GOBATTI, Stefano
Nacque a Bergantino, presso Rovigo, il 5 luglio 1852 da Giuseppe e Marianna Ghisellini. Abbandonati presto i corsi di ingegneria per dedicarsi interamente alla musica, studiò privatamente con A. Busi a Bologna, poi con Lauro Rossi a Parma e a Napoli, dove quest'ultimo venne chiamato per ricoprire il posto di direttore del conservatorio. A Napoli il G. concepì la sua prima opera I Goti (tragedia lirica in 4 atti su libretto di S. Interdonato). L'opera, dopo il rifiuto della Scala di Milano, venne rappresentata il 30 nov. 1873 al teatro Comunale di Bologna per volontà di C. Cesarini, fiducioso di rinnovare in chiave antiscaligera il successo delle recenti rappresentazioni wagneriane patrocinate da A. Mariani. Il successo fu clamoroso (primi interpreti furono Leonia Levielli Coloni nel ruolo di Amalasunta, S. Rossi Romiati in quello di Teodato e L. Bolis in quello di Sveno) e valse al compositore il conferimento della cittadinanza onoraria (19 dic. 1873), insieme con il plauso entusiastico di critici, musicisti (L. Rossi, C. Pedrotti) e poeti (fra i più accesi sostenitori E. Panzacchi), resi miopi dalle accanite dispute tra fautori e avversari della "musica dell'avvenire", dalle rivalità campanilistiche, dalle fiammate nazionaliste, dalla propaganda antiverdiana, e decisi a trovare a ogni costo un nuovo idolo locale dopo la scomparsa di Mariani.
L'entusiastica accoglienza bolognese contagiò, anche se solo in parte, gli altri teatri italiani. La tenuta dell'opera fu, tuttavia, limitata; sempre più tiepida fu infatti l'approvazione ottenuta da I Goti nelle successive rappresentazioni a Roma (riserve avanzò F. Flores d'Arcais su L'Opinione, salvando solo il preludio e il terzetto dei tre bassi nel terzo atto: Alberti, nota p. 170), Parma, Genova (Verdi definì l'opera "il più mostruoso aborto musicale che sia stato mai composto": Gatti, 1931, p. 271), Torino, Firenze, Padova, Brescia, fino alla ripresa in sordina del 1898 nella città dell'originario trionfo, Bologna, che decretò il definitivo declino dell'opera (l'ultima messa in scena, a Messina, è del 1899).
Sotto le insistenze degli impresari, il G. si ripresentò sulle scene bolognesi, a due anni di distanza, con una seconda opera, Luce (melodramma lirico in 5 atti, libretto di Interdonato, teatro Comunale, 26 nov. 1875) che, nonostante il prestigio degli interpreti (Teresina Brambilla Ponchielli nel ruolo di Luce, I. Campanini in quello di Oliviero, ed Erminia Borghi Mamo in quello di Lionello), non ottenne il successo sperato; questo non impedì a G. Carducci di promettere al musicista un libretto, concepito ma mai realizzato, Mille e non più mille.
La breve vita dell'opera si concluse nel febbraio 1876, con una dura bocciatura nell'unica serata alla Scala di Milano, a seguito della quale Arrigo Boito definì l'opera una "brutta cosa" e, riferendosi al compositore, commentò: "non capisco come colui s'ostini nel voler fare ciò che non sa e non saprà mai fare" (Nardi, p. 407).
Trascorsero sei anni, nel progressivo allontanamento dalla vita sociale, fino a un temporaneo ritiro nel convento dei francescani dell'Osservanza, prima che il G. ritentasse la fortuna con Cordelia (dramma lirico in 5 atti, libretto di C. D'Ormeville, teatro Comunale di Bologna, 6 dic. 1881). L'opera ebbe però sorte ancor più misera della precedente. Ormai isolato, ridotto in miseria, e afflitto da manie di persecuzione, il G. fu ridotto negli ultimi anni a insegnare canto nelle scuole elementari.
In seguito a un attacco di nefrite e all'indebolimento delle facoltà mentali, fu ricoverato nella casa di cura dell'Istituto Rizzoli di Bologna, ove morì il 17 dic. 1913.
Il G. lasciò inoltre una quarta opera, Masias (3 atti, libretto di E. Sanfelice), musicata attorno al 1900 e mai rappresentata, alcune romanze da camera, e l'inno La festa della regina.
