Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La seconda metà del Novecento assegna una gloria e una fama straordinarie a Stéphane Mallarmé; fatto a dir poco sorprendente, dato che la poesia di Mallarmé è spesso ermetica e d’accesso oggettivamente molto difficile. La poesia di uno dei grandi eredi di Baudelaire e fra i grandi maestri del simbolismo, però, tocca corde essenziali per l’essere umano, nel suo interrogarsi con il nulla, il mistero, con l’importanza della parola e con il ruolo salvifico della poesia.
Vita e ossessione poetica
Nato a Parigi il 18 marzo 1842, Mallarmé perde presto la madre (1847) e la sorella minore (1857).
Intraprende lo studio dell’inglese per poter leggere in versione originale Edgar Allan Poe (di cui tradurrà le poesie), Mallarmé e diventerà insegnante di questa lingua. Non sorprendono, quindi, diversi soggiorni a Londra, dove si reca per la prima volta nell’ottobre del 1862, seguito da Maria Gerhard, giovane tedesca conosciuta a Sens e che sarà sua moglie nell’agosto del 1863. Due figli nasceranno da questo matrimonio: Geneviève (1864) e Anatole (1871), che scompare all’età di otto anni. Il suo primo incarico come insegnante di lingua inglese (1863) lo porta al liceo di Tournon, nell’Ardèche, in quella provincia che, proprio per il lavoro, dovrà a lungo percorrere (Besançon nel 1866, Avignone nel 1867), prima di tornare a Parigi (liceo Fontanes, oggi Condorcet, 1871) e che tanto negativamente peserà sullo stato d’animo di questo parigino che si sente tristemente in esilio rispetto alla capitale. Fra il 1863 e il 1866 alcune riviste pubblicano le prime poesie e le prime riflessioni estetiche di Mallarmé. Nell’ottobre del 1864 inizia anche a lavorare a quella che dovrà essere, nei suoi intenti iniziali, una pièce teatrale, Erodiade (Hérodiade) e che l’occuperà per tutta la vita: Mallarmé metterà per l’ennesima volta mano al testo, nel frattempo riconcepito come poema, a pochi mesi dalla morte (9 settembre 1898), ma non lo porterà a termine.
Nel maggio del 1866 "Le Parnasse contemporain" pubblica une decina di poesie di Mallarmé, fra cui Le finestre (Les fenêtres), L’Azzurro (L’Azur) e Brezza marina (Brise marine), in cui l’eco dei Fiori del Male (1857) di Baudelaire è innegabile. La pubblicazione mal curata dei testi e, soprattutto, il fatto che la gerarchia scolastica, ritenendone alcuni scandalosi, lo trasferisca d’autorità a Besançon, vanifica ogni tipo di gratificazione per Mallarmé, innescando una crisi depressiva che in lui si preparava da tempo, come traspare soprattutto dalla sua corrispondenza e come forse già annuncia l’incipit di Brezza marina (1866) – "La carne è triste, ahimé! e ho letto tutti i libri" –, che comunica come la stanchezza, nel contempo fisica ("carne") e psicologica ("triste"), non possa essere contrastata, nemmeno più dal libro, antidoto alla fatica esistenziale.
La lettera del 28 aprile 1866 all’amico Henri Cazalis (1840-1909) offre un quadro significativo della grave situazione psicologica di Mallarmé che, ancora al lavoro sulla composizione di Erodiade, si riconosce "vittima eterna dello Scoraggiamento". Il poeta confessa di aver incontrato due abissi che sono, per lui, causa di disperazione: uno è il Nulla, il cui pensiero gli fa abbandonare il lavoro della scrittura; l’altro è quello che si rintana nel suo petto. Gli uomini, afferma ancora la lettera, non sono altro che vane forme della materia, ma altamente sublimi per aver inventato Dio e l’anima. In un’altra lettera (14 aprile 1867) a Cazalis, Mallarmé traccia un altro bilancio angosciante. La crisi esistenziale del poeta ben presto diventa metafisica e s’aggrava fin verso il 1870. Le sue riflessioni non sono sempre di facile accesso, ma fondamentali per capire l’evoluzione del suo pensiero. Nella loro interpretazione siamo spesso illuminati dal critico Bertrand Marchal che, commentando l’ultima lettera ricordata, spiega che “dopo la scoperta del nulla, nell’aprile 1866, Mallarmé si è innalzato sino all’assoluto [...] per diventare l’eroe dello Spirito o della coscienza riflessiva, e ritrovare in sé, in un’anima che è il tesoro incosciente delle ‘divine impressioni che si sono ammassate in noi dai primi tempi’, il segreto dell’umanità, la sua divinità sin qui alienata”. Mallarmé chiarisce anche quale debba essere la natura della sua opera: "l’Opera, l’Opus Magnum, come dicevano gli alchimisti, nostri antenati". Il fatto che Dio non esiste più focalizza in modo nuovo la condizione umana che non ha più trascendenza, essendo, appunto, vana forma della materia. Il Nulla diventa, però, punto di partenza che apre alla Bellezza e al Mistero. In questa ricerca (pari a quella degli alchimisti), il ruolo della parola, della poesia è fondamentale.
