BROSSANO (Borsano), Simone da
Era di origine milanese, forse figlio di maestro Ambrogio da Brossano, medico, familiare e commensale "satis dilectus" dell'arcivescovo Giovanni Visconti. Per interessamento del Visconti infatti al figlio di Ambrogio, Simone, che nel documento appare senza alcuna qualifica, nel 1347 fu concessa da Clemente VI l'aspettativa su un canonicato a Novara.
Secondo il Papadopoli (II, p. 10), il B. già nel 1339 si sarebbe addottorato in diritto a Padova con Angelo Pagliarini, ma il Gloria (II, p. 271), mettendo in dubbio la notizia, afferma che probabilmente il Pagliarini non insegnò mai a Padova. Il B. studiò invece a Bologna, dove furono suoi maestri Niccolò Spinelli, noto giurista e diplomatico del tempo. e sicuramente anche il famosissimo Giovanni Calderini. Quest'ultimo infatti pronunciò l'orazione in occasione della sua laurea inutroque iure, avvenuta probabilmente poco prima dell'anno 1360.
La laurea segnò l'inizio di una fortunata carriera: nel 1360 e nel 1362 insegnò diritto a Padova, successivamente anche a Bologna, ma non se ne conoscono gli anni. Certo è che nel 1363-64 vi ricoprì la carica di arcidiacono che costituiva la più alta autorità dello Studio. Nel 1370 insegnò a Perugia e nel 1371 fu nuovamente arcidiacono di Bologna, dove il 19 maggio presiedette un esame universitario della facoltà di medicina. Referendario apostolico, carica che gli era stata conferita probabilmente da Urbano V, anch'egli valente canonista, il 18 luglio 1371 fu nominato, ancora in possesso dei soli ordini minori, arcivescovo di Milano da Gregorio XI.
Tuttavia non pare che egli abbia mai messo piede nella sua diocesi. Trasferitosi ad Avignone, Gregorio XI lo nominò il 20 dic. 1375 cardinale con il titolo dei SS. Giovanni e Paolo. Sembra che in questo periodo si sia occupato della repressione di eresie propagatesi in Aragona, Savoia, Germania e nei Paesi Bassi. Nel 1377 seguì il papa a Roma, dove si trovava ancora, quando il 27 marzo 1378 Gregorio XI morì.
Nelle successive vicende che portarono all'elezione di Urbano VI, a quella dell'antipapa Clemente VII ed infine all'apertura del grande scisma d'Occidente, il B. ebbe una parte di ampio rilievo.
La morte del papa trovò i sedici cardinali presenti a Roma in quel momento profondamente divisi sul nome del suo successore. Ognuna delle tre fazioni formatesi (quella limosina, quella francese e quella italiana) sperava di potere ottenere l'elezione di uno dei suoi, e pare che anche il B. allora fosse considerato uno dei possibili candidati della fazione italiana, composta oltre che da lui dal fiorentino Pietro Corsini, da Giacomo Orsini e dal vecchio Francesco Tebaldeschi, cardinale di S. Pietro. Nell'impossibilità di trovare un accordo (la sua candidatura fu esclusa anche per via della circostanza che era concittadino di Rernabò Visconti, in quel momento in aperto conflitto con la Chiesa), la scelta cadde infine su un semplice vescovo che non faceva parte del collegio catdinalizio, Bartolomeo Prignano arcivescovo di Bari; fu eletto già il giorno dopo l'apertura del conclave, l'8 apr. 1378, e assunse il nome di Urbano VI. A questa eccezionale tempestività non fu estranea la pressione del popolo romano che invocò l'elezione di un pontefice che fosse romano, o per lo meno italiano, con violenti tumulti.
