La conquista dello spazio viene percepita, nell’ immaginario collettivo, come un’epopea di gesta eroiche, di conquiste leggendarie, di esseri extra-terrestri e di guerre stellari. L’evento cui viene più frequentemente associato è la scoperta e conquista del continente americano. Risalgono a cinque anni fa le celebrazioni del quarantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna quale principale espressione dell’avventura spaziale. Non è certo il caso sminuire il valore di tale esaltante stagione che ebbe come elemento propulsore lo straordinario annuncio del presidente Kennedy nel maggio del 1961 di voler realizzare, entro la fine del decennio, uno sbarco americano sulla Luna. Tale sogno si realizzò nei tempi previsti. È ammirevole il coraggio di tutti coloro che si cimentarono in questa grande avventura. Tra i meriti di quest’ultima viene a volte trascurato il fatto che, a differenza dalle gesta dei grandi conquistatori, l’epopea spaziale si è sinora svolta in modo pacifico e senza l’uso della forza.
Ciò è avvenuto nonostante la sua primordiale matrice bellica. Trasportavano testate esplosive i missili V1 e V2 che la Germania di Hitler lanciò contro Inghilterra e Belgio. I primi furono i precursori dei missili di crociera, i secondi dei missili balistici. Questi ultimi hanno evidenti applicazioni spaziali. Gli astronauti sono in prevalenza dei militari. Motivi militari e di prestigio hanno indotto i paesi a impegnarsi nelle imprese spaziali. L’Europa svolse allora un ruolo centrale. Furono europei i primi scienziati che russi e americani reclutarono, senza troppo badare alla loro eventuale associazione a regimi nazifascisti, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ma guadagnò progressivamente terreno la dimensione di natura civile, scientifica anzitutto, legata sempre più a interessi economico-industriali. Essa condusse, in tempi sorprendentemente rapidi, a una crescente dipendenza dell’umanità dagli assetti spaziali. Si pensi che passarono solo tredici anni tra il lancio del primo Sputnik e lo sbarco sulla Luna. Che si tratti di meteorologia, di comunicazioni, di trasporti e di lotta all’inquinamento, questa dipendenza è ormai totale e insostituibile. Sono di natura prevalentemente civile le principali agenzie nazionali dedicate allo spazio (Nasa negli Usa, Esa in Europa). È volutamente civile anche il principale organismo delegato dalle Nazioni Unite alle questioni dello spazio: il Comitato sull’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico (Uncopulos) che ha sede a Vienna.
Lo spazio è anche uno dei principali settori in cui si è stabilita una dualità tra usi militari e civili e in cui è assai difficile distinguere tra le due applicazioni. La tecnologia necessaria per lanciare un missile con testata nucleare è molto simile a quella richiesta per mettere in orbita un satellite a scopi civili. Queste due categorie devono ricevere invece un trattamento differenziato sul piano politico-militare e su quello commerciale. Come poter distinguere sistemi, apparecchiature e tecnologie destinate a uso civile da quelle che invece mirano ad alimentare gli arsenali militari è una delle grandi sfide per gli addetti ai lavori in questo delicato settore. Alcuni criteri possono aiutare. Un missile a combustibile solido con ogni probabilità è di natura militare. I tempi di rifornimento per questo tipo di sistema sono molto più brevi; esso risponde quindi meglio all’esigenza di un impiego militare immediato. I lanciatori di oggetti spaziali non hanno bisogno di tale livello di prontezza e possono accettare i tempi più lunghi di rifornimento previsti per i missili a combustibile liquido. I missili basati su rampe mobili sono meno vulnerabili e meno facilmente reperibili e quindi decisamente destinati a un impiego bellico.
Se si può parlare di una prima stagione eroica dell’era spaziale, altrettanto si può dire per il processo normativo che ha accompagnato gli albori dell’impresa nello spazio extra-atmosferico. Come salvaguardare l’incolumità degli astronauti e dei costosi assetti lanciati nello spazio, come disciplinare l’uso di quest’ultimo evitando collisioni e incidenti e soprattutto impedendo che esso divenisse terreno di confronto bellico tra gli stati fu un’impresa forse più prosaica ma certamente indispensabile per lo sviluppo delle attività spaziali. Con una rapidità senza precedenti venne stipulata una serie di accordi internazionali volta a disciplinare tale materia. Essi costituiscono il fulcro della normativa ancora oggi in vigore.
Il documento su cui merita soffermarsi anzitutto è il Trattato sugli usi pacifici dello spazio extra-atmosferico (Outer Space Treaty) stipulato nel 1967, e cioè agli albori dell’era spaziale. Esso rimane a oggi il principale testo internazionale che disciplina la materia spaziale. Aperto alla firma degli stati dai tre depositari (Regno Unito, Stati Uniti, Unione Sovietica) esso sancisce alcuni principi fondamentali che rimangono alla base della normativa spaziale. Fondamentale è il principio che lo spazio non può essere soggetto alla sovranità di alcuno stato e ad alcun tipo di appropriazione nazionale, uno status quindi assimilabile alle acque internazionali del diritto del mare e allo status internazionale dell’Antartide. L’esplorazione e l’uso dello spazio devono essere effettuati a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi: essi sono liberi di esplorarlo ed utilizzarlo. Nessuno ha l’esclusiva. Il Trattato stabilisce altresì il principio della responsabilità degli stati per i danni causati dai propri oggetti spaziali. Tale principio si applica non solo alle istituzioni statuali ma anche a tutti gli organismi che si trovano sotto il controllo statale, siano essi governativi o non governativi. Si vedranno in seguito e in maggiore dettaglio le disposizioni del trattato che riguardano le questioni della sicurezza internazionale. Si affianca al Trattato del 1967 una serie di accordi stipulati successivamente che hanno natura applicativa di alcune specifiche disposizioni del Trattato medesimo.
