PENITENZIARIO, SISTEMA
(XXVI, p. 672; App. IV, II, p. 757)
L'ordinamento penitenziario italiano. − La l. 26 luglio 1975 n. 354 recante "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà" ha dato luogo a una svolta radicale rispetto al precedente ordinamento penitenziario, avviando un processo innovativo tuttora in corso e di cui non è facile intuire completamente gli sbocchi finali. Per comprendere i termini del dibattito e delle polemiche che hanno accompagnato la riforma fin dal suo sorgere, sembra opportuno ripercorrerne i punti qualificanti così come si è andata configurando anche a seguito dei successivi interventi legislativi.
L'art. 1 della l. 354 del 1975 stabilisce che il trattamento penitenziario, che ha per oggetto, oltre ai condannati con sentenza passata in giudicato, anche gli imputati internati, dev'essere conforme a umanità e assicurare il rispetto della dignità della persona. All'affermazione di tali principi segue, in coerenza al dettato del 3° comma dell'art. 27 della Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato), la previsione che "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti".
Il principio d'individualizzazione − che si estrinseca nell'osservazione scientifica della personalità condotta durante tutto il corso dell'esecuzione della pena al fine di rilevare le carenze fisico-psichiche e le altre cause del disadattamento sociale del condannato o dell'internato (art. 13 della l. 354) − costituisce il cardine del nuovo ordinamento penitenziario. Proprio il raccordo tra tale principio e quello dell'applicazione in concreto della pena che il codice penale affida al potere discrezionale del giudice, sia pure nell'ambito di limiti predeterminati (artt. 132, 133, 133bis c.p.), è probabilmente all'origine di molti dei maggiori problemi posti dalla riforma.
Si è infatti potuto constatare che lo sforzo di attuare pienamente il trattamento individualizzato, chiaramente emergente da tutta la disciplina del nuovo ordinamento penitenziario e dagli stessi lavori preparatori, ha finito con lo svuotare in larga parte il contenuto afflittivo della pena sulla scia dell'insegnamento della moderna scienza criminale. Si pensi alla radicale trasformazione del regime di espiazione in istituto, reso meno rigido e più aperto ai rapporti con l'esterno. Ma soprattutto ha dato luogo al venir meno di quelli che erano sempre stati considerati caratteri distintivi della pena, rispetto alla misura di sicurezza (distinzione d'altronde difficilmente superabile essendo recepita a livello costituzionale, nell'art. 25): l'immodificabilità nel contenuto e la rigorosa determinazione della durata. E che vengono invece meno davanti a un regime penitenziario contraddistinto dall'ampio ricorso a misure alternative alla detenzione, ai permessi premio e agli sconti di pena previsti per la liberazione anticipata.
Ciò avviene mentre nei codici penale e di procedura penale è rimasta immutata l'impostazione originaria della disciplina della pena. Da ciò deriva una situazione di confusione e di grave incertezza che aumentano davanti al delinearsi di un ricorso a misure che, definite genericamente come "alternative alla detenzione", fuoriescono dalla tradizionale prospettiva della pena detentiva per sfociare piuttosto in misure più o meno accentuate di controllo del condannato, al quale si cerca comunque di evitare la compressione totale della libertà nei limiti consentiti dalla pericolosità dello stesso. Chiaramente indicative in tal senso sono misure come la detenzione domiciliare e le altre misure alternative, formalmente trattate quali mere trasformazioni in sede esecutiva dell'applicazione della pena detentiva, ma che nella sostanza assumono tale specifica identità e tale autonomia da essa da confondersi, insieme alle misure sostitutive delle pene detentive brevi di cui alla legge cosiddetta ''di depenalizzazione'' (l. 24 novembre 1981 n. 689), in una nuova categoria caratterizzata da un forte accostamento alle misure di sicurezza, per lo spazio prevalente che anche qui si dà al momento rieducativo. In conseguenza di ciò, da varie parti si è arrivati alla conclusione secondo cui, nel nostro ordinamento, con la riforma del 1975 e le successive modificazioni è stato in realtà introdotto il principio della personalizzazione della pena, intesa non solo come sua irrogazione in concreto al condannato, ma anche come adattamento continuo − come tipo di misura applicata e come durata della stessa sia pure entro certi limiti − alla personalità del condannato sulla base delle esigenze che via via si delineano.