Il B., accertata l'inutilità della propria candidatura, non aveva esitato a sostenere quella dell'arcivescovo di Bari che, secondo la testimonianza del suo conclavista, era suo amico personale. Ma pare che quasi subito dopo la sua elezione abbia espresso i primi dubbi sull'opportunità di aver scelto un uomo come il Prignano, autoritario e incapace di esercitare con dignità l'altissima carica. Testimoni oculari attribuiranno più tardi al B. gravi dichiarazioni sul conto di Urbano VI: già due giorni dopo l'elezione, a certi prelati in procinto di ossequiare il nuovo papa, avrebbe detto che andavano a salutare "diabolum qui sedem S. Petri occupat". Il vero motivo del suo dissenso si deve ricercare nella condotta di Urbano VI che nelle sue decisioni prescindeva dai suggerimenti del Sacro Collegio, procedendo alla nomina e al trasferimento di vescovi senza chiedere il parere dei cardinali. Con tutto ciò non sembra che il B. abbia dubitato allora della validità canonica della elezione di Urbano.
Mentre i cardinali francesi, con il pretesto del caldo estivo, avevano lasciato Roma nel corso del giugno, per trasferirsi ad Anagni, i tre cardinali italiani, il B., il Corsini e l'Orsini (rimase a Roma il vecchio Francesco Tebaldeschi prossimo alla morte), seguirono il pontefice nella sua residenza estiva di Tivoli. Una rottura definitiva sembrava ormai inevitabile sebbene gli italiani, a varie riprese tra giugno e luglio, avessero tentato di svolgere opera di mediazione.
Per uso e informazione di Urbano VI che non aveva partecipato al conclave, il B., l'Orsini e il Corsini stesero nel corso del mese di luglio una relazione sulle vicende della sua elezione. Si tratta di una delle fonti più preziose per la storia di questo primissimo periodo dello scisma che ebbe subito grande diffusione e fu utilizzata anche da Giovanni da Legnano e Baldo degli Ubaldi nei loro trattati sullo scisma. Fu presentata ad Urbano il 25 0 26 luglio, in vista delle nuove trattative, nelle quali si sarebbe discusso anche della validità della sua elezione.
Nel corso del nuovo incontro, avvenuto al primi di agosto nei pressi di Palestrina, il B. e i suoi due colleghi proposero ai cardinali Roberto di Ginevra, Guido Mallesset e Pietro Flandrin, che subito avevano respinto la proposta di una rielezione di Urbano VI, la convocazione di un concilio per risolvere la grave crisi, ma senza risultato. Pare del resto che l'idea del concilio non fosse riuscita gradita neanche a Urbano. Il fatto è che i tre cardinali italiani ormai non tornarono più dal pontefice e verso la metà di settembre raggiunsero i loro colleghi francesi a Fondi, dove essi si erano nel frattempo trasferiti, nella speranza che nel caso di una nuova elezione pontificia, la scelta potesse cadere su uno di loro. Sembra infatti che una delle condizioni poste per andare ad Anagni sia stata l'assicurazione di eleggere un papa italiano, se un nuovo papa si fosse deciso di eleggere. A Fondi comunque proposero di nuovo il concilio, ma le trattative che si trascinarono per alcuni giorni si conclusero il 20 sett. 1378 con l'elezione di Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII. L'elezione tuttavia ebbe luogo senza il voto del B., del Corsini e dell'Orsini, che in seguito lasciarono Fondi senza riconoscere Clemente.
L'elezione di un nuovo pontefice aveva rafforzato in loro la convinzione che solo la convocazione di un concilio potesse ristabilire l'unità della Chiesa. Si sa infatti che continuarono a trattare sia con Urbano VI sia con Clemente VII per indurli a sottomettersi al giudizio di un concilio, ma senza alcun risultato.
La morte del cardinale Orsini (avvenuta il 13 ag. 1379 a Tagliacozzo), che nel suo testamento aveva raccomandato caldamente la convocazione del concilio, indebolì ancora di più la difficile situazione dei due cardinali italiani. Per uscire dal loro isolamento si rivolsero a Carlo V di Francia, al quale annunciarono la morte del loro collega, esortandolo ad, assumere l'iniziativa di convocare il concilio. Nella sua risposta il re li invitò in Francia per discutere la questione, offrendo anche di assumersi le spese del viaggio. Intanto non mancarono tentativi da parte di Clemente VII, trasferitosi ad Avignone nel maggio del 1379, per indurli a passare dalla sua parte. Li provvide regolarmente di denaro e li trattò come se fossero cardinali del suo collegio.
