stoicismo
Nella storia del pensiero antico, la dottrina e la tradizione che si collega a Zenone di Cizio e alla sua scuola (per l’origine del nome, ➔ stoa). La scuola stoica ebbe grande importanza nel mondo romano, dove l’etica da essa elaborata, esaltando la libertà e la dignità dell’individuo, portò alla creazione di un tipo ideale di stoico, insensibile al male fisico, capace di andare incontro a volontaria morte, quando essa si presentasse come l’unico mezzo per sfuggire alle offese provenienti dal mondo esterno. Storicamente, la scuola stoica (o anche solo «la stoa») si ricollega al cinismo, cioè all’interpretazione che della dottrina socratica avevano dato i cinici, così come all’interpretazione che ne avevano data i cirenaici si riconnette la coeva scuola epicurea. Le fonti per la conoscenza dello s. (frammenti e testimonianze) sono state raccolte da H. von Arnim in Stoicorum veterum fragmenta (4 voll., 1905-24; trad. it. I frammenti degli stoici antichi).
La scuola stoica si distingue in tre grandi periodi. Il primo, che dagli inizi del 3° sec. a.C. si estende fino al 2° sec. a.C. inoltrato, è quello detto dell’antica stoa) principalmente rappresentato, nella sua prima fase, dal fondatore Zenone di Cizio, da Cleante di Asso e da Crisippo di Soli. È questo il periodo classico dello s., quello in cui, specialmente per opera del fondatore Zenone e del grande sistematico Crisippo, le sue dottrine si determinano nella loro più schietta formulazione. Ma già nel 2° sec. a.C. si comincia ad affermare, accanto alla declinante tradizione dello s. antico, la tendenza a fondere ecletticamente concezioni stoiche con idee platoniche e aristoteliche. È questa la caratteristica dominante del cosiddetto s. medio, o media stoa, fiorente tra il 2° e il 1° sec. a.C. e principalmente rappresentato da Panezio di Rodi, allievo di Diogene di Seleucia e massimo autore della sintesi del pensiero stoico con la cultura romana, e dal suo discepolo Posidonio di Apamea, erudito e teorico di attività e capacità enciclopediche, che esercitò influsso grandissimo su tutto il pensiero posteriore. Il terzo periodo infine, che si dice dello s. tardo o dell’ultima stoa e si estende dal 1° al 3° sec. d.C., è caratterizzato da un ritorno all’ortodossia stoica, spinto anzi fino alle originarie concezioni ciniche e determinante quindi una sintesi di cinismo e s. particolarmente notevole per la maniera in cui vi si manifesta tanto l’affinità quanto il contrasto di quelle due correnti ideali. Principali rappresentanti di questa terza età dello s. sono Seneca, in cui non manca peraltro qualche tratto del precedente eclettismo, Epitteto, che fra tutti è la personalità speculativamente più energica, e Marco Aurelio, l’imperatore romano autore di malinconiche riflessioni morali in senso cinico-stoico.
Considerato nei suoi aspetti più generali e costanti, il sistema stoico si compone di una teoria della conoscenza «logica», di una fisica e di un’etica, subordinate l’una all’altra nella progressione gerarchica caratteristica di tutti i sistemi postaristotelici. La logica stoica è essenzialmente una dottrina della verità come rispondenza al reale, posseduta dal pensiero in quanto esso si adegua pienamente all’oggetto. Qualsiasi contenuto di pensiero, osserva questa dottrina stoica, può essere vero o falso a seconda della sua coincidenza con la realtà oggettiva: il vero, cioè, è tale in quanto identico al reale, secondo l’idea più tardi consacrata anche nella formula veritas est adaequatio intellectus et rei. L’atto con cui il pensiero riconosce, ad alcuni tra i suoi contenuti, questo carattere di rispondenza all’oggetto e quindi di verità, è l’«assenso» (συγκατάϑεσις), una specie di dichiarazione di fiducia nel loro valore, autorizzato dalla «fantasia catalettica» (φανασία καταληπτική) o «rappresentazione comprensiva», cioè – secondo la più probabile interpretazione di questo termine – il contenuto di pensiero che mostra di «comprendere», di «afferrare» in sé la realtà, attingendola e rappresentandola pienamente. La fisica dello s. riprende, nella sostanza, la concezione eraclitea del mondo. A base di questa è l’idea del logos, della perfetta e immutabile legge razionale che, sovrastando al divenire delle cose, lo fa procedere conformemente a sé medesima. Principio supremo del mondo, esso è la divinità medesima, la quale non è dunque trascendente bensì immanente alle cose, compenetrando l’Universo del suo spirito o soffio vivificante (πνεῦμα) altrimenti identificato col fuoco. In tal senso, tutte le cose derivano dal fuoco, e nel fuoco ritornano quando si sia compiuto il ciclo del loro sviluppo: come accade al termine di ogni anno cosmico, quando la «conflagrazione» (ἐκπύρωσις) universale riassorbe nel fuoco originario tutto ciò che da esso si era generato e che da esso dovrà nuovamente