Sport e giochi in Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli eventi sportivi e le gare atletiche ricoprono un ruolo fondamentale all’interno della vita sociale del mondo greco; i giochi panellenici hanno origine mitica e un carattere sacro, avvengono periodicamente in diverse località della Grecia, richiamando un vastissimo pubblico e numerosi campioni impegnati in specialità e competizioni diverse tra loro. Agonismo e competitività, ma anche astuzia e superiorità intellettiva sono gli ingredienti delle sfide fra gli atleti che gareggiano per la gloria imperitura.
Il famoso motto coniato dal barone Pierre de Coubertin nella seconda metà dell’Ottocento – “Alle Olimpiadi l’importante non è vincere, ma partecipare” – che si riaggancia ad una precisa ideologia vittoriana ed élitaria dello sport, è stato interpretato da tutta una tradizione critica come una definizione dell’etica generale sottesa da qualunque manifestazione sportiva, comprese quelle dell’antichità.
Tuttavia è difficile pensare a qualcosa che maggiormente si allontani dallo spirito che caratterizza l’evento sportivo nel mondo antico – e in Grecia in particolare – del motto di de Coubertin. Infatti nel contesto della cultura greca, la gara, l’agone, sia esso di tipo sportivo o di altro genere, è caratterizzato da un’altissima dose di competitività: l’elevatissimo grado di quest’ultima è adombrato in certe rielaborazioni mitologiche della gara sportiva, in cui vengono rappresentati non solo la sconfitta dell’avversario, ma anche, potenzialmente, il suo annullamento.
Lo si può vedere in un particolare mito – quello di Pelope – che si pone all’origine dei giochi olimpici. Enomao, re di Pisa nell’Elide, aveva ricevuto un responso oracolare secondo cui sarebbe stato ucciso dal marito della figlia Ippodamia, che, secondo una versione del mito, egli amava di un amore incestuoso; per questo aveva stabilito di dare in sposa la figlia soltanto a chi fosse stato in grado di batterlo nella corsa dei carri. Egli possedeva dei cavalli invincibili, dono di Ares, guidati dall’auriga Mirtilo, figlio di Ermes; la condizione della gara era che il re avesse il diritto di uccidere il pretendente con la lancia, qualora quest’ultimo fosse stato raggiunto nella corsa. Dopo che già 13 pretendenti erano stati vinti e uccisi, si presentò Pelope, che aveva ottenuto da Poseidone un carro dorato tirato da cavalli alati; questo però non bastava ad assicurargli la vittoria, in quanto le forze dei due rispettivi contendenti venivano ad equivalersi per le reciproche protezioni divine. Perciò Pelope, con l’aiuto di Ippodamia, che si era innamorata di lui, corruppe Mirtilo inducendolo a togliere i perni delle ruote del carro del padrone e a sostituirli con dei perni di cera. Così, durante la corsa, Enomao cadde dal carro, rimanendo impigliato nelle redini e perdendo la vita. Pelope sposò Ippodamia e regnò su Olimpia. Alla sua morte, per onorarlo, si tennero i giochi funebri nei quali con una corsa di carri venne ripercorso l’itinerario che lo aveva visto gareggiare con Enomao e dalla cui reiterazione ogni quattro anni, secondo il mito, sarebbe scaturita l’istituzione dei giochi olimpici stessi.
La gara equestre che troviamo rappresentata in questo mito riproduce il modello della corsa con i carri, che costituisce uno dei generi più celebri e applauditi delle Olimpiadi. La trasposizione mitica gli attribuisce, tuttavia, caratteri di assoluta crudeltà (ovviamente assente nelle gare che si svolgono nei giochi storici) e aggiunge un particolare che è molto importante nella cultura greca: la metis, cioè l’intelligenza astuta, che qui compare nella sua variante di inganno o di frode (M. Detienne, J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, 1978). Pelope non vince tanto per la superiorità delle sue forze, quanto grazie all’astuzia che gli permette di trarsi d’impaccio in una situazione precaria e fortemente pericolosa. Così, nella rappresentazione mitica della gara, che idealizza la competizione sportiva e la pone al di sopra della quotidianità, noi possiamo trovare quattro elementi: in primo luogo c’è la sfida, la provocazione che uno dei contendenti lancia all’altro sulla sua competenza ad eseguire una determinata prova; in secondo luogo c’è il carattere di accentuato agonismo, che deriva dalla contrapposizione e dall’equilibrio delle forze tra due personaggi; in terzo luogo c’è la posta in gioco che comporta la contrapposizione tra una vittoria assoluta ed una assoluta perdita, quella della vita; infine c’è la metis, non necessariamente presente come inganno, ma come capacità di cogliere l’occasione, che permette di sparigliare le forze in campo e far giungere alla vittoria anche chi è oggettivamente in una situazione di svantaggio (è il caso, per esempio, della vittoria di Antiloco nella corsa con i carri durante i giochi funebri in onore di Patroclo descritta da Omero nel XXIII libro dell’Iliade). Nei ginnasi ateniesi si pratica un doppio culto: quello verso Eracle, simbolo dell’ideale della forza atletica, e quello verso Ermes, divinità dotata, appunto, di intelligenza astuta (G. Manetti, Sport e giochi nell’Antichità classica, 1988).