Il primo documento che cronologicamente si pone in tale scia è l’Accordo sul salvataggio e la restituzione degli astronauti e degli oggetti lanciati nello spazio (‘Rescue Agreement’) adottato dall’Assemblea Generale dell’Un ed entrato in vigore il 3 dicembre 1968. Esso prende le mosse dall’art. 5 del Trattato del 1967 che definisce gli astronauti ‘inviati dell’umanità’ nello spazio e stabilisce misure per assicurarne la protezione e l’incolumità (uno status che ricorda sotto certi aspetti quello diplomatico). Vengono individuate le misure da assumere in caso di incidente spaziale che prevedono in particolare la notifica, la pronta restituzione («safely and promptly») allo stato di origine degli astronauti e degli eventuali relitti spaziali che cadano nel territorio di uno stato contraente o in acque internazionali. Si tratta di norme poco controverse che non risultano avere incontrato particolari difficoltà applicative.
Più carico di conseguenze legali ed economiche è l’oggetto della Convenzione sulla responsabilità internazionale in caso di danno causato da oggetti spaziali (Liability Convention) adottata dall’Assemblea Generale dell’Un ed entrata in vigore il 1° settembre 1972. Anche in questo caso il punto di partenza è il Trattato del 1967 che al suo articolo 6 prevede che gli stati membri si assumano la responsabilità internazionale per le attività nazionali nello spazio («...shall bear international responsibility for national activities in outer space, including the Moon and other celestial bodies»). La Liability Convention stabilisce due principali fattispecie: quella in cui il danno viene causato sulla superficie terrestre e quella in cui esso avviene nello spazio. Nel primo caso il risarcimento è dovuto in ogni caso allo stato colpito, nel secondo caso il risarcimento avviene solo in caso di colpa del paese possessore dell’oggetto spaziale. Ambedue le circostanze si sono già verificate concretamente. Nel 1978 un satellite sovietico Cosmos 954 a propulsione nucleare si schiantò in territorio canadese. In base all’art. 2 della Convenzione, la Russia pagò un risarcimento per la bonifica del territorio canadese contaminato. Nel 2009 un satellite russo Cosmos 2251 si scontrò nello spazio con un Iridium 33 americano.Nessun risarcimento venne pagato da alcuna delle parti ai sensi dell’art 3.
La Convenzione sulla registrazione di oggetti lanciati nello spazio esterno (Registration Convention) fu adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974 ed entrò in vigore nel 1976. È stata ratificata da 62 Stati tra cui i principali paesi attivi in campo spaziale. Essa prevede che gli stati parte forniscano alle Nazioni Unite i principali dati relativi ai propri lanci spaziali. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Spaziali (Unosa) gestisce un registro che raccoglie dati quali: il paese di appartenenza, il nominativo dell’oggetto lanciato, i parametri orbitali, la destinazione d’uso dell’oggetto spaziale. Sono circa cinquanta i paesi che hanno fornito dati circa gli oggetti spaziali lanciati. La lista di questi paesi si può considerare come un’indicazione utile per risolvere la vexata quaestio della lista dei paesi che hanno capacità spaziali (‘space faring nations’). Tra i firmatari figura anche la Corea del Nord che cerca di accreditare come spaziali alcuni lanci balistici ritenuti invece di natura militare. Manca invece all’appello l’Iran, che non ha sottoscritto questa convenzione nonostante avrebbe interesse a farlo, quantomeno per fugare i sospetti su alcuni suoi lanci che si aggiungono alla preoccupazione per i suoi programmi nucleari.
Solo 13 paesi hanno sinora ratificato l’Accordo che disciplina le attività degli stati sulla Luna e altri corpi celesti (Moon Agreement), entrato in vigore nel 1984. Anche questo documento si colloca nel solco del Trattato sullo spazio del 1967 e riafferma la proibizione di collocare qualsiasi tipo di armamento sulla Luna e gli altri corpi celesti, come specificamente previsto da quest’ultimo trattato. In aggiunta esso vieta l’uso o la minaccia dell’uso della forza o di qualsiasi altra azione ostile o minaccia di azioni ostili sulla Luna ed altri corpi celesti. L’accordo vieta la creazione di basi e fortificazioni militari come anche la sperimentazione di qualsiasi tipo di arma e lo svolgimento di manovre militari. L’uso di personale militare per la ricerca scientifica o per altri scopi pacifici non è invece proibito. L’accordo conferma l’applicazione alla Luna e ad altri corpi celesti delle disposizioni previste dal Trattato sullo spazio in materia di sovranità. La superficie, il sottosuolo della Luna e le sue risorse naturali non possono divenire proprietà di uno stato. Personale, veicoli, stazioni e installazioni collocate sulla superficie o nel sottosuolo, non creano alcun diritto di proprietà. Le misure di trasparenza a livello internazionale sono significative: l’accordo prevede la condivisione periodica dell’informazione sulle ricerche e l’esplorazione, lanci e i risultati delle missioni. È anche contemplata la possibilità di visitare, previo congruo preavviso, veicoli spaziali, apparecchiature, impianti, stazioni e installazioni sulla Luna. Le misure applicative dell’accordo appaiono meno cogenti: uno stato che abbia motivo di ritenere che un partner non adempia ai suoi obblighi può solamente richiedere consultazioni per ricercare una soluzione reciprocamente accettabile. Il principale punto debole dell’accordo è lo scarsissimo numero degli stati aderenti. Mancano all’appello proprio i principali paesi impegnati in campo spaziale come Usa, Russia, Cina e la stragrande maggioranza dei paesi dell’Unione Europea, ivi compresa l’Italia.
