Stagecoach
(USA 1939, Ombre rosse, bianco e nero, 96m); regia: John Ford; produzione: Walter Wanger Productions Inc.; soggetto: dal racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox; sceneggiatura: Dudley Nichols; fotografia: Bert Glennon; montaggio: Dorothy Spencer; scenografia: Alexander Toluboff; costumi: Walter Plunkett.
Sulla diligenza che va da Tonto a Lordsburg viaggiano sei passeggeri, oltre allo sceriffo e al postiglione: la moglie incinta di un ufficiale di cavalleria, il giocatore di poker d'origine sudista, la prostituta espulsa dalla città, il venditore di liquori, il medico ubriacone e il direttore della banca fuggito con la cassa. Devono attraversare un territorio nel quale gli Apaches sono scesi in guerra. Lungo la strada, s'aggiunge ai passeggeri anche un giovane fuorilegge, che vuole andare a Lordsburg per vendicarsi di coloro che gli hanno ucciso il padre e il fratello. Durante una sosta per il cambio dei cavalli, il medico e la prostituta aiutano la moglie dell'ufficiale a partorire una bambina. La diligenza viene attaccata dagli indiani, il rappresentante di whisky e il postiglione sono feriti e il giocatore sudista ucciso. Gli altri si salvano dopo una strenua difesa e per il provvidenziale intervento della cavalleria. A Lordsburg, il banchiere viene arrestato e il fuorilegge, compiuta la sua vendetta, viene lasciato libero dallo sceriffo di varcare la frontiera in compagnia della prostituta.
Forse Stagecoach non è, come pure è stato scritto, "il più grande western di tutti i tempi", ma di sicuro è un film cardine e il titolo più famoso di un genere nel quale André Bazin vedeva "il cinema americano per eccellenza". Su quella diligenza, che attraversa un territorio denso di ostili premonizioni (è la Monument Valley, già valorizzata da George B. Seitz in The Vanishing American, 1926, e votata a diventare il più mitico dei paesaggi americani), viaggiano insieme il gusto per l'azione e l'introspezione psicologica, l'avventura e l'analisi dei caratteri, la tradizione eroica di Broncho Billy o di William S. Hart e la solidarietà umana di personaggi segnati dal destino. Con Stagecoach, è stato scritto, il western diventa maggiorenne. Schematico, ma vero: quintessenza del western classico, Stagecoach ne inaugura anche la stagione della piena maturità. Aderendo alla concezione essenzialmente claustrofobica e sovente intellettualistica delle sceneggiature firmate da Dudley Nichols ‒ già suo collaboratore in una decina di film, tra cui The Lost Patrol (La pattuglia sperduta, 1934) e The Informer (Il traditore, 1935); poi verranno anche The Long Voyage Home (Viaggio senza fine, 1940) e The Fugitive (La croce di fuoco, 1947) ‒ John Ford sintetizza sullo schermo il suo eccezionale senso per le atmosfere e per l'essenzialità della costruzione narrativa. Il cinema di Ford si struttura drammaturgicamente sul modello di Shakespeare e attinge il proprio linguaggio direttamente dalla Bibbia: è subito comunicativo, ma sempre percorso dalla suggestione del non detto. Racconta la vita nel suo svolgersi e, nello stesso tempo, si propone come continuo approfondimento della problematicità dell'esistenza umana, delle sue insolubili contraddizioni. Così è in tutti i capolavori fordiani. E così è anche in Stagecoach, dove una certa schematicità drammaturgica viene continuamente su-blimata da uno sguardo cinematografico teso a soffermarsi sulle variazioni dei comportamenti e degli stati d'animo dei personaggi, colti sovente in primi piani dalla struggente intensità emotiva. È in questo senso che, in un film sapientemente cadenzato sul ritmico alternarsi di esterni e di interni, di ariose panoramiche che attraversano il paesaggio splendidamente fotografato da Bert Glennon e di raffinati dialoghi scanditi dall'essenzialità del montaggio, ciò che alla fine resta più felicemente nella memoria dello spettatore e garantisce ancora oggi la straordinaria modernità del film sono proprio quei primi piani che concorrono a definire l'essenza stessa di un racconto strutturato per grandi sequenze, corrispondenti alle stazioni di posta di un viaggio lungo i sentieri dell'umanità.