Quanto detto sopra evidenzia dunque la centralità assunta dal programma di trattamento rieducativo, rispetto alla concezione tradizionale della pena recepita nel codice penale tutta incentrata sul rapporto, stabilitosi al momento della condanna, tra fatto di reato e applicazione della pena. Il programma viene specificamente indicato nella cartella del soggetto interessato, dove sono altresì riportati gli sviluppi del trattamento praticato, le modifiche e integrazioni, nonché i risultati. Esso è predisposto da una équipe presieduta dal direttore dell'istituto e composta da esperti, e viene approvato con decreto dal magistrato di sorveglianza (art. 69 l. 354). Questo intervento del giudice non riesce peraltro a obliterare la natura intrinsecamente amministrativa della procedura. Anche sotto tale profilo emerge quindi la mancanza di adeguato raccordo tra il nuovo ordinamento penitenziario e le disposizioni vigenti del legislatore penale sull'irrogazione della pena, che legano invece strettamente l'applicazione della pena all'esercizio della giurisdizione.
La nuova disciplina del trattamento penitenziario schiude dunque orizzonti che portano a superare in larga misura quelli segnati dalla nozione di pena accolta dai codici penale e di procedura penale. Ciò è confermato dall'esame specifico di tale disciplina, in relazione anzitutto agli obiettivi che essa persegue. Al riguardo, l'art. 1 del d.P.R. 29 aprile 1976 n. 431 stabilisce che il trattamento consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei singoli detenuti e internati e a promuovere "un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale".
Da questa concezione deriva un forte sviluppo delle attività comuni, ricreative e non, all'interno degli istituti, in opposizione al sistema della reclusione cellulare; nonché degli interventi diretti a favorire l'istruzione a ogni livello, compresa l'università, e la partecipazione a corsi di addestramento professionale. Tutto ciò comporta sempre forti aperture ai contatti verso l'esterno, tanto maggiori quando si pensi al ruolo che viene riservato all'avviamento al lavoro: avviamento che in molti casi, specie se si tratta di specializzazioni non utilizzabili facilmente nell'istituto, si svolge fuori dell'istituto, e che comunque mette sempre in contatto il detenuto lavoratore con l'esterno. Si aggiunga che proprio dal buon esito del programma di trattamento, e quindi di queste aperture all'esterno su cui esso in larga misura si fonda, dipendono in ultima analisi anche l'applicazione della liberazione anticipata, prevista per tutti quei condannati che abbiano dato prova appunto di partecipazione all'opera di rieducazione e consistente (art. 54 l. 354, modificato dalla l. 663 del 1986) in una detrazione attualmente di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata, nonché la concessione dei permessi premio.
In questo quadro un ruolo fondamentale viene di conseguenza svolto dagli uffici di sorveglianza, distinti, a seguito della citata l. 663, in due organi: il magistrato di sorveglianza, il quale vigila sugli istituti di prevenzione e pena, decide, oltre che sull'approvazione del programma di trattamento, sui reclami dei detenuti, e ha facoltà infine di provvedere sui permessi, sulle licenze e sulle modifiche concernenti l'affidamento in prova e la detenzione domiciliare, nonché sull'applicazione e revoca delle misure di sicurezza; il tribunale di sorveglianza, composto da due magistrati e due esperti, che ha competenza in materia di concessione e revoca dell'affidamento in prova, della detenzione domiciliare, della semilibertà, della liberazione condizionale, di rinvio dell'esecuzione delle pene detentive, e funge altresì da giudice d'appello avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza.
L'indubbia difficoltà di dare un'adeguata applicazione alle linee ispiratrici della riforma del 1975 doveva dar luogo a una serie di interventi tendenti, da un lato, a fronteggiare, anche all'interno degli istituti di pena, gli inconvenienti derivanti da alcune disposizioni rivelatesi inadatte ai fini della prevenzione e del controllo dei fenomeni di criminalità più gravi, e dall'altro a rendere più adeguato il regime dell'esecuzione agli obiettivi previsti di rieducazione e di recupero dei condannati. Si collocano in tale prospettiva le modifiche introdotte con le l. 12 gennaio 1977 e 21 giugno 1985 n. 297 (quest'ultima, in particolare, ha introdotto l'art. 47 bis dell'ordinamento penitenziario, il quale ha esteso l'affidamento in prova anche ai detenuti tossicodipendenti e alcooldipendenti disposti a sottoporsi a programmi di disintossicazione); modifiche connesse all'esigenza di far fronte, anche all'interno del carcere, a gravi fenomeni quali il terrorismo, la recrudescenza della criminalità organizzata e il traffico degli stupefacenti, e con le quali si è dato corso a forme più pregnanti di controllo, in istituto e fuori, dei condannati e internati.