Nei giochi e nelle manifestazioni sportive dell’antichità si stabilisce una certa connessione con la dimensione del sacro, che si manifesta attraverso un carattere rituale. I giochi panellenici (olimpici, pitici, nemei, istmici) si svolgono infatti in un quadro che ha uno stretto carattere di cerimonia sacra, con ben determinate pratiche di culto e specifici legami con divinità particolari. Ciò non deve sorprendere se si pensa che anche le moderne Olimpiadi si svolgono entro la cornice di rituali, come le sfilate, i giuramenti, l’accensione della fiaccola ecc. La differenza consiste nel fatto che le cerimonie moderne fanno ricorso ad una ritualità, per così dire, “laica”, mentre i rituali antichi sono religiosi in senso stretto. Tuttavia occorre adottare un atteggiamento di maggiore cautela di quanto non si sia talvolta fatto circa il carattere rituale e sacro dei giochi sportivi dell’antichità: va infatti distinta la cornice esterna dei giochi, costituita dalle pratiche e dalle cerimonie sacre, rispetto alle gare atletiche vere e proprie che vi si collocano all’interno e che non hanno in sé niente di religioso.
Inoltre, la stessa forte enfasi che spesso è stata posta sull’origine sacra dei giochi deve essere ridimensionata: in effetti tutti i giochi panellenici, secondo le fonti antiche, hanno origine non tanto da una cerimonia sacra, quanto da una cerimonia funebre. Nascono come celebrazioni rituali della morte di un personaggio appartenente al mito (agones epitaphioi): l’eroe Pelope a Olimpia; Archemoro Ofelte a Nemea; Melicerte a Istmo; il serpente Pitone a Delfi.
Anche ad alcuni giochi locali e di minore importanza viene attribuita un’origine di agon epitaphios. I giochi che si celebrano a Megara all’inizio della primavera sono in onore dell’eroe locale Diocle. A Fliace, città a nord di Tebe Ftiotica, si disputa l’agone funebre in memoria di Protesilao, il primo re morto sotto le mura di Troia. Ci sono infine le feste Leonidee, dove vengono disputati giochi in memoria dei caduti delle Termopili (480 a.C.), che sono riservati ai soli Spartani.
Inoltre la mitografia spesso aggiunge per molte competizioni sportive anche una seconda origine, non cerimoniale, attribuendole all’azione diretta di un eroe: così Eracle (o Ifito) avrebbe organizzato le Olimpiadi; sempre Eracle sarebbe stato il mitico organizzatore anche delle Nemee, Diomede dei giochi Pitici, Teseo di quelli Istmici.
Le competizioni sportive vengono divise, secondo la classificazione antica, in due categorie basilari: agones hieroi kai stephanitai (giochi sacri della corona) e agones thematikoi (o chrematitai o, ancora, argyritai), ovvero giochi in cui vengono offerti premi consistenti in oggetti di valore o in denaro. I primi offrono ai vincitori un premio puramente simbolico, che consiste in una corona, il cui significato può essere messo in parallelo con quello delle moderne medaglie. Olimpia incarna per eccellenza questo modello, offrendo ai vincitori una corona di ulivo selvatico; Nemea una corona di sedano selvatico; Delfi una corona di alloro; Corinto (ovvero Istmo) una corona di pino. I giochi che si tengono in queste città sono i più prestigiosi e costituiscono quello che viene chimato “il circuito” (periodos).