Tutti questi accordi vennero stipulati nei primi decenni dell’era spaziale. Nonostante si fosse allora in piena Guerra fredda si trattò di un periodo di grande fertilità normativa, mai eguagliato negli anni successivi. Esso si sviluppò di pari passo con gli esordi vertiginosi dei programmi spaziali. Il corpus di accordi stipulato nella cornice del Trattato internazionale sullo spazio rimane a oggi il fulcro del quadro normativo spaziale internazionale.
A fronte della complessità delle questioni spaziali e del rilievo che, nelle loro varie articolazioni, esse rivestono per il futuro dell’umanità, le strutture poste in essere dalla comunità internazionale sono alquanto leggere. Al centro di tale aggregato di organizzazioni si trovano anzitutto le Nazioni Unite, che sin dagli albori dell’era spaziale si sono dedicate alla tematica spaziale. Tuttavia gli organismi posti in essere risalgono agli anni Cinquanta, cioè ai tempi in cui l’impegno internazionale era una pallida frazione di quanto si è sviluppato nei decenni successivi. È sotto l’egida dell’Un, e più precisamente dell’Assemblea Generale, che si svolsero i negoziati che condussero alla definizione dei cinque trattati precedentemente citati. Ognuno dei cinque accordi venne lanciato da un’apposita risoluzione dell’Assemblea Generale.
La Prima commissione dell’Assemblea Generale (Sicurezza internazionale e disarmo) dedica ogni anno un buon numero di risoluzioni alle questioni spaziali. Esse servono a gettare le basi concettuali attorno alle quali costruire il consenso in vista di possibili accordi internazionali. Tuttavia le risoluzioni dell’Assemblea non sono vincolanti: si tratta sostanzialmente di raccomandazioni che vincolano politicamente ma non giuridicamente i paesi che votano a loro favore.
Con la Risoluzione 1472 fu istituito nel 1959 il Comitato per gli usi pacifici dello spazio extra-atmosferico (Uncopulos). Composto attualmente da 76 membri, esso si riunisce annualmente a Vienna per promuovere la cooperazione internazionale in campo spaziale, dare attuazione ai programmi dell’Un, incoraggiare la ricerca e studiare i problemi legali collegati all’esplorazione spaziale. Si avvale di due sottocomitati, quello tecnico/scientifico e quello legale nonché dei servizi dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio (Unosa) che ha sede anch’esso a Vienna e che opera nel quadro del Dipartimento degli affari politici del Segretariato dell’Un. Istituito nel 1958, questo ufficio pone in applicazione le decisioni dell’Assemblea Generale in campo spaziale e del Copuos e assiste i paesi emergenti nell’impiego delle tecnologie spaziali a favore dello sviluppo. Esso segue le questioni tecnico legali e svolge un ruolo generale di consulenza in campo spaziale a favore dei paesi membri e dei vari organismi delle Nazioni Unite.
Le strutture spaziali viennesi evitano di affrontare gli aspetti di sicurezza e controllo degli armamenti. L’unico organismo ufficialmente delegato ad affrontare tali questioni è la Conferenza del disarmo che ha sede a Ginevra. La sua missione è quella di negoziare trattati di disarmo. La Conferenza ha un passato glorioso: a Ginevra vennero infatti negoziati i principali trattati internazionali sul disarmo e la non proliferazione. Nella sua cornice furono infatti negoziati trattati come quello sulla proibizione delle armi chimiche, quello sulle armi biologiche e il Trattato sulla non proliferazione nucleare. Meno glorioso appare il futuro di questo organismo. Da diciotto anni la Conferenza non riesce a raggiungere un’intesa su un trattato da negoziare. Le questioni di sicurezza militare e in particolare la prevenzione di una corsa agli armamenti nello spazio si trovano regolarmente sulla sua agenda ma non si riesce a raggiungere il consenso su un programma di lavoro che consenta di avviare concertatamente un negoziato spaziale.
Di fronte alla paralisi della macchina delle Nazioni Unite, i paesi interessati a disciplinare la tematica spaziale non hanno altra scelta che quella di affrontare l’argomento in sedi diverse da quelle dell’Un. Ancora prima che si giungesse a questa situazione di stallo, un gruppo di paesi ‘likeminded’ costituì nel 1988 un organismo ad hoc, il Missile Technology Control Regime (Mtcr) per impedire che la tecnologia missilistica, che ha evidenti applicazioni spaziali, acquisisse una direzione prettamente militare e dedicata al trasporto delle armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche biologiche). Impedire la proliferazione dei vettori che servono per queste armi senza ostacolare la diffusione delle tecnologie a scopi civili e spaziali è una delle maggiori sfide in campo missilistico. Le attività del Mtcr, si afferma nelle linee guida dell’organismo, «non devono costituire un impedimento all’avanzamento tecnologico, allo sviluppo e ai programmi spaziali purché detti programmi non contribuiscano ai vettori per le armi di distruzione di massa». La normativa Mtcr non è giuridicamente vincolante né l’organismo ambisce all’universalità. Al contrario, l’ammissione al gruppo è assai selettiva. Solo 34 paesi partecipano al Mtcr; da oltre dieci anni non vi è stata alcuna nuova ammissione.