Così nel 1380 il B. e il Corsini si decisero a trattare con il papa francese, mandando ad Avignone due loro procuratori con l'incarico di sottoporre al giudizio dei cardinali avignonesi alcuni punti oscuri dell'elezione di Urbano VI "pro exoneratione conscientiarum" e di proporre nuovamente il concilio. Ottennero una dichiarazione di sei cardinali francesi, secondo la quale l'elezione di Urbano, avvenuta sotto minaccia di morte (si alludeva ai tumulti popolari che avevano disturbato effettivamente il conclave), era canonicamente nulla.
Appianato così il terreno, il B. e il Corsini nell'autunno del 1380 decisero di lasciare Aversa, dove avevano trovato rifugio, e si recarono a Nizza per seguire da vicino le trattative. Appena arrivati, li raggiunse, già alla fine di ottobre, una deputazione di quattro cardinali avignonesi per discutere il loro passaggio alla fazione clementina. Un primo accordo fu raggiunto il 17 novembre, quando il B. e il Corsini rimisero nelle mani dei cardinali francesi il loro factum, cioè la loro versione delle vicende del conclave, composto nel luglio del 1378. Le trattative continuarono e il 23 genn. 1381 il B. si lasciò indurre da un altro emissario di Clemente VII, il vescovo di Grenoble, a fare dichiarazioni più precise: "...ego sum deliberatus procurare statum bonum et honorem domini Clementis...", assicurò, in via confidenziale, ammettendo anche la sua sostanziale concordia con i cardinali francesi sullo svolgimento del conclave. Con tutto ciò esitò ancora a trasferirsi ad Avignone. Tuttavia, ammalatosi gravemente, decise finalmente di riconoscere ufficialmente Clemente VII. Il 26 ag. 1381, poco prima di morire, dichiarò in presenza dei cardinali di Firenze e di Sant'Angelo e del suo segretario, il milanese Antonio Bassanega, che l'elezione di Bartolomeo Prignano era da considerare canonicamente nulla perché avvenuta "per impressionem", accogliendo così la tesi clementina. Morì il giorno seguente, il 27 ag. 1381 a Nizza.
Del B. è conservata una lettera (è inserita erroneamente nelle più antiche edizioni delle lettere variae del Petrarca, per la prima volta in quella del 1501), indirizzata a Stefano Colonna che l'aveva pregato di procurargli ad Avignone un esemplare dell'Asino d'oro di Apuleio. La lettera, che risale al tempo in cui il B. fu arcivescovo di Milano, cioè agli anni compresi tra il 1371 e il 1375, rivela una personalità assai austera e poco sensibile al richiamo umanistico dei testi dell'antichità classica. Citando i Padri della Chiesa egli rimproverava al Colonna le sue curiosità letterarie male indirizzate, e il suo amore per gli autori classici.
Il B. è l'autore di alcune opere giuridiche conservate in un codice della Biblioteca Nazionale di Parigi (Lat. 9634) e in uno della Biblioteca Laurenziana di Firenze (Edili 55).
I due scritti più importanti sono nel codice miscellaneo della Laurenziana che proviene dalla biblioteca privata di Gimignano Inghirami. È indicativa della stima della quale godeva l'opera del B. la circostanza che lo stesso tomo comprende le glosse alle Clementine di Giovanni da Legnano ed il Libellus Minoritarum di Bartolo da Sassoferrato. Dei due scritti il primo è dell'anno 1360 e fu composto a Padova (Edili 55, ff. 267r-277r). Già l'annotazione apposta alla fine del manoscritto ("Explicit regula Possessor commentata per egregium et subtilissimum luris utriusque doctorem dominum Symonem de Brossano de Mediolano in studio Paduano anno Domini MCCCLX") indica che si tratta di un commento alla norma "Possessor male fidei ullo tempore non praescribit", della seconda regola del titolo De regulis iuris aggiunto da Bonifacio VIII al Liber Sextus. Dopo una breve introduzione, il B. passa a definire in sei paragrafi i concetti di "praescriptio", "mala" e "bona fides", e le condizioni necessarie all'acquisto in buona fede. Nella sua disamina si basa come di solito essenzialmente sul diritto romano e cita, in particolare, opere di Dino del Mugello, Cino da Pistoia, Enrico da Susa ed Innocenzo IV.