L'entrata in vigore della l. 10 ottobre 1986 n. 663 (cosiddetta ''legge Gozzini'') intitolata "Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative delle libertà", doveva, di contro, segnare lo sforzo di una profonda modifica dell'ordinamento penitenziario, in direzione anche più aperta rispetto alla legge del 1975, tale anzi da accentuare quel fenomeno di profondo mutamento delle caratteristiche e della funzione della pena cui si è accennato. Con questa legge, infatti, ha avuto riconoscimento a livello formale l'esigenza di diversificare in certi casi il regime penitenziario, introducendo eccezionalmente, con misura temporanea prorogabile per brevi periodi, una sorveglianza particolare nei confronti di alcune categorie di detenuti che con il loro comportamento possono compromettere l'ordine e la sicurezza dell'istituto di pena o impedire le attività degli altri detenuti. È mantenuto, però, in via generale il principio che a tutti i detenuti si applica il regime comunitario penitenziario, con i benefici che lo caratterizzano e che risultano notevolmente estesi con la legge in oggetto.
Così, nel caso dei permessi, essi non sono più concessi soltanto, come in precedenza, in relazione a eventi familiari di particolare gravità: tutti i condannati che hanno mantenuto una regolare condotta e che non risultino di particolare pericolosità sociale possono infatti ora ottenere dal magistrato di sorveglianza, ai fini del mantenimento dei rapporti con il mondo esterno (che si è detto del resto essere uno dei momenti più importanti del trattamento), dei permessi premio di durata non superiore ai 15 giorni per ogni volta e per non più di 45 giorni in ciascun anno di espiazione della condanna. La citata l. 633 ha rimosso inoltre le preclusioni per la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà per i responsabili di particolari tipi di reati; ha innalzato il limite della pena inflitta per la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale; ha introdotto, come sopra accennato, una nuova forma di misura alternativa alla detenzione, quale la ''detenzione domiciliare''; ha, altresì, previsto la concessione, per le pene fino a sei mesi, dei benefici della semilibertà e dell'affidamento in prova al servizio sociale, evitando al condannato che ha già espiato un periodo di custodia cautelare il ritorno in carcere; ha infine aumentato in maniera consistente il limite dell'''abbuono'' di pena concedibile ai condannati (portato dai 20 giorni originari agli attuali 45 giorni per ogni semestre di pena espiata).
Vari episodi − mancati rientri dai permessi premio; reati commessi da condannati a pene detentive usufruenti dei benefici del nuovo ordinamento penitenziario; concessione di benefici, che hanno colpito per la loro ampiezza l'opinione pubblica, a condannati per gravi reati − in varia guisa evidenzianti disfunzioni anche importanti della riforma del 1975, anche se sovente legati, più che al momento dell'esecuzione, a un uso non sempre oculato del regime cautelare previsto dal nuovo codice di procedura penale, hanno aperto un vivace dibattito su quella che si è ritenuta un'applicazione indiscriminata dei benefici, vista, più a fondo, come momento di emersione di contrasti talora stridenti tra la normativa sostanziale del codice penale in materia di pena e quella recata dalla legge del 1975.
Bibl.: G. Giostra, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, Milano 1983; G. Grasso, Misure alternative alla detenzione, in Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, ivi 1985; E. Trapani, Le sanzioni penali sostitutive, Padova 1985; A. Presutti, Profili premiali dell'ordinamento penitenziario, Milano 1986; AA.VV., Problemi applicativi della legge 663/1986, a cura del Consiglio superiore della magistratura, Roma 1987; A.G.L. Daga, Regole nuove negli istituti di pena, in Quaderni della giustizia, 63 (1987); AA.VV., L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, a cura di V. Grevi, Padova 1988; A. Di Giovanni, L'esecuzione nel nuovo processo penale, Napoli 1989; M. Di Cara, A. Gervasoni, M.A. Steiner, Riforma penitenziaria e intervento sociale, Roma 1990; A. Bernasconi, La sicurezza penitenziaria tra prassi amministrativa e controllo giurisdizionale, in Indice penale, 1990, p. 147 ss.; Provincia di Livorno, Atti del convengno su Sistema penitenziario e sicurezza della collettività, Livorno 14-15 aprile 1990, s.l. 1990; G. Mosconi, La controriforma carceraria, in Dei delitti e delle pene, 2 (1991), p. 141 ss.; G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione: commento alla l. 24 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni con riferimento al regolamento di esecuzione e alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, Milano 1991; L. Barzano, La pena del non lavoro, ivi 1994.