Il valore simbolico e sacro della corona a Olimpia è sottolineato ulteriormente dai cerimoniali che accompagnano la sua preparazione: infatti i rami con cui deve essere intrecciata sono tagliati con un falcetto d’oro da un ulivo sacro che cresce presso il lato occidentale del tempio di Zeus e l’operazione deve essere eseguita da un ragazzo, che abbia entrambi i genitori viventi. L’esempio di Olimpia e degli altri giochi del “circuito” è destinato ad imporsi e per questo nascono molti giochi della corona. Il loro prestigio è tale che in seguito, soprattutto in età ellenistica e romana, quando una città desidera istituire dei nuovi giochi di particolare importanza, si ispira a quegli esempi. Inoltre i giochi della corona hanno un carattere tipicamente panellenico, venendo annunciati a tutte le città del mondo greco; queste ultime, del resto, ne riconoscono il carattere sacro e inviano delle delegazioni ufficiali. Viene inoltre istituita una “tregua sacra” per la durata dei giochi, durante la quale tutte le attività guerresche dovrebbero essere sospese.
Gli agones thematikoi, invece, sono basati su un meccanismo che mette in primo piano il segno materiale del valore. Questo tipo di giochi è legato ad un interesse specificamente locale. In origine i premi sono costituiti da oggetti di pregio, come tripodi di bronzo, calderoni, manufatti locali: ad esempio Pellene pone in palio un mantello di lana; Argo uno scudo; Atene delle anfore ricolme di olio di oliva; Maratona e Sicione delle coppe d’argento; Tegea degli oggetti di bronzo. In seguito vengono messe come posta anche delle somme di denaro.
La classificazione antica è molto rigida e distingue i due tipi di giochi molto nettamente, ma nella realtà storica le cose sono sicuramente più sfumate. Così, accanto ai giochi sacri a carattere panellenico, come quelli olimpici, il cui premio è e si conserverà sempre soltanto simbolico, ci sono altri giochi, come ad esempio le Panatenee, che hanno sia carattere panellenico, sia sacro, in cui l’offerta di una corona è affiancata anche da un premio materiale. Oltre ai due tipi di giochi maggiori ci sono poi i giochi puramente locali, che spesso non hanno nemmeno carattere di periodicità, ma sono legati ad un evento particolare, i quali offrono soltanto premi materiali. Inoltre, anche nel caso dei giochi della corona, le città di provenienza degli atleti integrano il premio simbolico con delle cospicue ricompense in denaro, che permettono agli atleti genuinamente professionisti di sostenere le spese di allenamento, di viaggio e di soggiorno nei luoghi in cui si svolgono le gare (H. W. Pleket, Games, Prizes, Athletes and Ideology, in “Stadion”, I, 1, 1975).
La presenza di un tipo misto di gare sfata anche un mito che ha circolato a lungo tra gli storiografi moderni dello sport antico: quello secondo cui si può contrapporre una ipotetica purezza dell’atletica delle origini, caratterizzata dall’amatorismo e dal disinteresse materiale, all’inquinamento successivo di questa purezza, imputabile alla nascita del professionismo e all’introduzione di premi di valore e in denaro. Ad eccezione di Olimpia, sul cui esempio in seguito i testi letterari avrebbero costituito la leggenda della purezza dello sport delle origini, è probabile che tutte le città offrano anche premi materiali fin dalla nascita dei giochi (H. W. Pleket, “Per una sociologia dello sport antico”, in Lo sport in Grecia, 1988).
Le somme di denaro possono essere anche ingenti. Per esempio, i giochi locali che si svolgono ad Afrodisia sono classificati come hemitalantiaioi (cioè da mezzo talento, corrispondente a 3000 dracme), ma ce ne sono anche altri che arrivano a premi più cospicui, come i talantioi agones (gare da un talento), che valgono 6000 dracme. Per un atleta di valore ci sono, dunque, molte possibilità, date anche dal numero stesso dei giochi che da circa 40 all’epoca di Pindaro, passano a più di 300 in epoca ellenistico-romana. L’atleta Teogene di Taso, secondo le fonti antiche, vince 1300 gare in un’attività di pugile e pancraziaste durata 22 anni. Certo, la cifra tonda fa sospettare un certo processo di “eroizzazione”, ma niente impedisce di pensare che abbia mantenuto in 22 anni di attività la media di una vittoria a settimana.
Secondo vari autori i nobili sono stati i primi professionisti, potendosi garantire, fin dagli inizi dei giochi, degli allenatori privati e assicurare una dieta molto dispendiosa a base di carne e non avendo il problema di come sostentarsi quando fosse giunta l’età del ritiro dall’attività sportiva. In seguito si verifica una sempre più intensa partecipazione alle gare sportive delle classi meno abbienti.