Scaturisce dall’alveo del Mtcr un’altra intesa internazionale che si riferisce ai missili balistici a scopi militari ma che riguarda anche i vettori per il lancio di veicoli spaziali. Si tratta del Codice di condotta dell’Aja stipulato nel 2002. Esso contiene una serie di misure di fiducia che assicurano in primo luogo la prevedibilità e la trasparenza dei lanci missilistici, siano essi di natura militare o spaziale. Neppure il Codice dell’Aia è giuridicamente vincolante. A differenza del Mtcr, è aperto all’ammissione dei paesi che vi vogliono aderire. Finora vi hanno aderito 134 paesi.
A fronte della dimensione raggiunta dalle attività spaziali e della loro centralità per la vita quotidiana di tutti i paesi e per la loro sicurezza, il complesso di norme in vigore e degli organismi internazionali chiamati a gestire questa complessa realtà appare assai fragile sia sotto il profilo normativo sia sotto quello delle strutture. Dopo la stagione degli accordi stipulati negli anni Sessanta, la normativa non ha subito evoluzioni corrispondenti allo sviluppo delle attività spaziali. Inoltre sussistono nello stesso Trattato sullo spazio del 1967 alcune contraddizioni e lacune che non possono non essere rilevate. Benché nel preambolo del Trattato si riaffermi enfaticamente il concetto dell’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico, la proibizione di introdurvi degli armamenti non è totale. Il principio dell’uso esclusivamente a scopi pacifici dello spazio vige in realtà soltanto per la Luna e gli altri corpi celesti. Per l’area spaziale più prossima alla superficie terrestre, che è quella più rilevante sotto il profilo dello sfruttamento tecnico-economico e sul piano strategico – e cioè lo spazio che avvolge esternamente l’atmosfera terrestre – è solo proibito l’uso della armi di distruzione di massa. Non è invece vietato il collocamento delle armi diverse da quelle di distruzione di massa e cioè delle armi convenzionali che costituiscono la componente più cospicua degli arsenali posseduti dagli stati. Questi ultimi avrebbero pertanto campo libero per introdurre nello spazio questo tipo di armamenti. Si tratta probabilmente della principale lacuna del Trattato sullo spazio. In aggiunta, la stessa proibizione delle più temibili armi di distruzione di massa non è totale. Essa riguarda solo la messa in orbita e non quindi l’attraversamento dello spazio extra-atmosferico. Ciò permette agli stati possessori di tale tipo di armamento, e a quelli che pur non possedendolo non vi hanno rinunciato, di collocarlo su missili balistici che attraversano lo spazio extra-atmosferico e che, rientrando nell’atmosfera terrestre, possono colpire con armi di distruzione di massa obiettivi collocati sulla terra. Fortunatamente il numero di possessori effettivi di tali armi si conta per ora sulle dita di due mani: la stragrande maggioranza dei paesi vi ha rinunciato.
Il Trattato del 1967 non proibisce comunque quella che in gergo specialistico viene chiamata la ‘militarizzazione’ dello spazio e cioè la messa in orbita di assetti spaziali ad uso delle forze armate. Sono centinaia ormai i satelliti in orbita di natura ausiliaria alle forze armate a scopo di intelligence, comunicazioni, meteorologia, osservazione. La loro proibizione non viene normalmente ritenuta opportuna. Si sostiene infatti che almeno alcuni tipi di satelliti militari, come quelli di osservazione, hanno in realtà effetti stabilizzanti sul piano della sicurezza poiché consentono una maggiore trasparenza e fiducia e riducono il rischio di attacchi a sorpresa. Appartengono senz’altro a tale categoria i satelliti definiti ‘National Technical Means of Verification’ adibiti alla verifica dallo spazio dell’applicazione dei trattati di disarmo. I principali accordi di riduzione di armi strategiche, quelli stipulati tra americani e russi, sono dotati di tali strumenti di verifica spaziale. La loro funzione è indispensabile per accertare l’effettiva applicazione dei trattati.
Vi è chi sostiene che persino i satelliti che aiutano ad individuare e colpire con maggiore precisione gli obiettivi militari possono avere effetti stabilizzanti e persino una valenza umanitaria, poiché la precisione consente di ridurre il rischio di provocare i cosiddetti danni collaterali e quindi causare sofferenze alle popolazioni civili e agli stessi militari. Va in effetti maturando nella legislazione umanitaria il concetto di danno inaccettabile (unacceptable harm) in virtù del quale gli armamenti più sofisticati e precisi (‘chirurgici’) possono essere esentati dalle proibizioni. È quanto è avvenuto per la proibizione delle munizioni a grappolo. Non tutti condividono questo concetto che consente ai paesi tecnologicamente più avanzati di detenere armi le cui versioni meno sofisticate sono proibite.