Organizzazione del sistema penitenziario. - La riforma attuata dalla l. 15 dicembre 1990 n. 395, e che aveva come fine quello di disciplinare il nuovo "Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria", ha introdotto radicali innovazioni anche nell'ambito dell'amministrazione penitenziaria, stabilendo a livello centrale la soppressione della Direzione generale per gli Istituti di prevenzione e pena che, trasformata secondo un più articolato modulo organizzativo, ha assunto la nuova denominazione di Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (art. 30, c. 2-4); a livello periferico è stata stabilita la soppressione degli Ispettorati distrettuali a loro volta trasformati in Provveditorati regionali, organi decentrati che operano nel settore degli Istituti di prevenzione e pena per adulti, in materia di personale, organizzazione dei servizi e degli Istituti, di detenuti e internati, e nei rapporti con gli enti locali, le regioni e il servizio sanitario nazionale.
Ai sensi della legge istitutiva il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, operante nell'ambito del ministero di Grazia e Giustizia, è chiamato a provvedere, secondo le direttive e gli ordini del ministro, a compiti riguardanti l'attuazione dell'ordine e della sicurezza negli Istituti e servizi penitenziari per il trattamento dei detenuti e degli internati, dei condannati e degli internati ammessi a fruire delle misure alternative alla detenzione; il coordinamento tecnico-operativo del personale dell'amministrazione e dei collaboratori esterni; e infine la direzione e la gestione dei supporti tecnici necessari alle attività del Dipartimento stesso.
Rispetto al passato la recente normativa, riconoscendo maggiore importanza al Dipartimento, ne attribuisce la responsabilità a un magistrato di Cassazione con funzioni direttive superiori o a un dirigente generale di pari qualifica, e introduce, altresì, anche una nuova figura, quella del vice direttore generale, nominato dal ministro di Grazia e Giustizia, su proposta del direttore generale, fra i magistrati di Cassazione o scelto fra i dirigenti generali per l'espletamento delle funzioni vicarie (art. 30, c. 3). In ordine all'organizzazione del Dipartimento la disposizione contenuta nel c. 4 dell'art. 30 della l. 395/1990, che prevedeva l'attribuzione di una delega al governo per l'emanazione dei relativi provvedimenti, ha ricevuto attuazione con i Decreti legisl. 30 ottobre 1992 n. 444, 445 e 446.
Con il Decreto legisl. 444/1992 sono state delineate le attribuzioni degli organi centrali del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e quelle spettanti, in attuazione del principio del decentramento funzionale previsto dalla l. 395/1990, ai Provveditorati regionali conferendo a essi "tutte le competenze di carattere generale e quelle di rilevanza nazionale ed internazionale" (art. 1, c. 1) e rinviando, per il rimanente, a successivi decreti ministeriali. Il medesimo decreto ha inoltre dettato alcune disposizioni specifiche, in ordine all'organizzazione degli organi centrali, riguardanti la creazione di una segreteria che è stata posta alle dirette dipendenze del direttore generale e la formazione di uffici centrali "organizzati secondo criteri di omogeneità, di competenza organizzativa e funzionale adeguata alle specifiche aree di intervento" (art. 1, c. 2). Ha inoltre individuato le aree d'intervento relative al personale; alla sua formazione e aggiornamento; all'ispettorato; ai detenuti e al trattamento dei detenuti; ai beni e servizi; a studi, ricerche, legislazione e automazione (art. 1, c. 3). Transitoriamente, in attesa della riforma del ministero di Grazia e Giustizia, fa parte dell'organizzazione centrale, in posizione autonoma rispetto al Dipartimento, anche l'Ufficio centrale per la giustizia minorile, istituito dall'art. 2 del D.L. 29 gennaio 1992 n. 36 (poi convertito in l. 29 febbraio 1992 n. 213) e operante in diretto collegamento con il ministro guardasigilli. Il Decreto legisl. 444/1992 ha, infine, anche realizzato il principio del decentramento dell'amministrazione penitenziaria conferendo ai Provveditorati regionali "le competenze relative ad affari di rilevanza circoscrizionale" (art. 1, c. 5) e li ha articolati in aree operativo-funzionali.