Quello che rimane comunque sempre appannaggio delle classi più alte è il monopolio delle gare equestri: i nobili non vi partecipano direttamente, ma devono avere una consistente fortuna per possedere e allevare i cavalli, nonché per tenere alle proprie dipendenze gli stallieri e i fantini. Questa è la ragione per cui nelle liste dei vincitori delle gare equestri si trovano i nomi degli antichi tiranni della Grecia e della Sicilia, di nobili e di sovrani, come Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, fino ad arrivare ai monarchi dell’età ellenistica e dello stesso imperatore Nerone.
I giochi più importanti e prestigiosi rimangono sempre quelli olimpici, seguiti dai nemei, dai pitici e dagli istmici. Essi formano la cosiddetta periodos (il “circuito”) e gli atleti vincitori in tutti e quattro i tipi di giochi vengono insigniti del titolo molto onorifico di “periodonici”. I giochi olimpici e quelli pitici sono quadriennali, gli altri due hanno cadenza biennale. Anche in mancanza di un coordinamento nazionale e di un’autorità religiosa centrale, l’organizzazione del circuito è tale che, almeno ogni anno, si tiene uno di questi giochi. Si può esemplificare il ritmo di svolgimento dei quattro tipi di gare prendendo come base un anno qualsiasi attraverso la seguente tabella:
Periodo Tipo di gara 540 a.C. fine estate 55ª Olimpiade
539 a.C. estate Giochi nemei
538 a.C. primavera Giochi istmici
538 a.C. estate Giochi pitici
537 a.C. estate Giochi nemei
536 a.C. primavera Giochi istmici
536 a.C. fine estate 56ª Olimpiade
I giochi olimpici traggono il proprio nome dal luogo dove si svolgono, Olimpia, una località dell’Elide situata nella parte nord-occidentale del Peloponneso così chiamata da uno degli attributi di Zeus e sviluppatasi a partire dal 1000 a.C. circa, come sede di un culto dedicato al re degli dèi. Il suo carattere sacro deve aver contribuito non poco a farla eleggere come sede di quelli che sarebbero stati i giochi più importanti di tutta l’antichità. Accanto a questa si possono individuare anche ragioni politiche che probabilmente hanno influenzato la scelta, poiché Olimpia non diviene mai una vera e propria città, ma rimane sempre e soltanto un santuario, fatto che la pone al di fuori della competizione per la supremazia che impegna perennemente le città greche.
L’importanza dei giochi olimpici è riecheggiata nel mito, che ce ne presenta vari momenti di fondazione. Alcune fonti (a cui si rifà Pindaro nell’Olimpica I) riconducono le Olimpiadi ai giochi funebri in onore di Pelope: non a caso nel frontone orientale del tempio di Olimpia era raffigurata la scena in cui Enomao e Pelope si preparano, in una grande tensione, alla corsa con i cocchi.
Altre fonti, riprese dallo stesso Pindaro nell’Olimpica X, pur non rinnegando la relazione con la precedente tradizione, attribuiscono la fondazione dei giochi ad Eracle, che avrebbe deviato il corso del fiume Alfeo per ripulire con le sue acque le stalle di Augias e, dopo aver eretto un recinto sacro intorno alla tomba di Pelope ed innalzato dodici altari, uno per ogni divinità dell’Olimpo, avrebbe consacrato l’area a Zeus e piantato un boschetto sacro (alsos) di ulivi selvatici dai quali si colgono, anche in età storica, le corone per i vincitori.
Accanto a queste vi sono altre tradizioni come quella elea, che attribuisce all’eroe etolico Oxylos l’istituzione della prima Olimpiade, un secolo dopo Deucalione e Pirra. Pausania poi, parlando dell’Elide (Guida della Grecia, V, 4, 6) attribuisce ad Ifito, discendente di Oxylos, la responsabilità di aver istituito ufficialmente le Olimpiadi. Infatti Ifito, essendo in guerra con il re spartano Licurgo e avendo mandato a Delfi un’ambasceria per interrogare l’oracolo su come porre termine ad una pestilenza che tormentava la regione, ottiene un responso che impone una tregua sacra e il ripristino dei giochi olimpici. L’elaborazione mitografica di Pausania è interessante perché mette in evidenza una sostanziale continuità tra la competizione bellica e quella sportiva, che vengono viste come la trasformazione l’una dell’altra e la manifestazione dello stesso spirito agonistico (G. Giannantoni, “Origini dell’agonistica sportiva nel mondo greco: aspetti mitologici e religiosi”, in Lo sport nel mondo antico. “Athla” e Atleti Grecia classica, 1987).