La sua opera principale sembra essere un ampio commentario delle Clementine, la cui redazione, anteriore al 1372, richiese indubbiamente un lungo periodo di tempo. La redazione tramandata dal manoscritto fiorentino (Edili 55, ff., 123r-276v) rimanda chiaramente all'attività di insegnamento svolta dal B. e sembra derivare da un corso di lezioni. Questa supposizione è avvalorata dall'annotazione finale che definisce il commentario "reportationes Clementinarum domini Symonis de Brassano (sic) cardinalis de Medialano (sic)". L'opera si apre con la glossa della bolla di promulgazione di Giovanni XXII preposta alle Clementine, bolla che, come è noto, era indirizzata ai "dilectis filiis et scholaribus universis Bononiae". Da questa intestazione il B. prese lo spunto per trattare dettagliatamente del dottorato e delle condizioni necessarie al migliore andamento degli studi universitari. Le sue osservazioni sono di indubbio interesse storico e offiono una visione assai ricca del mondo universitario medievale. Per esemplificare basti citare le sei "claves seu regulae principales" che il B. prescrive (f. 124v) allo studente: "mens humilis, studium querendum, vita quieta, scrutinium tacitum, paupertas" (perché una vita troppo agiata distoglie dallo studio), "terra aliena" (perché lo studente non sia distratto da parenti ed amici). Questi precetti furono ripresi da autori posteriori come il suo allievo Gilles Bellemère, e si ritrovano nel Modus studendi in utroque iure scritto a Siena nel 1467 da Giovan Battista Caccialupi.
Dopo questa introduzione, che tratta anche altre questioni come la "promulgatio constitutionum" e lo "ius novuni", il B. passa alle Clementine che egli interpreta quasi integralmente in un ampio commentario. Le poche lacune nel commentario, in particolare Clem. 1.4-1.11, Clem. 3.6-5.1, Clem. 5.6-5.8, non sono imputabili al manoscritto: sembra piuttosto che il B. abbia voluto ometterle consapevolmente. Purtroppo non è glossato neppure il capitolo Ne Romani (Clem. 1-3.2.) che tratta della sede vacante e dell'elezione del pontefice, per cui non siamo in grado di confrontarlo con le opinioni sostenute dal B. all'inizio del grande scisma. Le glosse ai canoni Romani principes (Clem. 2.9.1, ff. 181r ss.) e Pastoralis (Clem. 2.11.2, ff. 192v ss.) attestano che nella questione dei rapporti Impero-Papato il B. era sostenitore di una tendenza moderatamente curiale. Frequenti le citazioni dagli scritti di Giovanni d'Andrea, Jesselin de Cassagnes, Guillaume de Cunh, ma il B. si basò soprattutto sulla Lectura super Clementinis di Paolo de Liazari (morto nel 1356), che evidentemente assunse a suo modello. Quest'opera ebbe grande successo e influenza duratura sulla letteratura canonistica. Il primo a citare il commentario del B. fu Bonifacio Vitalini (morto nel 1388) che lo definisce "dominus cardinalis Mediolanus".
Il terzo scritto del B., trasmessoci dal manoscritto parigino, è una breve "repetitio" di appena cinque pagine composta per il tema "De privilegiis" nel 1372. Il B. riporta qui, tra gli altri, i pareri di Cino da Pistoia e di Bartolo da Sassoferrato.
H. J. Becker
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I. Walter-H. J. Becker