Diversa è la situazione per quanto riguarda l’impiego nello spazio di armi offensive, quella che in gergo specializzato viene nominata weaponization. Non si può sostenere che esse abbiano un effetto stabilizzante. Neppure le armi convenzionali offensive sono proibite dal Trattato. Vi sono state tuttavia varie iniziative volte a proibire, nel quadro di una prevenzione generale di una corsa agli armamenti nello spazio, l’uso e la messa in orbita di tale tipo di armamento. Le armi anti-satellitari (Asat) rientrano nella categoria delle armi offensive nello spazio e, pur non essendo proibite, costituiscono oggi con ogni probabilità il tipo più insidioso di armamento in campo spaziale. Si tratta di armi che sono oggi alla portata di vari paesi, capaci di distruggere satelliti civili o militari e quindi di causare danni irreparabili. Sono essenzialmente di duplice natura: quelle in orbità nello spazio che si scontrano contro un satellite nemico o che si fanno esplodere nelle sue vicinanze (di fatto dei kamikaze) e quelle lanciate da terra verso lo spazio. Negli anni Ottanta, i sovietici e gli americani le sperimentarono senza però giungere né a produrle né a dispiegarle operativamente. Gli americani optarono principalmente per i sistemi lanciati da terra mentre i russi sperimentarono prevalentemente quelle collocate nello spazio. I due paesi giunsero alla tacita intesa di non dispiegare questo tipo di arma e di mantenere una moratoria anche sulle sperimentazioni. Questa moratoria sopravvive ancora oggi. Nel 2007, la Cina procedette a sorpresa all’abbattimento nello spazio di un proprio satellite. Essa ha così affermato la propria appartenenza al ristrettissimo gruppo di paesi dotati di capacità anti-satellitare. Altri paesi si stanno interessando a questa tecnologia. È da auspicare che l’esperimento cinese rimanga un episodio isolato e che la moratoria in atto non sia fatta naufragare.
Uno dei motivi per i quali russi e americani si sono finora mantenuti prudenti nel campo delle armi anti-satellite e si sono attenuti alla moratoria è dato dal fatto che l’impiego di tale tipo di armamento avrebbe effetti devastanti sul piano dell’ambiente spaziale. Basti ricordare che lo spazio extra-atmosferico è già infestato da migliaia di piccoli frammenti derivanti dalla decomposizione nello spazio dei satelliti esistenti. Anche se di dimensioni minime questi frammenti orbitano a velocità stratosferiche e possono causare danni enormi se si scontrano con altri satelliti in orbita. Qualora si arrivasse all’impiego delle armi anti-satellite, il che costituirebbe un casus belli, il numero di questi frammenti aumenterebbe esponenzialmente rischiando di rendere impossibile qualsiasi attività spaziale. Il danno per l’umanità sarebbe incalcolabile.
Di fronte all’ampiezza dei rischi e della minaccia e avendo in mente le carenze della normativa internazionale, è un vero miracolo che lo spazio extra-atmosferico non sia divenuto, come già avvenuto per la terra, il mare e l’aria, teatro di conflitti internazionali. Ci sono voluti pochissimi anni dopo l’invenzione dell’aeroplano per trasformare il cielo in teatro di battaglia. Lo stesso si può dire oggi per il settore informatico: a pochi anni appena dall’inizio dell’era dei computer, la guerra cibernetica è già una triste realtà. Nello spazio la situazione è diversa: non è stata ancora adottata nessuna decisione irreversibile e saremmo ancora in tempo per affrontare la minaccia di un conflitto spaziale in modo preventivo anziché successivo ad uno scontro. La sede naturale per farlo sarebbero ovviamente le Nazioni Unite, dove la questione viene dibattuta da decenni. Visto il duplice uso, civile e militare, degli assetti spaziali, sarebbe necessario che la questione venisse affrontata nella sua globalità attraverso un approccio comprehensive. Le sedi viennesi (civile) e ginevrine (sicurezza e militare) si muovono invece separatamente. Ciò avviene nonostante il fatto che esistano obiettivi e convergenze e che sussistano evidenti questioni orizzontali, prima tra le quali quella dei frammenti spaziali che non possono che essere affrontate congiuntamente. L’Assemblea Generale dell’Un approva ogni anno un certo numero di risoluzioni spaziali e si sono da poco conclusi i lavori di un gruppo di esperti governativi in cui l’Italia era egregiamente rappresentata dal Professor Sergio Marchisio dell’Università La Sapienza di Roma. Ma non si è sinora riusciti a passare, né a New York né a Vienna o a Ginevra, dalla fase di studio e delle dichiarazioni a quella negoziale vera e propria.
Alcuni volonterosi, tra cui l’Italia, cercano di farlo da diversi anni. Negli anni Ottanta il nostro paese si fece promotore dell’ambizioso progetto dell’estensione delle proibizioni del Trattato sullo spazio, circoscritte alle armi di distruzione di massa, anche alle armi convenzionali. La Cina e la Russia, preoccupate dagli annunci reaganiani sulle guerre stellari, lanciarono il concetto della prevenzione di una corsa agli armamenti nello spazio e più recentemente la proibizione del collocamento nello spazio di armi offensive. In realtà il rischio maggiore deriva ancora oggi dai sistemi anti-satellitari, siano essi basati a terra o nello spazio. Gli americani mantengono un vantaggio netto nella difesa anti-missilistica. Ma molti altri paesi si stanno cimentando in questa impresa e, come avvenuto nel caso delle armi nucleari, finiranno per azzerare il vantaggio Usa. Ai tempi di George W. Bush vi era una totale indisponibilità dell’amministrazione Usa a qualsiasi vincolo internazionale sulle attività spaziali americane. Visto lo stallo, l’Italia prese nel 2007 l’iniziativa di redigere il testo di un Codice di condotta sulle attività spaziali che appariva come l’unica via, accettabile a tutti i principali attori spaziali, per fare qualche progresso. Da leale membro dell’Unione Europea, essa fece confluire nell’ambito della politica estera e di sicurezza il suo progetto, poi fatto proprio dal massimo organo politico dell’Unione, il Consiglio europeo. Il progetto italiano poté avvalersi così del sostegno politico, diplomatico, finanziario e logistico dell’Unione. Il rovescio della medaglia fu che l’Italia, pur vedendosi riconosciuta la paternità dell’iniziativa, ne perse il controllo e la gestione. Il progetto si trova ora nelle mani del Servizio di azione esterna dell’Eu (Seae) istituto con il Trattato di Lisbona. È in corso una lunga e laboriosa trattativa per realizzare un progetto forse meno ambizioso ma il più realistico, viste le circostanze, per assicurare che gli usi dello spazio rimangano pacifici.
