Simbiosi
Nel 1878, durante un convegno di naturalisti e medici europei, il patologo tedesco Anton H. De Bary introdusse per la prima volta il termine simbiosi (dal greco: sún 'insieme', bíos 'vita') per descrivere il fenomeno in cui due organismi diversi vivono assieme. Da quel tempo, il termine simbiosi ha avuto alterne fortune nel mondo scientifico, tuttavia il suo uso va oggi al di là della biologia, trovando ampi utilizzi nel settore psicoanalitico (per es., per descrivere il rapporto madre-figli) e nella vita quotidiana, dove viene usato per indicare una stretta relazione creata dal vivere assieme tra due individui e dalla conseguente dipendenza reciproca. Nel settore biologico, e in accordo con la definizione originaria di De Bary, la simbiosi viene descritta come un'associazione che si stabilisce tra individui di specie diverse, che persiste nel tempo e in cui sono cruciali le relazioni di tipo trofico che si stabiliscono tra i partner dell'associazione. La simbiosi non implica infatti un concetto esclusivo di beneficio reciproco: essa include relazioni che si stabiliscono con mutuo vantaggio (simbiosi mutualistiche), relazioni di tipo antagonistico (simbiosi patosistiche) e relazioni dalle quali un solo organismo trae vantaggio (commensalismo). Tali relazioni non sono proprietà invariabili dell'associazione, ma dipendono spesso dall'ambiente in cui l'associazione si ritrova o dallo stadio di sviluppo di uno o di entrambi i partner della simbiosi.
Tuttavia, dagli anni 1915-1920 in avanti, alla simbiosi si preferì dare un significato unicamente positivo, in cui i due organismi coinvolti traggono mutuo beneficio. Una definizione semplicistica ma didatticamente efficace descrive la simbiosi come l'acquisizione e il mantenimento di uno o più organismi da parte di un altro, risultando in nuove strutture e nuovi metabolismi, oltre che in potenziali scambi di materiale genetico. Solo a partire dagli anni Settanta la comunità scientifica prese coscienza delle potenzialità della simbiosi in biologia, soprattutto grazie a Lynn Margulis, ricercatrice americana a cui si deve il merito di aver dato credito e metodo scientifico alla ricerca su questo fenomeno. Nel libro Symbiosis in cell evolution (1981), Margulis utilizza il termine simbiosi nella sua più vasta accezione di 'coabitazione di organismi appartenenti a specie diverse' ed evidenzia come un comune denominatore sia non tanto il reciproco vantaggio, quanto la possibilità per un organismo di acquisire nuove capacità metaboliche dal proprio partner.
Si distingue pertanto la simbiosi, come un processo che non è di tipo evolutivo (riferendosi ad associazioni il cui destino è controllato da fattori ambientali), dalla simbiogenesi, che ha un forte significato evolutivo e innovativo in quanto descrive la comparsa di nuovi tessuti, organi, o addirittura di nuovi organismi (per es., i licheni) come risultato della simbiosi. Per Margulis, la cellula eucariotica è il prodotto di un particolare evento di simbiogenesi: l'endosimbiosi. In accordo con gli attuali concetti sviluppati dalla International Symbiosis Society, si descriverà la simbiosi come un motore di novità biologica e di diversità ecologica e si dimostrerà come alcuni simbionti microbici siano stati i catalizzatori di un processo evolutivo che ha plasmato l'evoluzione di organismi più complessi. Si considereranno come simbiotiche quelle associazioni fisiche e durature tra individui diversi che recano reciproco beneficio. Lo scopo sarà pertanto quello di illustrare la diversità delle simbiosi e i ruoli funzionali che esse rivestono in termini temporali e spaziali, fornendo elementi di riflessione sul loro significato evolutivo.
Lo studio delle simbiosi ha portato allo sviluppo di una terminologia specifica e all'identificazione di tipologie. In primo luogo si considerano le dimensioni e le relazioni topologiche tra i partner: l'organismo che possiede dimensioni maggiori (in genere un eucariote) è definito 'ospite', mentre quello di minori dimensioni (che può essere un oppure un altro eucariote) viene definito 'simbionte'. Da un punto di vista topologico, i simbionti possono essere in semplice contatto con il loro ospite (ectosimbionti), localizzati sia all'esterno sia all'interno del corpo di quest'ultimo, in una posizione extracellulare (per es., i che vivono all'interno di cavità nelle foglie della felce Azolla, o i funghi ectomicorrizici che si sviluppano tra le cellule delle radici di molti alberi). In alternativa, i simbionti possono essere situati all'interno delle cellule dell'organismo ospite (endosimbionti) a formare un comparto chiamato 'simbiosoma'. Essi raggiungono questa posizione intracellulare spesso mediante un processo di endocitosi e rimangono separati dal citoplasma dell'ospite da una membrana fosfolipidica detta 'membrana del simbiosoma'. L'endosimbiosi pertanto rappresenta la modalità di simbiosi con il più intimo contatto tra i partner.