Il 16 novembre 1885 Mallarmé scrive una lunga lettera a Verlaine, in risposta a una richiesta di quest’ultimo relativa a precisazioni biografiche e bibliografiche a lui necessarie per presentare Mallarmé in uno dei numeri de "Les Hommes d’aujourd’hui". Dopo aver rapidamente licenziato le questioni biografiche, Mallarmé fa il bilancio di 43 anni di vita e della sua produzione letteraria. Superata la grande crisi, Mallarmé può, anni dopo, rispondere a Verlaine di rendersi conto che tutto ciò che ha scritto va nella direzione di creare “un libro, semplicemente, in diversi volumi, un libro che sia un libro, architettonico e premeditato, e non una raccolta di ispirazioni casuali”. Un progetto ambiziosissimo, un libro o, meglio, il Libro che si propone di conseguire l’unico scopo della letteratura: “la spiegazione orfica della Terra, che è il solo dovere del poeta ed il gioco letterario per eccellenza”. L’ambizione del progetto spiega, in parte, la laboriosa redazione che caratterizza tutti i lavori poetici di Mallarmé e il fatto che testi concepiti come portanti restino incompiuti: è il caso della già ricordata Erodiade , ma anche di Igitur, composto proprio alla fine di un periodo cupo (1866-1869) e giuntoci solo in forma frammentaria. E a questo progetto va ricondotto anche uno dei testi più affascinanti e criptici di Mallarmé, il poema capitale pubblicato su "Cosmopolis" nel 1897, Un tiro di dadi mai abolirà il caso (Un coup de dés jamais n’abolira le hasard), in cui, oltre all’affascinante ermetismo del discorso, entrano in gioco scelte tipografiche audaci che, fra l’altro, impongono letteralmente un nuovo modo di leggere.
Nulla e Mistero; Parola e Poesia
Stéphane Mallarmé
Santa
Poesie
Nello strombo che accoglie
il vecchio sandalo che si sdora
della sua viola scintillante
un tempo flauto o mandola,
sta la Santa pallida e mostra
il vecchio libro spiegato
del Magnificat sgorgante
un tempo a vespro e a compieta:
a quel cristallo d’ostensorio
che sfiora un’arpa dall’Angelo
formata nel volo serale
per la delicata falange
del dito che scende e risale
senza libro né vecchio strumento
sul melodioso piumaggio,
musicante del silenzio.
Stéphane Mallarmé, Poesie, trad. it. di L. Frezza, Milano, Feltrinelli, 1991
È chiaro che Mallarmé riconosce, sulla lezione di Baudelaire, una funzione metafisica alla poesia, atteggiamento comune a tutti i maestri del simbolismo. Mallarmé, fra l’altro, è chiaramente conscio della teoria dell’analogia universale – come testimonia il poemetto in prosa Il demone dell’analogia (Le Démon de l’analogie), composto nel 1864 – che tanta parte ha nell’universo dei Fiori del Male. Anche rispondendo a Jules Huret (1863-1915), che conduce un’Inchiesta sull’evoluzione letteraria (Enquête sur l’évolution littéraire, 1891), Mallarmé sottolinea come, nella poesia, sia fondamentale “evocare a poco a poco un oggetto per mostrare uno stato d’animo o, inversamente, scegliere un oggetto e liberarne uno stato d’animo, attraverso una serie di deciframenti”. E aggiunge: “le cose esistono, non c’è bisogno di crearle; dobbiamo solo afferrarne i rapporti; e sono i fili di questi rapporti che formano i versi e le orchestre”. Questa teoria delle corrispondenze deve essere messa in rapporto con il Nulla e con il mistero che esso rappresenta per l’uomo: se tutti gli elementi dell’universo sono in rapporto analogico fra loro, ciascuno sarà, quindi, anche in rapporto con il Mistero: ogni oggetto diventa, così, anche una finestra aperta sul Mistero. E così, le poesie di Mallarmé presentano, per esempio, un oggetto d’arte – scelta d’eredità parnassiana – che, dopo essere stato raffinatamente evocato, viene smaterializzato: un ventaglio (Éventail, "Ventaglio"; Autre éventail, "Altro ventaglio"), un vaso (Surgi de la croupe et du bond..., "Emerso dalla curva e dal balzo..."), la vetrata di una chiesa (Sainte, "Santa") o il merletto di una tenda (Une dentelle s’abolit..., "S’abolisce un merletto...").