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Approfondimento
Se tra il 1957 (anno del primo satellite in orbita) e il 1970 erano solo dieci, oggi più di 60 paesi e un gran numero di attori privati hanno almeno un satellite in orbita e ne sfruttano i relativi servizi. L’utilizzo dello spazio non è più soltanto relegato alla sfera militare, scientifica e governativa di pochi paesi, ma è parte integrante della vita quotidiana di molti cittadini e risponde alla domanda di un mercato di massa (servizi di telecomunicazioni satellitari, telefonia, internet, Tv, come pure il Gps). In poche parole, assistiamo oggi a un importante finanziamento tanto pubblico quanto privato per lo sviluppo, la costruzione e lo sfruttamento dei satelliti.
Ciò comporta il dispiegamento di un numero crescente di tali infastrutture in orbita intorno alla Terra, e soprattutto in determinate orbite molto utilizzate, come quelle basse o quella geostazionaria. Tali orbite sono ancora più congestionate a causa della presenza di una grande quantità di detriti, costituiti da frammenti staccati dai satelliti o dai lanciatori, e che viaggiano intorno alla Terra a grande velocità, nonché da vecchi satelliti non più operativi. Al di là delle dimensioni, è la velocità con cui viaggiano a trasformare i detriti in veri e propri proiettili, costituendo un rischio per gli altri oggetti in orbita, compresa per esempio la Stazione spaziale internazionale e il suo equipaggio. Poiché in passato questo tipo di incidente è già avvenuto, e poiché è evidente che il numero di satelliti in orbita continuerà a incrementare, i paesi che oggi svolgono attività spaziali, ma anche coloro che pensano di farlo in futuro nonché il settore privato, hanno tutti interesse a diminuire il più possibile tali rischi e a condurre attività in maniera sostenibile.
La sicurezza nello spazio è anche strettamente legata alla cosiddetta ‘arsenalizzazione’ dello spazio o ‘corsa agli armamenti’ nello spazio. Fin dalle origini (anni Cinquanta) la possibilità di poter piazzare in orbita diversi tipi di armamenti per minacciare la Terra o altri oggetti in orbita o l’idea di usare un’arma da terra o dall’aria verso lo spazio sono state pensate e collaudate dalle due superpotenze. Per quanto riguarda le armi di distruzione di massa, si é rapidamente giunti a un accordo che vietasse il loro uso e dispiegamento nello spazio (Trattato sullo spazio del 1967). Ma nulla ha vietato – né vieta tutt’oggi – il dispiegamento o l’utilizzo nello spazio di armi ‘convenzionali’ (che sfruttino per esempio l’energia cinetica, le interferenze radio o il laser). Alcuni eventi avvenuti negli anni 2000 – tra cui il collaudo di un’arma anti-satellite da parte della Cina o il tenore della Strategia spaziale americana – hanno sottolineato l’urgenza della questione, ma anche l’immobilismo della comunità internazionale, incapace di prendere iniziative concrete per far fronte alla situazione dell’arsenalizzazione dello spazio e dello sviluppo di Asat(armi anti-satellite).
È in questo contesto, e in risposta a una domanda precisa da parte dell’Un, che l’Italia ha preso l’iniziativa presentando, nel 2007, un documento di riflessione. Rilevando il vuoto non solo giuridico, ma anche in tema di misure di trasparenza e costruzione della fiducia (Tcbm l’acronimo inglese) in ambito spaziale, ha proposto una serie di Tcbm e ha compiuto il primo passo verso la stesura di un Codice di condotta che, diversamente da un vero e proprio trattato, avesse più chances di essere accettato dalla comunità internazionale. Il testo, elaborato e portato avanti col sostegno europeo, è stato poi ufficialmente adottato dal Consiglio dell’Unione Europea nel 2008 come base per le negoziazioni con i paesi terzi. Ottenuto l’appoggio di alcuni paesi, il testo incontra anche molte critiche e resta ancora oggi oggetto di negoziazioni.
Il Codice non è uno strumento giuridicamente vincolante, fa parte piuttosto della famiglia degli strumenti di soft law e chiede perciò agli stati un impegno volontario e di tipo politico a rispettarlo per il bene collettivo. Lo scopo del codice è di incrementare la sicurezza e la sostenibilità delle attività spaziali attuali e future. Affronta quindi il tema dei detriti ma anche dell’arsenalizzazione dello spazio.
Esso si basa su una serie di principi generali, quali il diritto di tutti gli stati ad accedere, esplorare e sfruttare lo spazio liberamente e a scopi pacifici, senza subire interferenze dannose, ma anche la responsabilità di ogni stato di astenersi dall’uso della forza e di evitare che lo spazio diventi un’arena di conflitti.