La modalità di formazione della simbiosi definisce ulteriori tipologie: quando il simbionte viene acquisito a ogni generazione dell'ospite si parla di 'simbiosi ciclica', mentre la simbiosi è 'permanente' quando l'associazione si protrae per tutto il ciclo vitale dei partner. Nelle simbiosi cicliche (per es., tra Leguminose e ) i membri della simbiosi vivono autonomamente per un periodo più o meno lungo della loro vita. In condizioni opportune, essi danno origine alla simbiosi attraverso un processo generalmente complesso, costituito da una serie di tappe, che prevede lo scambio di specifici segnali di riconoscimento. Al contrario, nelle simbiosi permanenti i partner perdono la loro capacità di vivere autonomamente al di fuori della cellula ospite, svolgendo pertanto una funzione confrontabile con quella di un organulo cellulare.
Un'altra classificazione molto usata, soprattutto per le simbiosi che coinvolgono organismi animali, distingue due modalità di trasmissione dei simbionti: trasmissione orizzontale (anche detta 'ambientale' in quanto il simbionte proviene dall'ambiente, come descritto per la simbiosi ciclica) o verticale (anche detta 'transovarica', poiché i simbionti passano lungo le generazioni essendo presenti nella cellula uovo). Infine, è possibile recidere sperimentalmente una simbiosi intervenendo sulle condizioni ambientali oppure, in particolare nel caso di simbionti procarioti, somministrando antibiotici all'ospite. Gli organismi privati del partner simbiotico vengono detti 'aposimbionti' e costituiscono un utile riferimento per verificare ipotesi sul ruolo della simbiosi.
La simbiosi mutualistica prevede un beneficio per entrambi i partner coinvolti nell'associazione, ma i benefici acquisiti possono essere di tipo molto diverso. Nella maggior parte delle simbiosi, almeno uno dei partner trae dei vantaggi nutrizionali (o trofici), in quanto riesce a ottenere tramite il partner elementi o composti essenziali per la crescita. Per le simbiosi trofiche, si osserva in generale una complementarità funzionale, cioè la capacità di ciascun partner di svolgere funzioni assenti nell'altro membro dell'associazione. Per esempio, molti organismi eterotrofi (batteri, funghi e organismi animali) formano simbiosi con organismi fotoautotrofi (cianobatteri, alghe e piante) in grado di produrre, grazie al processo della fotosintesi, composti organici del carbonio che in parte vengono ceduti al partner simbiotico. Un altro esempio è costituito dalle simbiosi che si osservano nelle profondità oceaniche tra invertebrati marini e batteri chemioautotrofi in grado di ricavare energia dall'ossidazione di forme chimiche ridotte (per es., H2S, CH4). In ambienti estremi come le bocche idrotermali oceaniche, risulta molto efficace la simbiosi che si sviluppa tra Vermi Vestimentiferi (per es., Riftia pachyptila) e alcuni solfobatteri chemioautotrofi. Oltre al carbonio, un elemento indispensabile alla crescita degli organismi è l'azoto. Pertanto, molte simbiosi presentano come vantaggio la possibilità di acquisire questo elemento mediante la fissazione biologica dell'azoto molecolare atmosferico (un metabolismo unicamente presente nei procarioti e reso possibile dal complesso enzimatico della nitrogenasi), oppure mediante un più efficace apparato in grado di assorbire forme organiche e inorganiche di azoto dall'ambiente.