Come si può intuire, la poesia deve avere come referente il nulla che apre al mistero e non deve proporsi di riprodurre ciò che è noto all’uomo. La poesia, però, non ha il compito di raccontare il mistero, ma di evocarlo. Il poeta cancella gradualmente il reale per lasciare spazio al nulla e permetter così la partenza verso l’assoluto. Come conseguenza, il testo poetico non può essere esplicito e lineare, il linguaggio non può essere referenziale: l’ermetismo della poesia si fa necessario e strutturale, grazie al ricorso, fra l’altro, ad una sintassi piegata al limite del consentito e ad un lessico sovente raro e difficile. Caso esemplare è la poesia Santa (Sainte), in cui, nella rarefazione tipica cui sottopone il reale Mallarmé, il lettore percepisce l’evocazione di una vetrata raffigurante Santa Cecilia, la santa musicista. Le prime tre quartine della poesia dispongono gli elementi della figura della vetrata (strumenti musicali, un Magnificat, l’arpa formata da un’ala d’angelo che sfiora una delicata falange), mentre l’ultima le nega tutte, le sconcretizza fino a chiudere, di conseguenza, sull’immagine di un’ossimorica "Musicista del silenzio": la graduale corrosione (linguistica e iconografica) della realtà cui il testo allude genera una creatura che sta sulla soglia del Nulla e si fa porta sul Mistero.
Un modello per il Novecento
Solo verso il 1883-1884 Mallarmé conosce una certa notorietà, grazie ai Poeti maledetti (Les Poètes maudits, 1883) di Verlaine e A ritroso (A rebours, 1884) di Huysmans. Fra le opere di ampio respiro, Il pomeriggio di un fauno (L’après-midi d’un faune), concepito nel 1865 è portato alle stampe nel 1876, in un’edizione illustrata da Manet, amico di Mallarmé. La non vastissima produzione di Mallarmé è disseminata, negli anni, su riviste o in pubblicazioni antologiche. Nell’ottobre del 1887, Le poesie di Stéphane Mallarmé (Les Poésies de Stéphane Mallarmé) sono pubblicate a Parigi, in pochi esemplari; l’Album di versi e di prosa (Album de vers et de prose) vede la luce a Bruxelles verso la fine dell’anno. Le Poesie raccolgono un numero di testi che permette di seguire, in modo esauriente, la linea evolutiva di Mallarmé che dimostra una predilezione per le forme fisse e, nell’Album, per il poemetto in prosa. Certo, l’ermetismo dei versi più maturi non favorisce l’ampio diffondersi dell’opera. Testi meno formalmente e contenutisticamente complicati, come Il pomeriggio di un fauno ammaliano presto anche altri ambiti artistici: Debussy compone il Preludio al Pomeriggio di un fauno (1894) e Nijinski creerà una storica coreografia nel 1912. E, del resto, dal 1877 Mallarmé è riconosciuto come maestro indiscusso dalla vecchia e dalla nuova generazione di poeti che affolla, ogni martedì, il suo appartamento di rue de Rome e si forma, così, alla sua estetica. La complessa poesia di Mallarmé, orfica (come rivelazione), gnoseologica (atto di conoscenza), ermetica (volontariamente non comunicativa) è, per quel "lettore abile" cui spesso pensa il poeta, privilegio spirituale che guida sui percorsi degli interrogativi capitali dell’uomo.