Sulla base di tali principi, il Codice prevede concretamente un insieme di misure che ogni attore (pubblico e privato) che vi aderisca dovrebbe rispettare nello svolgimento delle sue attività. Tra queste ricordiamo l’attuazione di politiche e procedure per minimizzare rischi di incidenti e collisioni che portino alla creazione di detriti, nonché ogni forma di intereferenza dannosa con le attività di un altro stato, a meno che tale azione non sia giustificata da motivi di sicurezza (quali il diritto all’autodifesa o la non creazione di detriti, oppure se vite umane sono a rischio). Il Codice prevede anche alcuni meccanismi, come per esempio quello per cui gli stati che aderiranno al Codice si impegnano a notificare agli altri stati aderenti – e in maniera preventiva – alcune delle loro attività (per esempio, la notifica del lancio di un oggetto, o eventuali manovre anti-collisione o ancora il malfunzionamento o la perdita di controllo dei satelliti). Inoltre, e sempre al fine di incrementare la trasparenza e la fiducia reciproca, il codice prevede meccanismi di consultazione e dialogo tra gli stati, la presentazione di una relazione annuale sulle proprie strategie spaziali e sui propri programmi, nonché visite organizzate nelle proprie basi e infrastrutture dedicate alle attività spaziali.
di Lucia Marta
Approfondimento
Le armi anti-satellite (Asat nell’acronimo inglese) sono sistemi progettati per danneggiare o colpire i satelliti impiegati per scopi militari e strategici. Gli Usa e l’Urss hanno sviluppato e testato questi dispositivi durante la Guerra fredda. Tuttavia, una moratoria internazionale de facto è stata rispettata dal termine del confronto bipolare. Attualmente si ritiene che i paesi ad aver sviluppato tali dispositivi siano gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Le tappe:
Anni Cinquanta-Sessanta. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica svilupparono i primi dispositivi anti-satellite come capacità residuali di sistemi che furono sviluppati per altri scopi, in particolare per la difesa contro i missili balistici. A causa dei limiti dei primi sistemi di guida, i dispositivi americani e sovietici venivano equipaggiati con testate nucleari dalla potenza di un megatone la cui detonazione avrebbe permesso di colpire l’obiettivo con successo anche in assenza di un preciso sistema di guida.
Anni Sessanta-Settanta. La decisione di avviare un programma sovietico sulle armi anti-satellite venne presa nel marzo del 1961. Il dispositivo Istrebitel Sputnik impiegava una strategia coorbitale: un sistema armato con esplosivi di tipo convenzionale veniva posizionato sulla stessa orbita del satellite obiettivo per poi avvicinarsi fino alla distanza sufficiente per danneggiarlo.
Anni Ottanta. Nel 1982 gli Usa annunciarono l’intenzione di testare un dispositivo a due stadi lanciato da un aereo F-15 in volo ad alta quota (Air-Launched Miniature Vehicle o Almv). Il missile avrebbe raggiunto il satellite obiettivo orbitante a bassa quota e lo avrebbe abbattuto in una collisione ad alta velocità, una tecnica nota come ‘kinetic-kill’ o strategia ‘hit-to-kill’.
Anni Novanta. In questo periodo l’attenzione si è spostata sulla tecnologia laser. Le armi anti-satellite che generano un fascio diretto di energia elettromagnetica offrono la possibilità di attaccare i satelliti da terra con differenti livelli di intensità. In questo periodo l’esercito americano ha accelerato i progetti per lo sviluppo di un dispositivo anti-satellite noto come programma ‘kinetic-energy’ Asat (Ke-Asat).
Anni Duemila. Disturbare deliberatamente le comunicazioni satellitari (satellite jamming) interferendo con le comunicazioni radio tra il satellite e l’utente a terra rientra certamente tra le tecnologie anti-satellite. Sia gli Usa che la Russia possiedono probabilmente una tale capacità.
Controllo degli armamenti e sforzi sul piano diplomatico
Idealmente un trattato legalmente vincolante contro una corsa agli armamenti nello spazio costituirebbe la soluzione ottimale per garantire la sicurezza di tutte le attività spaziali. Una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che promuove un tale trattato viene approvata regolarmente ogni anno.
Nel 2008 la Russia e la Cina hanno presentato la bozza per il Trattato per la prevenzione del collocamento di armi nello spazio, la minaccia o l’uso della forza contro oggetti spaziali (Ppwt) alla Conferenza sul disarmo. Il trattato imporrebbe pesanti limitazioni all’impiego di armi anti-satellite ma non ne limiterebbe lo sviluppo e il loro dispiegamento.
Nel 2010 l’Unione Europea ha pubblicamente presentato il progetto per un Codice di condotta per le attività spaziali (Code of Conduct for Outer Space Activities). Con esso lo sviluppo e il dispiegamento di armi anti-satellite non sarebbero soggetti a limitazione ma il loro uso sarebbe proibito. Nel gennaio 2012 gli Stati Uniti hanno annunciato la propria disponibilità a cooperare con l’Unione Europea e con altri paesi nello sviluppo di un codice di condotta internazionale per le attività spaziali. Un’altra possibile opzione potrebbe essere costituita da un trattato legalmente vincolante che proibisca i test delle armi anti-satellite.