La sceneggiatura di Nichols è articolata in modo molto rigido: quattro scene d'azione (la scorta della cavalleria, due tappe del viaggio verso Lordsburg, l'assalto degli indiani e l'arrivo della cavalleria) e altre quattro in cui dominano i rapporti tra i personaggi (la partenza da Tonto, la stazione dove i viaggiatori consumano il pasto e quella dove nasce la bambina, l'arrivo a Lordsburg), con le sequenze d'azione intervallate da stacchi all'interno della diligenza dove si definiscono le psicologie dei protagonisti. Ma si tratta anche di una sceneggiatura molto sapiente in quel suo appoggiarsi sull'idea che le 'ombre rosse' non sono solo quelle che minacciano la diligenza dall'esterno, ma anche ‒ e forse soprattutto ‒ quelle dei fantasmi del passato con cui ciascun personaggio deve inesorabilmente fare i conti. È lungo questa via, insieme avventurosa e allegorica, che il personalissimo stile di Ford riesce a fare in modo che il malinconico romanticismo dell'aristocratico giocatore sudista possa convivere con la determinazione alla vendetta del fuorilegge suo malgrado, che l'istinto della maternità possa stabilire un ponte tra la prostituta sgradita al comitato per la morale pubblica e l'altezzosa moglie dell'ufficiale di cavalleria, che il medico ubriacone non dimentichi la propria deontologia professionale e il commerciante di liquori diventi tollerante testimone delle passioni umane. È attraverso uno sguardo che pone sempre al centro dell'inquadratura l'essere umano che il cinema etico di Ford trascende l'intellettualismo allegorico di Nichols. E, pur ancora in una forma più rigida di quella dei grandi western fordiani degli anni Quaranta e Cinquanta, Stagecoach si afferma con piena legittimità come un film mitico, dove in pagine di grande cinema si condensa l'essenza dello stile e della poetica di John Ford: essenziale scelta delle inquadrature, sempre al servizio del racconto; stringente ritmo narrativo, definito dal ruolo fondamentale del montaggio; assoluta precisione della recitazione di tutti gli attori, guidati sempre a definire i personaggi in rapporto con la cinepresa; continuo mescolarsi dei toni, dal drammatico al comico e viceversa, sino alla splendida conclusione lirica. Tutto questo fa di Stagecoach una sintesi 'a priori' del migliore cinema di John Ford, quello che verrà a partire dal dopoguerra: esempio al vertice di una classicità assoluta e senza tempo, capace di porsi autorevolmente al centro di ogni seria riflessione sulla narrazione cinematografica, sulla sua estetica e sulla sua storia.
Interpreti e personaggi: John Wayne (Ringo Kid), Claire Trevor (Dallas), Andy Devine (Buck Rickabaugh), John Carradine (Hatfield), Thomas Mitchell (Dr. Josiah Boone), Louise Platt (Lucy Mallory), George Bancroft (sceriffo Curly Wilcox), Donald Meek (Samuel Peacock), Berton Churchill (Henry Gatewood), Tim Holt (tenente Blanchard), Tom Tyler (Luke Plummer), Chris-Pin Martin (Chris), Cornelius Keefe (capitano Whitney), Francis Ford (Billy Pickett), Kent Odell (Billy Pickett Jr.), Walter McGrail (capitano Sickel), Capo Big Tree (guida indiana), Brenda Fowler (Mrs. Gatewood), Lou Mason (sceriffo), Elvira Rios (Yakima, moglie di Chris), Florence Lake (Nancy Whitney), Marga Ann Daigthon (Mrs. Pickett), Yakima Canutt (soldato della cavalleria), Jack Pennick (Jerry, il barista), Joseph Rickson (Ike Plummer), Capo White Horse (Geronimo), indiani Navaho e Apache.
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Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 22, 15 janvier 1963; Stagecoach, London 1971.