gli spazi di applicazione sia i campi di ricerca), dall’altro che la tecnica non è più una pratica artigianale, ma completamente orientata dalla scienza.
Da alcuni anni nella storia e nella sociologia della tecnica ha fatto il suo ingresso un oggetto teorico che si chiama large technical system: sono i grandi apparati tecnico-organizzativi che stendono le loro reti su vasti territori, dalle ferrovie ai sistemi elettrici, dalle autostrade a internet. Anticipati da Lewis Mumford, intuiti da Marshall McLuhan, è solo a partire dal 1983, anno in cui viene pubblicato il libro di Thomas Hughes sull’elettrificazione come processo sociotecnico (Networks of Power. The Electrification of Western Societies), che esistono i presupposti per un lavoro sistematico su questi temi.
Le caratteristiche dei macrosistemi sono tre. Il primo è il concetto di fattore di carico. Il fattore di carico è di per sé uno strumento di contabilità tecnico-economica a prima vista banale, che qualsiasi ingegnere dei sistemi dà per scontato: misura il rapporto fra il carico medio che il macrosistema deve sopportare (per esempio nel caso delle telecomunicazioni, la quantità di conversazioni nelle ore di punta dei giorni più convulsi) e il carico medio del sistema, e serve a evitare sia il succedersi di black out troppo frequenti sia la predisposizione di strutture ridondanti, che sarebbero usate nelle loro effettive potenzialità solo in momenti eccezionali e rappresenterebbero quindi un costo eccessivo. La scoperta di Hughes consiste nell’avere per primo attirato l’attenzione sul fatto che il fattore di carico è essenziale nella gestione dei grandi sistemi tecnici ed è un loro tratto caratteristico. Essendo tutti finalizzati alla gestione di flussi, i macrosistemi possono raggiungere livelli soddisfacenti di efficienza solo applicando alle proprie tecnologie modelli di valutazione non solo tecnici, ma anche statistici, e quindi in senso lato sociali.
Il secondo concetto essenziale introdotto da Hughes è quello di momentum con cui lo storico americano caratterizza la dinamica dell’avvento dei macrosistemi. Il loro processo di radicamento nella vita sociale appare non lineare, diverso da un caso all’altro, e sempre segnato da una forte discontinuità. Nella vicenda di ogni macrosistema si può distinguere però un momento di svolta (il momentum appunto) nel quale la rete, per il fatto stesso di esistere e di essere radicata sul territorio, diventa per gli utenti e per le autorità una presenza che non si può ignorare e comincia a imporre le proprie regole. Una volta superata questa svolta, il macrosistema diventa irreversibile. Il peso degli investimenti effettuati, il radicamento nel territorio e nelle abitudini lo rendono una presenza vincolante. In effetti, nessuno dei macrosistemi introdotti finora è mai veramente scomparso, anche se può aver subito un declino o un mutamento di destinazione: è il caso delle ferrovie negli Stati Uniti, quasi morte come servizio per i viaggiatori ma tuttora vitali per il trasferimento delle merci; oppure è il caso ancora più sorprendente della rete del gas nelle grandi città, che sembrava messa fuori gioco dall’avvento dell’illuminazione elettrica, e che ha trovato invece un nuovo e duraturo uso nel riscaldamento domestico e nella cottura dei cibi.
Dopo che un macrosistema si è imposto ci troviamo di fronte a un innegabile determinismo, nel senso che la vita della società si trova in qualche modo obbligata a seguire i tracciati che la tecnologia disegna. Ma non si tratta di determinismo tecnologico, in quanto il macrosistema stesso, così come il momentum del suo affermarsi, è un fatto socio-tecnico. La tecnologia elabora progetti che sono a loro volta proiezioni di precise immagini della società e delle sue esigenze. L’esistenza irreversibile del macrosistema, una volta insediato, non comporta automaticamente la sua capacità di imporre le proprie scelte tecnologiche quando si verifichi una innovazione.
Il terzo tratto che caratterizza i macrosistemi tecnici è costituito dal fatto che essi richiedono un elevato livello di standardizzazione, e quindi la fissazione e l’applicazione di norme tecniche che, anche per ragioni di sicurezza, finiscono per condizionare i comportamenti sociali almeno quanto le norme giuridiche ed etiche. Tanto che ci si può chiedere se non vi sia un condizionamento reciproco tra lo sviluppo dei macrosistemi tecnici e i mutamenti delle normative giuridiche ed economiche. È tipica di tutti i macrosistemi l’imposizione agli utenti di sistemi unitari di regole che sono finalizzate in parte al buon funzionamento tecnico dei sistemi stessi, in parte alla fissazione di corretti rapporti tra il personale e i consumatori, in parte infine alla massima redditività economica delle reti. Capita così che nell’ambito dei macrosistemi vengano affidati a meccanismi automatici compiti che in altre situazioni sono tipicamente umani, come il calcolo dei costi, e – viceversa – che il comportamento tecnicamente scorretto dell’utente venga trattato alla stessa stregua della violazione di una norma contrattuale: regole economiche, norme giuridiche, regole tecniche, appaiono parte di un insieme inscindibile.