Il mito riportato da Pausania allude alla tregua sacra, che effettivamente ha luogo in età storica, cominciando un mese prima e terminando un mese dopo lo svolgimento delle Olimpiadi, nel cui periodo gli atleti hanno la possibilità di arrivare incolumi ad Olimpia e ripartirne tranquillamente. Se, nella realtà storica, nessuna tregua ha mai avuto il potere di bloccare una guerra, in compenso si deve registrare anche il fatto che, nei circa 1000 anni del loro svolgimento, le Olimpiadi antiche non hanno mai conosciuto sospensioni a causa dello stato di guerra, che in Grecia è quasi permanente, fino a quando viene trasformata in provincia romana nel 146 a.C. A differenza di quelle antiche, le Olimpiadi moderne, iniziate nel 1896, hanno conosciuto tre sospensioni, nel 1916, nel 1940 e nel 1944, a causa delle due guerre mondiali.
La data che oggi si adotta convenzionalmente come quella della prima Olimpiade è il 776 a.C., secondo le indicazioni forniteci dallo storico Timeo. Essa coincide anche con un’epoca in cui la recente introduzione della scrittura consente di tenere un registro dei vincitori olimpionici.
Il grande afflusso di pubblico e di atleti che i giochi richiamano fa sì che la piana di Olimpia, tra i fiumi Alfeo e Cladeo, si riempa di presenze monumentali; alcune di queste sono rappresentate dagli edifici sacri e istituzionali, come il tempio di Era (dove vengono custodite le corone di ulivo per gli olimpionici), quello di Zeus – costruito nel V secolo a.C., che contiene la statua crisoelefantina di Zeus con la dea della vittoria nella mano sinistra, opera di Fidia) –, il Pritaneo (o casa dei magistrati, che ospita un altare dedicato a Estia, su cui viene alimentato in perpetuo il fuoco sacro); altre presenze architettoniche sono costituite dagli impianti sportivi, inizialmente limitati allo stadio e all’ippodromo, a cui si aggiungono in seguito il ginnasio e la palestra (J. Swaddling, Ancient Olympic Games, 2008).
Il programma olimpico, a partire dal V secolo a.C., quando i giochi raggiungono la loro organizzazione classica nel 472 a.C., dura 5 giorni (per altre fonti 6 giorni) e si colloca entro una cornice sacra. Nel primo giorno la festa inizia con il solenne giuramento davanti all’altare di Zeus Orchios, da parte degli atleti, dei loro parenti di sesso maschile e degli allenatori che osserveranno le regole del gioco leale. Gli atleti indirizzano a Zeus anche la celebre preghiera affinché conceda loro “o la corona, o la morte”. A loro volta i giudici, chiamati Ellanodici, giurano sull’onestà delle decisioni di ammissione dei giovani e dei puledri, promettendo di giudicare imparzialmente l’esito delle gare.
L’ultimo giorno ha luogo la solenne incoronazione degli atleti con la corona di ulivo e vengono rinnovati i sacrifici e le offerte di ringraziamento.
All’interno di questa cornice prendono posto le gare vere e proprie. Queste ultime subiscono diversi mutamenti nel corso dei secoli, comprendendo in origine soltanto la corsa a piedi su un percorso di 200 metri (lo stadio); mano a mano vengono introdotte anche le altre specialità, come riportato dalla seguente tabella, che mostra la data in cui una certa gara viene disputata la prima volta e il nome della città o della regione da cui proviene il primo vincitore (M. Finley, H. W. Pleket, Olimpic Games: the first Thousand Years, 1976):
Tipo di gara Data della prima introduzione Provenienza del vincitore
200 metri 776 a. C. Elide
400 metri 724 Elide
4800 metri 720 Sparta
Pentathlon 708 Sparta
Lotta 708 Sparta
Pugilato 688 Smirne
Corsa dei carri 680 Tebe
Corsa dei cavalli 648 Crannon (Tessaglia)
Pancrazio 648 Siracusa
200 metri dei ragazzi 632 Elide
Lotta dei ragazzi 632 Sparta
Pugilato dei ragazzi 616 Sibari
Corsa in armi 520 Eraclea (Arcadia)
Quando i giochi raggiungono un’importanza panellenica, viene istituito un complesso sistema di comunicazione il quale prevede che alcuni araldi chiamati spondophoroi (pacieri) partano dall’Elide alcuni mesi prima dell’inizio delle Olimpiadi e, percorrendo l’intera Grecia, proclamino la data di inizio dei giochi e la relativa tregua d’armi. Gli atleti arrivano ad Olimpia un mese prima dell’inizio dei giochi e proseguono il loro abituale allenamento (che deve essere complessivamente di dieci mesi): alla fine del periodo sostengono un esame di fronte agli Ellanodici (dimostrando, tra l’altro, di essere di stirpe greca, liberi e privi di colpe infamanti), da cui dipende l’ammissione alle gare. Gli Ellanodici possono anche comminare multe sia per eventuali casi di corruzione, sia per comportamenti scorretti. Una regola particolarmente severa dei giochi olimpici riguarda l’esclusione delle donne, sia come partecipanti alle competizioni atletiche, sia come spettatrici.