Il vantaggio trofico derivato dalla simbiosi può inoltre riguardare la sintesi di particolari molecole organiche che l'ospite non è in grado di sintetizzare. Per esempio, molti Insetti presentano una dieta fortemente sbilanciata e riescono a supplire alle carenze nutrizionali associandosi con microrganismi simbionti. Tra questi, gli Afidi hanno una dieta molto povera di proteine e vivono in simbiosi con batteri intracellulari (genere Buchnera) in grado di sintetizzare amminoacidi essenziali per la crescita dell'ospite; la mosca tse-tse si nutre esclusivamente di sangue e ospita come endosimbionti dei batteri (genere Wigglesworthia) che sintetizzano vitamina B; le formiche tagliafoglie del genere Atta degradano il materiale vegetale di cui si nutrono grazie agli enzimi litici prodotti da simbionti fungini (generalmente Basidiomiceti del genere Lepiota); nei Vertebrati, i batteri che vivono in simbiosi nel tratto intestinale sono indispensabili alla salute del loro ospite in quanto producono vitamine che entrano a far parte come cofattori di importanti enzimi. Si calcola che nell'uomo ci siano circa 1×1012 batteri per grammo di intestino: essi formano una comunità microbica che comprende fino a 400 specie batteriche diverse e che offre uno straordinario esempio di simbiosi.
I vantaggi offerti dalla simbiosi non si limitano però agli aspetti nutrizionali; possono essere infatti acquisiti altri benefici altrettanto importanti per la sopravvivenza, come la protezione da fattori ambientali avversi. Questo vantaggio è più facilmente percepibile per gli endosimbionti, che trovano all'interno dell'ospite una nicchia protetta, ma in molte simbiosi l'effetto è documentato anche per l'ospite. Per esempio, i , simbionti delle radici di piante superiori, conferiscono al loro ospite protezione nei confronti di fattori fisici (per es., aridità), chimici (per es., pH del suolo, inquinanti) oppure biologici (per es., patogeni). Un significativo incremento della sopravvivenza di piante erbacee a temperature elevate, pari a quelle che si riscontrano in suoli geotermali (fino a 65 °C), è stato attribuito alla loro simbiosi con funghi del genere Curvularia, che colonizzano le foglie e le radici. La bioluminescenza, la produzione di luce operata da batteri simbionti di Pesci e invertebrati (nella famiglia Vibrionacee, alcune specie dei generi Photobacterium e Vibrio), oltre a svolgere un probabile ruolo nella riproduzione dell'organismo ospite, interviene nel proteggere questi ultimi da possibili predatori.
Infine, attraverso la simbiosi un organismo patogeno può acquisire nuove funzioni utili nell'attacco sferrato ad altri organismi: un esempio è fornito da alcuni funghi appartenenti al genere Rhizopus, che inducono nel riso una patologia caratterizzata da rigonfiamento radicale. Recentemente è stato dimostrato che la tossina responsabile di questi sintomi (rizotossina) non è prodotta dal fungo patogeno bensì da batteri simbionti del genere Burkholderia, che vivono associati alle ife. Similmente, il nematode parassita Steinernema carpocapsae rigurgita nell'emolinfa delle larve parassitate un batterio che vive nel suo tratto digerente, il quale si moltiplica e uccide la preda.
Nelle simbiosi cicliche i membri della simbiosi vivono autonomamente almeno per un periodo della loro vita e il simbionte viene acquisito dall'ambiente circostante a ogni nuova generazione dell'ospite. In condizioni opportune, la simbiosi si attua attraverso un processo generalmente complesso che prevede lo scambio di specifici segnali che consentono l'attrazione tra i partner nell'ambiente, il loro reciproco riconoscimento e una serie di tappe che portano alla loro associazione, più o meno complesse a seconda che si tratti di simbiosi extracellulari o intracellulari.
Al contrario, nelle simbiosi permanenti i simbionti perdono la capacità di vivere autonomamente al di fuori della cellula ospite, svolgendo pertanto una funzione paragonabile a quella di un organulo cellulare. In questo tipo di simbiosi devono necessariamente esistere meccanismi che consentono la trasmissione verticale del simbionte da una generazione dell'ospite a quella successiva, e la compatibilità tra i tempi generativi dell'ospite e del simbionte. La trasmissione verticale avviene normalmente attraverso la colonizzazione, da parte del simbionte, delle strutture riproduttive dell'ospite.