La comunità internazionale ha espresso grave preoccupazione circa i frammenti spaziali che l’ultimo test cinese ha generato e dell’aumentato rischio che tali frammenti possono costituire per i veicoli spaziali provvisti di equipaggio come anche per gli assetti commerciali.
Una sfrenata corsa agli armamenti e un conflitto nello spazio avrebbero effetti devastanti sulla sicurezza internazionale. Atti ostili come l’impiego di armi anti-satellite paralizzerebbero la maggior parte delle attività economiche ed industriali. I paesi industrializzati sarebbero le prime vittime, ma i paesi in via di sviluppo li seguirebbero rapidamente. L’impatto dei frammenti spaziali sarebbe drammatico, impedendo praticamente l’uso dello spazio per le attività sia civili che militari e conducendo alle estreme conseguenze di una recessione globale e di una regressione sul piano tecnologico. Questi saranno i costi di una corsa agli armamenti nello spazio ma non è ancora troppo tardi per un approccio preventivo.
di Stefano Borgiani
Approfondimento
L’aumento delle attività spaziali ha sollevato la problematica del pericolo rappresentato dai frammenti spaziali (space debris). In oltre cinquant’anni di attività nello spazio più di 4900 lanci hanno posizionato oltre 6600 satelliti in orbita, dei quali circa 3600 si trovano tuttora nello spazio. Di questi solo una piccola frazione (circa 1000) risulta ancora operativa. I detriti orbitali includono sia i frammenti di origine naturale, come per esempio le meteoroidi, sia quelli di origine artificiale, ossia creati dall’uomo. Per detrito orbitale si intende quindi ogni oggetto artificiale in orbita attorno la Terra che non ha più un utile impiego. In questa categoria rientrano i veicoli spaziali non più funzionanti, gli stadi abbandonati dei vettori, i frammenti. L’abbattimento di satelliti da parte di armi anti-satellite lanciate da terra ha contribuito a questo fenomeno, soprattutto nel recente passato. L’incremento del numero dei frammenti spaziali aumenta il rischio potenziale per tutti i veicoli, in particolar modo per la Stazione spaziale internazionale (Iss), gli space shuttles e tutti gli altri veicoli con un equipaggio a bordo. I frammenti spaziali costituiscono una minaccia non solo per le attività nello spazio ma anche per quelle terrestri. Per esempio, nel marzo del 2007 un frammento spaziale proveniente da un satellite spia russo ha sfiorato un Airbus A240 della compagnia cilena Lan Chile che trasportava 270 passeggeri in volo tra Santiago del Cile e Auckland in Nuova Zelanda. Dal momento che solo i frammenti spaziali più grandi possono essere classificati e monitorati, solo questi possono essere evitati attraverso misure attive o manovre evasive. I frammenti di dimensioni più piccole possono essere neutralizzati attraverso tecniche di protezione passiva come quelle impiegati per la Stazione Spaziale Internazionale.
Il dipartimento per la difesa degli Stati Uniti mantiene una lista accurata e aggiornata dei frammenti in orbita attorno la Terra grandi a sufficienza da poter essere tracciati. La Nasa e il dipartimento per la difesa cooperano e condividono le responsabilità nella qualificazione dell’ambiente spaziale, inclusi i detriti orbitali. La tracciatura avviene mediante l’impiego di sensori sia ottici che radar. La Nasa, per far fronte a tali minacce, ha elaborato una serie di linee guida che vengono usate per valutare se il passaggio di un frammento spaziale è talmente vicino da giustificare un’azione evasiva per poter garantire la sicurezza dell’equipaggio a bordo. Le manovre evasive sono generalmente minime e necessitano di alcune ore prima dell’impatto previsto.
Un’analisi dell’Esa mostra come una massa inferiore a 2500 oggetti integri possa ridurre la popolazione totale dei frammenti spaziali con una probabilità del 50%. Se la riduzione del numero di oggetti integri in orbita viene considerato come un obiettivo desiderabile, esso però contrasta con la tendenza del numero delle attività spaziali che invece registra un continuo aumento. Tuttavia, limitare il numero dei lanci e la loro permanenza nello spazio, non può essere imposto agli stati e non sarebbe molto efficiente. Pertanto, l’unica opzione rimasta sarebbe quella della rimozione attiva degli oggetti di una certa dimensione che si trovano attualmente in orbita. Sebbene la rimozione dei frammenti spaziali debba essere attuata con una prospettiva globale, non è possibile ignorare i vincoli legali legati alla proprietà degli oggetti in questione. Inoltre, la responsabilità legale di una tale operazione dovrebbe essere opportunamente condivisa tra tutti i soggetti interessati.
La minaccia dei frammenti spaziali è un fenomeno che tutti i paesi con capacità spaziali hanno contribuito a creare. Se tale fenomeno non verrà opportunamente arginato, costituirà un serio pericolo per tutte le future missioni nello spazio. A livello europeo i risultati delle ricerche vengono regolarmente divulgati nel corso di conferenze appositamente organizzate ogni quattro anni dall’Agenzia spaziale europea. Oggi la dimensione globale della minaccia è internazionalmente riconosciuta e i progettisti dei sistemi spaziali, gli operatori del settore e i policy-makers condividono tutti la visione secondo cui un controllo attivo del fenomeno dei frammenti spaziali è necessario per garantire la sicurezza dei voli e delle future attività nello spazio. Al fine di ottenere un’effettiva e bilanciata implementazione delle misure di mitigazione, esse devono necessariamente basarsi sul consenso internazionale.
di Stefano Borgiani