Nella loro storia millenaria, le Olimpiadi conoscono un periodo di crescita (VIII e VII sec. a.C.) e un periodo di splendore (VI e prima metà del V sec. a.C.). Più o meno in coincidenza con la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), i giochi vengono sempre più coinvolti nelle lotte fratricide e cominciano ad appannare il significato etico che li ha caratterizzati. Nella 160ª Olimpiade le gare si riducono alla sola corsa dei 200 metri. All’epoca di Silla le Olimpiadi vengono trasferite a Roma e le gare delle quadrighe vengono abolite per oltre 60 anni. Nerone complica ulteriormente le cose perché fa posticipare di due anni (dal 65 al 67 d.C.) la 211ª Olimpiade. Dopo una rifioritura in età adrianea, le Olimpiadi continuano a declinare, scontrandosi in particolare con l’ideologia cristiana, che non tollera il carattere sacro pagano che esse ancora rivestono. Il 261 è la data dell’ultima Olipiade di cui abbiamo notizia: non sappiamo se i giochi abbiano continuato a svolgersi fino al 393, anno in cui Teodosio ordina che tutti i culti e i centri pagani vengano chiusi.
I giochi nemei occupano il secondo posto in ordine di importanza nella graduatoria dei giochi panellenici e si svolgono nella valle di Nemea, in Argolide, nell’estremo nord del Peloponneso. Hanno luogo ogni due anni presso il tempio di Zeus Nemeo e ad essi sovrintendono prima gli abitanti di Cleone, in seguito quelli di Argo.
Anche i giochi nemei hanno una doppia origine mitica. Da una parte vengono fatti risalire agli antichi riti funebri in onore di Archemoro Ofelte, figlio di Licurgo, e si innestano nel filone mitico della spedizione dei Sette contro Tebe. Adrasto ed Anfiarao li avrebbero istituiti per commemorare Archemoro, ucciso ancora bambino da un serpente per distrazione della sua nutrice Ipsipile, che lo ha appoggiato a terra per indicare ad alcuni guerrieri argivi una sorgente. Il ricordo rituale di questo mito è conservato nell’usanza dei giudici e degli atleti di presentarsi vestiti a lutto. Per un altro verso i giochi appaiono legati al nome di Ercole, che figura come loro restauratore, dopo che ebbe sconfitto il leone nemeo.
Ci sono state tramandate notizie circa i giochi nemei fin dal 673 a.C., che ci informano anche sul fatto che hanno un programma molto simile a quello dei giochi olimpici, comprendendo agoni atletici e ippici; in seguito, in età ellenistica, vengono aggiunti anche degli agoni musicali. I vincitori vengono premiati con una corona di apio (ovvero sedano selvatico) fresco.
Di grande importanza sono anche i giochi pitici, che si svolgono ogni quattro anni a Delfi, presso il santuario di Apollo. La prima origine mitica dei giochi pitici rimanda all’impresa compiuta da Apollo nell’uccidere il serpente Pitone, rappresentante di un culto preellenico della Terra, sostituito da quello di Apollo. Tuttavia nei canti del culto non si celebra soltanto la vittoria di Apollo, ma anche la morte di Pitone, lasciando intravedere per i giochi un’origine ricollegabile a riti funebri. La seconda origine, cui accenna Pausania (Guida della Grecia, II, 32, 2), è attribuita a Diomede, che viene considerato come colui che aveva inaugurato i giochi in onore di Apollo. In origine i giochi pitici non comprendono gare atletiche, ma solo agoni musicali che vengono celebrati ogni otto anni.
È a partire dal 582 a.C. che, seguendo l’esempio di Olimpia, sono introdotte anche delle competizioni ginniche e, in misura limitata, anche delle gare ippiche, le quali si svolgono nella pianura di Crisa, a causa dell’impervietà della zona in cui sorge Delfi.