Il Decreto legisl. 445/1992 ha, invece, dettato nuovi criteri per la nomina alla direzione degli uffici dipartimentali dell'amministrazione penitenziaria stabilendo che alle funzioni di direttore di ufficio centrale del Dipartimento o di ufficio equiparato siano preposti, mediante decreto del ministro di Grazia e Giustizia e su proposta del direttore generale dell'amministrazione penitenziaria, dirigenti generali della stessa amministrazione e magistrati collocati fuori del ruolo organico della magistratura (art. 1, c. 1), ai quali i diversi incarichi sono conferiti "in base alla particolare esperienza ed alla particolare preparazione acquisite nel corso dell'esercizio delle loro precedenti funzioni". Ad alcuni uffici centrali, invece, "per la particolare natura dell'attività svolta e per le specifiche esigenze di raccordo con la funzione giurisdizionale e con l'ordine giudiziario", sono preposti, in qualità di direttori e addetti, magistrati collocati fuori del ruolo organico della magistratura, nominati dal ministro su proposta del direttore generale, "nei limiti delle dotazioni del personale di magistratura addetto al ministero di Grazia e Giustizia" (art. 2, c. 1). Sono riservati ai magistrati gli uffici a cui sono affidate attribuzioni in materia di detenuti, internati e relativo trattamento; che svolgono attività di legislazione, studio e ricerche; che operano mediante banche dati relative ai detenuti, agli internati e alle persone sottoposte a misure privative o limitative della libertà.
Considerata la specificità della funzione penitenziaria il Decreto legisl. 446/1992 ha istituito a Roma, alle dipendenze del Dipartimento, una Scuola nazionale per la formazione, l'aggiornamento e la specializzazione del personale appartenente ai quadri direttivi dell'amministrazione penitenziaria. L'Istituto superiore di studi penitenziari ha sostituito, per i funzionari dell'amministrazione penitenziaria, la Scuola della pubblica amministrazione di Caserta.
Nell'ambito dell'organizzazione interna degli Istituti di prevenzione e pena e dei Centri di servizio sociale, radicali modificazioni sono state introdotte mediante la creazione di aree operativo-funzionali (segreteria, educazione e trattamento, sanitaria, sicurezza o dell'ordine, amministrativo-contabile), ordinate sulla base dei principi di razionalità, managerialità ed efficienza che hanno caratterizzato le linee ispiratrici della riforma dell'amministrazione penitenziaria.
Per ciò che attiene, invece, più strettamente alla tipologia degli Istituti penitenziari, regolamentati dalla l. 354/1975, a partire dalla metà degli anni Settanta sono state introdotte nuove forme di strutture penitenziarie, i cosiddetti Istituti di massima sicurezza o carceri speciali (come l'Asinara, Cuneo, Favignana, Fossombrone, Novara, Nuoro), creati per fronteggiare il dilagare del fenomeno delle evasioni e soppressi dopo circa un decennio (l. 663/1986, art. 10, c. 2). Attualmente, a seguito del D.L. 1° settembre 1992 n. 369 (poi convertito in l. 30 ottobre 1992 n. 422), gli Istituti penitenziari dell'Asinara e di Pianosa hanno assunto la nuova denominazione di "Istituti di particolare sicurezza". Essi, infatti, sono stati appositamente destinati alla custodia di specifiche categorie di detenuti (per associazione mafiosa, per sequestro di persona a scopo di estorsione, per delitti commessi a fini terroristici o per eversione dell'ordine costituzionale).
Sulla struttura degli Istituti per i minorenni, invece, modificazioni sono state apportate dal nuovo codice di procedura penale e dalla normativa ad esso connessa, come il Decreto legisl. 28 luglio 1989 n. 272 (contenente le norme di attuazione del d.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, recante norme sul processo penale a carico di minorenni) che ha cambiato la denominazione dei centri di rieducazione per i minorenni in Centri per la giustizia minorile, aventi competenza regionale (art. 7, c. 1) e dotati dei seguenti servizi: uffici di servizio sociale, istituti penali per i minorenni, centri di prima accoglienza, comunità.
Bibl.: G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano 19902; Ordinamento penitenziario. Organizzazione degli istituti e servizi dell'amministrazione penitenziaria, Napoli 1992; M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario: le norme, gli organi, la modalità dell'esecuzione delle sanzioni penali, Milano 1993.