Interpretazioni filosofiche della storia della tecnica
La caratteristica principale della filosofia della tecnica contemporanea è la sua estrema varietà e, in una parte non indifferente, la sua lontananza dalla tecnica effettiva e addirittura la sua serrata critica verso di essa. Tra le principali tendenze filosofiche del Novecento va annoverata l’ontologia della tecnica: Martin Heidegger ne è l’esponente principale, insieme a Ernst Jünger, Günther Anders e Hans Jonas. I vari pensatori attribuiscono alla tecnica una essenza variamente definita. Per Heidegger ha uno stretto legame con la metafisica; per Jünger è tesa fra il dominio e la forma e in stretta relazione con il lavoratore; per Anders è legata alla creazione prometeica da parte dell’uomo e dunque alla fabbricabilità, che conduce l’uomo a vergognarsi di non essere lui stesso fabbricato; per Jonas è l’estraneità della natura rispetto all’uomo.
Un’interpretazione molto importante è quella dovuta al paleontologo André Leroi-Gourhan: egli distingue l’animale (caratterizzato dall’istinto) dall’uomo (caratterizzato dalla tecnica). Qui la tecnica – autentica chiave dell’evoluzione – appare come la manifestazione concreta dell’evoluzione umana. Fra storia della tecnica ed essenzialismo si colloca la riflessione di Lewis Mumford, che divide in tre fasi la storia della tecnica: la prima prevede l’uso dell’utensile reperito in natura o fabbricato; la seconda incomincia con l’uso della macchina e coincide con il periodo della rivoluzione industriale; la terza, la più recente, si fonda sulle reti dei grandi sistemi interconnessi. Un’interpretazione interessante è quella di Georges Simondon, che introduce in Francia la teoria dell’informazione. In Du mode d’existence des objets techniques (1958) si chiede come gli oggetti tecnici vengano ad acquisire una individualità e una presenza autonoma nel mondo. Altri contributi di rilievo sono stati offerti dalla Scuola di Francoforte (in particolare da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, 1947) che spiega la tecnica attraverso l’idea di dominio intesa contemporaneamente come dominio sulla natura, sugli altri uomini, su se stessi attraverso la repressione degli istinti. Arnold Gehlen invece vede nella tecnica la compensazione al fatto che l’uomo è un essere difettoso e mancante.
La filosofia della tecnica novecentesca mette in evidenza alcune caratteristiche che si possono riassumere nel modo seguente: in primo luogo la tecnica è (o è diventata) autonoma dall’uomo; si è verificata un’inversione tra mezzi e fini e la tecnica – che dovrebbe essere mezzo e strumento – impone all’uomo i suoi fini o diventa fine essa stessa. In secondo luogo, l’essenza della tecnica è collegata alla modernità, al nichilismo, all’idea di dominio alla quale sopra si accennava. Per Heidegger l’essenza della tecnica si identifica con la metafisica occidentale e con il dominio della natura, e ritrova nell’imposizione il modo del disvelamento, di conseguenza l’essenza della tecnica moderna non è qualcosa di tecnico ed è piuttosto un modo dell’alètheia (la verità). Jünger, come del resto Anders e Jonas, collega la tecnica con il nichilismo e ha su questo tema una famosa polemica proprio con Heidegger. Hannah Arendt (al pari di Jonas, che ha affermato che la tecnica è il nostro destino) collega invece la tecnica con la modernità e con la figura dell’homo faber. Per Oswald Spengler, invece, la tecnica è sia il dominio sia l’atteggiamento tipico delle epoche giunte al tramonto che precede la loro morte, dove il meccanico sostituisce l’organico, il sapere l’istinto, i risultati pratici la contemplazione. Per Karl Jaspers la tecnica nasce sotto il segno del dominio e, insieme, della nascita della soggettività. In terzo luogo, la tecnica è stata letta come nemica del pensiero, come ritorno a un’immediatezza che la civiltà aveva superato, come essenzialmente democratica (in un senso cognitivo, politico e sociale), come nemica e distruttrice della vita, come creatrice dell’artificio e dell’artificializzazione del mondo, come fonte di alienazione, massificazione, standardizzazione. Il tema della fine dell’opera dell’arte o del pezzo unico caratterizza in modo diverso la riflessione di Jünger e Walter Benjamin. In quarto luogo, la tecnica è stata vista come causa della fine della civiltà (fonte di infantilismo, di perdita dei valori, di primitivismo di massa, di regresso, di barbarie) oppure letta come sintomo di essa. Infine, la tecnica è stata interpretata come generatrice del totalitarismo adeguato ai tempi, di una forma terribile ma accettata con entusiasmo di perdita della libertà, disumanizzazione e collettivismo.
In tutte queste interpretazioni la tecnica appare onnipotente, demiurgica, creatrice di ogni possibile cosa dal nulla, infallibile ed eterna: caratteristiche – tutte – esattamente opposte a quelle che la riflessione degli ultimi decenni le attribuisce. Oggi la tecnica appare piuttosto fragile, debole, mortale, incerta fra più soluzioni, legata al passato e alle competenze tecniche del momento, sempre condizionata dalle realizzazioni tecniche già esistenti e da quelli che si potrebbero definire, in analogia con i paradigmi scientifici scoperti da Thomas Kuhn, i paradigmi tecnologici in vigore.