I giochi istmici si svolgono sull’istmo del Peloponneso e sono gestiti dagli abitanti di Corinto, non senza anche le ingerenze degli Ateniesi. Sono dedicati a Poseidone, ma la loro più antica origine è collegata al culto di Melicerte, figlio di Atamante e di Ino, in onore del quale Sisifo, re di Corinto e suo parente, ha istituito dei giochi funebri, per un ordine ricevuto in sogno dalle Nereidi. La seconda origine è collegata al mito di Teseo (figlio di Poseidone in una versione del mito), il quale avrebbe ristrutturato i giochi dopo aver ucciso il predone Sifni.
La loro organizzazione storica definitiva risale al 581 a.C. ed essi si distinguono dagli altri giochi del “circuito” per un carattere più popolare e per una atmosfera più vivace e disinvolta. La città di Corinto, per la sua posizione strategica sull’Istmo, attira partecipanti e visitatori da varie parti del mondo greco, sia peninsulare che insulare, come pure dall’Asia Minore.
Inizialmente i giochi istmici, che offrono come premio una corona fatta di fronde di pino, consistono solo di gare ginniche e ippiche; ma in seguito si aggiunge una grande varietà di competizioni (musicali, letterarie e poetiche), alle quali hanno il diritto di partecipare anche le donne (B. Bilinski, Agoni ginnici. Componenti artistiche e intellettuali nell’antica agonistica greca, 1979).
Grande risonanza, tra i giochi al di fuori del “circuito”, hanno le feste panatenaiche, che vengono celebrate ogni anno ad Atene, assumendo però ogni quattro anni una particolare solennità (le Grandi Panatenee). Esse hanno luogo il 28 di Ecatombeone (luglio-agosto), considerato il giorno di nascita di Atena. Secondo il mito, esse sarebbero state istituite da Teseo, l’eroe nazionale degli Ateniesi (Pausania, Guida della Grecia, VII, 2), tuttavia la loro origine storica è registrata nel 566-565 a.C., sotto l’arcontato di Ippocleide, con le gare ginniche.
Le Panatenee hanno una durata di nove giorni: durante i primi tre hanno luogo le gare musicali (per le quali Pericle aveva fatto costruire un apposito Odeion) e quelle letterarie; nei successivi due giorni hanno luogo le competizioni ginniche, a cui seguono le gare ippiche; il settimo giorno si svolgono le pirriche (danze con le armi); infine vengono disputate le lampadoforie, cioè le corse con le fiaccole; chiudono la festa le regate e una solenne processione. Come premio vengono offerte ai vincitori delle anfore ricolme d’olio provenienti dagli uliveti sacri, sulle quali è effigiata, da una parte, la dea nell’atto di brandire la lancia e lo scudo, dall’altra, una scena riferita alla specialità per cui si è gareggiato. Il premio è estremamente ricco, in quanto può arrivare anche ad un numero considerevole di anfore (fino a 100 per il vincitore della corsa dei 200 metri).
Ogni anfora può valere, al minimo, 12 dracme, e una dracma è la cifra che corrisponde al salario di un giorno di lavoro per un operaio nell’Atene classica. In questo modo il corrispondente in denaro percepito da un vincitore nella corsa dei 200 metri finisce per equivalere al salario percepito da un operaio in tre anni circa di lavoro (D. C. Young, The Olimpic Myth of Greek Amateur Athletics, 1984).
Le competizioni sportive comprendono diverse tipologie e si svolgono in differenti strutture. Da una parte ci sono tutti gli sport specificamente atletici, che si disputano nello stadio – i vari tipi di corsa, il salto, il lancio del disco e del giavellotto (R. Patrucco, Lo sport nella Grecia antica, 1972).
Dall’altra ci sono gli sport corpo a corpo – lotta, pugilato e pancrazio –, legati alla palestra. Infine ci sono le gare ippiche (corsa con le bighe e con le quadrighe) che si disputano nel circo.Nonostante queste due ultime categorie di competizioni sportive siano nate in Grecia e vi riscuotano un grande successo, esse avranno un importantissimo sviluppo a Roma.
Le gare atletiche si disputano in un apposito impianto sportivo designato come stadio. La parola, nel suo primo senso, indica una misura intorno ai 200 metri e in seguito passa ad indicare sia l’impianto sportivo che la corsa a piedi su una pista della misura di uno stadio (tale misura, però, può variare da città a città).
Nella pista, inizialmente, c’è semplicemente una riga tracciata sulla sabbia per indicare le mete di partenza (nyssai) e di arrivo (kampteres).
In seguito vengono installate delle soglie di pietra alla partenza divise a intervalli di circa 1,25 metri, con lo scopo di delimitare le postazioni assegnate ai vari atleti.