generarsi. A fondamento di questa dottrina è infatti l’antica idea dell’eterno ritorno, onde l’accadere del mondo, governato dall’immutabile perfezione della legge, si ripete a regolari intervalli in forme assolutamente identiche l’una all’altra. Questa concezione del mondo dà quindi la più decisa formulazione razionalistica a quell’idea del destino o del fato, che già la più ingenua esperienza religiosa dei Greci sentiva come suprema forza dominante nel mondo, subordinando a essa la stessa volontà e potenza degli dei. Impera su tutto una necessità razionale (εἱμαρμένη o πεπρωμένη, letteralmente «la parte che è stata stabilita dal destino») alla quale nulla sfugge e nulla può contrastare. Tale necessità è d’altronde la conseguenza diretta dell’immutabile saggezza divina governante il mondo: in esso tutto è voluto da Dio, e quindi tutto è buono, la volontà divina essendo per definizione tale e la sua onnipotenza escludendo la possibilità di una realizzazione imperfetta della sua perfetta intenzione. Data una simile concezione dell’Universo, è facile scorgere quale etica debba derivarne. Convintosi della verità di tale considerazione delle cose, l’uomo contempla il mondo con lo stesso sguardo reverente con cui adorerebbe una divinità che gli apparisse innanzi, non in immagine ma in persona. Quel che gli resta da fare è semplicemente accettare il corso delle cose, adeguarsi a esso, facendo così collimare la sua volontà con la volontà divina che in quello si realizza e manifesta. Fine supremo dell’uomo è così, per lo s., quello di «vivere conformemente alla natura». Esso riprende in tal modo l’antica regola cinica della «vita di natura», ma riempiendola di un significato del tutto nuovo, giacché la «natura» stoica non è più la semplice forma di vita naturale e animale che al cinico appare preferibile alle raffinatezze della civiltà per il suo maggiore grado d’indipendenza dai bisogni, bensì la natura razionale e divina dell’Universo, teorizzata appunto dalla «fisica». Adeguandosi alla natura, lo stoico mostra insieme di conoscere la realtà delle cose e di comportarsi nel miglior modo possibile: è perciò nello stesso tempo in possesso della saggezza e della virtù. Persuaso della provvida razionalità di ogni evento, non ha mai ragione di dolersene, avendo appreso a sentire come buono anche ciò che alla comune considerazione sembrebbe cattivo, e si trova quindi in uno stato di sostanziale indifferenza o ἀδιαφορία rispetto ai singoli aspetti della realtà. Anche quando ammette che, nel complesso sostanzialmente adiaforo delle cose, ve ne siano alcune meno indifferenti, e quindi ragionevolmente «preferibili» alle altre, come, per es., la salute, considera tale preferibilità a sua volta come «naturale», cioè come rispondente all’ordine cosmico per il quale esse appaiono più immediatamente necessarie all’esistenza dell’uomo. In virtù di tale ἀδιαφορία egli gode, d’altronde, di una libertà, che non è la moderna libertà dell’azione, ma la classica libertà dall’azione propria di colui che, non avendo nulla da desiderare, basta nella sua perfezione a sé medesimo. Nella partecipazione di tutti all’universale natura razionale che è il logos trova il suo fondamento l’eguaglianza tra gli uomini che è un elemento centrale del sentire stoico; ogni individuo, anche coloro che tradizionalmente erano considerati esseri inferiori (come gli schiavi), viene così a far parte di un unico Stato, un’unica città, che è il ‘cosmo’ stesso. In questo senso si è parlato di cosmopolitismo stoico e parallelamente di giusnaturalismo: principi quali quello di giustizia e di diritto non hanno un fondamento nella convenzione ma si originano piuttosto dalla ragione (che è logos e natura), regola sovrana del giusto e dell’ingiusto e come tale si impone all’individuo, comandando e proibendo: «La costituzione dei vari popoli è un’estensione della natura che è rivestita da un’autorità universale. Questo mondo è infatti una grande città retta da una sola costituzione e da una sola legge. È il logos della natura quello che comanda le azioni che devono essere compiute e vieta quelle che vanno evitate». Il diritto di natura è concepito quindi come perfettamente razionale e indicato come principio sia dell’azione morale sia dell’ordinamento politico. Già Zenone, forte del fatto che negli uomini è presente lo stesso logos, aveva sostenuto che lo Stato ideale deve poter abbracciare tutto il mondo perché tutti gli uomini devono essere considerati connazionali e concittadini (I frammenti degli stoici antichi, I, framm. 262); egli non identificava lo Stato con nessuna πόλις esistente, ma credeva in un concetto di patria esteso a tutto il mondo dei saggi. Questa posizione, che verrà variamente riproposta dagli stoici successivi con qualche lieve sfumatura, è stata avvicinata a quella dei cinici già nell’antichità.