La figura del G. è ancor oggi legata al dibattito critico sorto attorno al suo debutto artistico, un vero e proprio caso, emblematico dello stato di arretratezza di una certa critica musicale italiana di quel periodo.
Salutato alla sua prima prova compositiva come il nuovo campione della modernità, il G. in realtà si avvalse ne I Goti di un linguaggio musicale che, per la mancanza di una definita fisionomia, è rapportabile in parte al primo Wagner (avvicinato dal G. senza un approfondito studio su riduzioni pianistiche del Lohengrin e del Tannhäuser); a una lettura più approfondita, è riconducibile interamente all'interno della tradizione melodrammatica italiana di minor rilievo dei decenni precedenti, e dunque legato ancor saldamente alle biasimate, solo in teoria, forme chiuse. Fu, paradossalmente, proprio questa la causa dell'immediata presa su un pubblico di fatto ancora non pronto a comprendere l'essenza e la novità della musica wagneriana, ma più sensibile alle facili trovate d'effetto e alle melodie semplici e orecchiabili.
Il proclamato rinnovamento dell'opera si scontrava con una sostanziale incompetenza tecnica: impaccio nell'uso di idee melodiche, peraltro banali (come l'Inno gotico, la cui inconsistenza non giustifica la sua insistita ripresa nei punti culminanti del dramma); continua assunzione di moduli armonici scontati, rotanti costantemente attorno all'accordo di settima diminuita, e ripetitività delle progressioni; mancanza di pratica nella conduzione delle voci e nella prosodia; difetti di strumentazione; eccessiva semplificazione nell'elaborazione degli scarni numeri d'insieme, dei concertati e dei cori. A tutto ciò corrisponde un libretto dalla fattura convenzionale, pieno di maledizioni, premonizioni e invettive, da sfiorare spesso il grottesco e il ridicolo.
I travisamenti della critica non perdurarono a lungo, e il mancato superamento dei difetti di scrittura in Luce e in Cordelia decretò il definitivo ostracismo del G. dalla vita musicale.
Fonti e Bibl.: E. Panzacchi, Sul melodramma I Goti del maestro S. G.: saggio critico, Bologna 1874; E. Fabrini, La scuola melodrammatica del Wagner ed i Goti del maestro G., in Rivista universale, n.s., VIII (1874), 19, pp. 472-481; G. Masutto, I maestri di musica italiani del secolo XIX, Venezia 1884, p. 91; M. Missiroli, Un inno di G. Carducci alla giovinezza, in Giornale d'Italia, 18 ag. 1909, p. 3; G. Depanis, I concerti popolari e il teatro Regio di Torino, I, Torino 1914, pp. 57-59; G. Monaldi, S. G., in Id., Ricordi viventi di artisti scomparsi, Campobasso 1927, pp. 205-210; C. Gatti, Verdi, II, Milano 1931, pp. 270-272; A. Alberti, Verdi intimo: carteggio di G. Verdi con il conte Opprandino Arrivabene (1861-1886), Milano 1931, pp. 164-168; F. Vatielli, L'ultima opera di S. G., in La Strenna delle colonie scolastiche bolognesi, XLIV (1941); P. Nardi, Vita di A. Boito, Verona 1942, pp. 406 s.; F. Abbiati, Storia della musica, IV, Milano 1945, pp. 191, 208-213; C. Gatti, Il teatro alla Scala nella storia e nell'arte (1778-1958), I, Milano 1963, p. 146; Due secoli di vita musicale. Storia del teatro Comunale di Bologna, a cura di L. Trezzini, I, Bologna 1966, pp. 18, 134-136; S. Midolo, Malintesi critici nei primi anni del wagnerismo italiano: I Goti di S. G., in Wagner in Italia, a cura di G. Rostirolla, Torino 1982, pp. 227-243; Carteggio Verdi-Ricordi (1880-1881), a cura di P. Petrobelli, I, Parma 1988, p. 169; F.-J. Fétis, Biogr. univ. des musiciens, Suppl., I, p. 395; C. Schmidl, Diz. univ. dei musicisti, I, p. 639; Die Musik in Gesch. und Gegenwart, XVI, col. 491; Enc. dello spettacolo, V, coll. 1389 s.; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, III, p. 242; The New Grove Dict. of music and musicians (2a ed., 2001), X, pp. 65 s.