La capienza degli stadi è molto variabile; quello di Delfi contiene soltanto 7000 spettatori, ma quello di Atene può arrivare a contenerne fino a 50 mila.
Presso i Greci le gare di corsa presentano svariate tipologie, che spesso trovano corrispondenza con le specialità moderne, come riportato nella seguente tabella:
Nome Distanze antiche Corrispondenza moderna
Stadio 1 stadio, pari a 600 piedi, circa 192,27 m. (a Olimpia) corsa dei 200 metri
Diaulos 2 stadi corsa dei 400 metri
Hippios 4 stadi corsa degli 800 metri
Dolichos da 7 a 24 stadi 2000 metri (o fondo)
Oplitodromia Oplitodromia 2 oppure 15 stadi non esiste
Lampadedromia 2500 metri ad Atene corsa a staffetta
Stadio femminile 5/6 di uno stadio pari a 500 piedi (Heraia, disputate ad Olimpia) 200 metri femminili
La oplitodromia, o corsa in armi, è sicuramente la più spettacolare, in quanto gli atleti corrono portando lo scudo, l’elmo e gli schinieri. È anche uno dei soggetti preferiti della pittura vascolare e viene collocata alla fine del programma atletico con la funzione simbolica di creare un momento di raccordo tra il tempo pacifico dello sport e quello della guerra (Filostrato, La ginnastica, 7). La lampadedromia, o corsa con le fiaccole, è una gara in cui i partecipanti si passano delle fiaccole. Ha un valore simbolico di tipo rituale, in quanto il suo scopo originariamente è quello di trasferire il nuovo fuoco sacro all’altare nel più breve tempo possibile. La corsa delle donne avviene in una festività particolare, le Heraia (o Eree), che si tengono a Olimpia in onore di Hera e che permettono anche alle donne di partecipare ai propri giochi sportivi.
Il salto, per quanto goda di una grande popolarità, non ha luogo come gara autonoma, ma come componente del pentathlon (comprendente, oltre ad esso, la corsa, il lancio del disco, il lancio del giavellotto e la lotta). Si tratta di un salto in lungo con rincorsa effettuato con l’aiuto di pesi che l’atleta tiene nelle mani per darsi lo slancio (halteres).
Il punto da cui l’atleta prende lo slancio è una pedana chiamata bater, al di là della quale si stende un tratto di terreno dissodato e livellato, destinato all’atterraggio, chiamato skamma, lungo 50 piedi (=15,200 m). La lunghezza del salto è misurata sulla base dell’impronta del calcagno impressa sul terreno soffice e calcolata per mezzo di aste (kanones).
In origine vi è un’opposizione tra diskos, indicante un oggetto rotondeggiante di pietra, e solos, che identifica un oggetto, pure rotondeggiante, di metallo non lavorato.
Le successive modifiche apportate al disco, fino a condurlo agli standard dell’età classica, sia dal punto di vista della forma, sia da quello del materiale, attenuano l’opposizione e le due parole saranno usate come sinonimi.
Il disco dell’età classica ha dimensioni tali che, tenuto in mano, supera la metà dell’avambraccio.
Dimensioni e peso, però, variano a seconda delle località e delle classi di età. Lo standard medio deve aggirarsi sui due chilogrammi e sul diametro medio di 20-30 cm.
La pedana da cui si esegue la prova prende il nome di balbis. I risultati sono marcati da appositi semata (segnali) conficcati nel suolo.
La gara del lancio del giavellotto in età storica non è autonoma, ma fa parte del pentathlon. La sua esecuzione è accompagnata dal suono del flauto. L’attrezzo sportivo usato nelle competizioni è un’asta all’incirca dell’altezza di un uomo, che può essere fatta con diversi tipi di legno ed è normalmente dotata di una punta metallica, per permettere all’asta di conficcarsi in terra.
La principale differenza tra il giavellotto moderno e quello usato dai Greci è costituita da una cinghia, chiamata ankyle, che viene ogni volta legata intorno al baricentro dell’asta; il suo scopo è quello di imprimere al giavellotto un movimento rotatorio che consente una traiettoria più precisa. Una volta fissato il laccio, l’atleta inserisce al suo interno l’indice e il medio e stringe il palmo della mano intorno all’asta. Dopo questa operazione, l’atleta inizia una breve corsa a passi veloci e, un attimo prima di lanciare il giavellotto, frena la gamba destra inclinandola. Poi si verifica quella che in termini moderni è chiamata “inversione”, cioè un movimento in cui la gamba destra è portata in avanti rispetto alla sinistra e il giavellotto è lanciato con forza verso l’alto.