Vengono qui descritti soltanto alcuni dei casi meglio conosciuti, in quanto la varietà di organismi coinvolti nelle simbiosi cicliche impedisce la presentazione di una lista esauriente. In particolare, nonostante le simbiosi cicliche siano diffuse sia nel regno animale sia in quello vegetale, i meccanismi molecolari e cellulari che regolano il dialogo tra simbionti nelle prime fasi dell'interazione e nelle diverse tappe della formazione della simbiosi sono meglio conosciuti nelle simbiosi dei vegetali, e a queste ultime si farà quindi principalmente riferimento. L'associazione tra Leguminose e batteri azoto-fissatori appartenenti al gruppo dei rizobi è senz'altro l'esempio più noto di simbiosi ciclica. Entrambi i partner possono vivere autonomamente, ma la fissazione biologica dell'azoto può avere luogo solamente in simbiosi, nei moduli radicali, complessi organi vegetali di neoformazione che ospitano al loro interno i batteroidi, le cellule batteriche competenti per il processo dell'azoto-fissazione. La formazione dei noduli radicali è preceduta da un intenso scambio di segnali chimici che nel suolo promuovono l'incontro e il riconoscimento tra i partner.
Le Leguminose secernono attraverso le loro radici metaboliti secondari quali i flavonoidi, che vengono percepiti e riconosciuti dai rizobi in quanto si associano in modo specifico a una proteina citoplasmatica batterica codificata dal gene nodD. Il legame tra il flavonoide prodotto dalla pianta e la proteina NodD prodotta dal rizobio induce la trascrizione di numerosi geni batterici (i geni nod), che codificano per enzimi coinvolti nella sintesi di un'unica molecola segnale: il fattore di nodulazione. Questa molecola (un lipo-chito-oligosaccaride) può essere percepita in maniera specifica e in concentrazioni nanomolari dalla pianta ospite, dove induce da sola alcune risposte caratteristiche, quali la deformazione dei peli radicali sulla superficie della radice e la formazione di un meristema costituito da cellule in divisione, che originerà il nodulo radicale.
Parallelamente a questo scambio di segnali chimici si osserva la colonizzazione della radice da parte dei rizobi, all'interno di una struttura tubulare, il filamento d'infezione, prodotta principalmente dalla pianta. All'interno del filamento d'infezione i rizobi raggiungono il meristema neoformato e vengono qui rilasciati nel citoplasma delle cellule vegetali, attraverso un processo che richiama da vicino l'endocitosi. I batteri intracellulari sono costantemente circondati da una membrana prodotta dalla pianta, la membrana perisimbionte, e vanno incontro a numerosi cicli di divisione cellulare trasformandosi in batteroidi, la fase competente per il processo dell'azoto-fissazione. Profonde trasformazioni a livello di trascrizione genica, metabolismo e organizzazione cellulare accompagnano, sia nella cellula vegetale che in quella batterica, il progredire della simbiosi fino alla fase attiva di azoto-fissazione.
La nitrogenasi prodotta all'interno dei batteroidi è estremamente sensibile all'ossigeno atmosferico. Intorno al nodulo radicale è tuttavia presente un'efficace barriera alla diffusione dell'ossigeno atmosferico che, insieme con l'elevata respirazione cellulare all'interno del nodulo e con la produzione massiccia di leg-emoglobina, una proteina vegetale in grado di legare efficacemente l'ossigeno libero e di trasportarlo ai batteroidi, consente alla nitrogenasi di funzionare correttamente. La nitrogenasi non è esclusiva dei rizobi e svolge un ruolo determinante anche in altre simbiosi azoto-fissatrici che coinvolgono Attinomiceti (genere Frankia) e cianobatteri. Le attinorize sono organi simbiotici solo apparentemente simili ai noduli radicali. Esse sono in realtà radici laterali modificate che ospitano batteri filamentosi del genere Frankia nelle cellule del parenchima corticale. Le piante che formano attinorrize appartengono a otto diverse famiglie di Angiosperme che formano con le Leguminose un unico gruppo filogenetico, suggerendo una predisposizione alla simbiosi in questo clade. Le fasi precoci dell'interazione attinorrizica sono tuttora poco note, ma l'espressione genica dell'ospite durante le fasi di azoto-fissazione presenta forti somiglianze con quella che si osserva nei noduli radicali delle Leguminose.
Tra i procarioti azoto-fissatori, i cianobatteri sono senz'altro i più versatili nelle loro capacità metaboliche (attuano sia azoto-fissazione sia fotosintesi) e nel tipo di organismi con cui possono associarsi. Seppure in maniera sporadica e puntiforme, essi formano simbiosi con membri di tutte le divisioni di piante, dalle Briofite alle Angiosperme, e con alghe unicellulari. Si associano inoltre con per formare licheni e in modo molto particolare con il fungo Geosiphon pyriforme per formare caratteristiche strutture a forma di vescica. Come risultato di un processo ciclico di endocitosi, i cianobatteri vivono dentro il citoplasma di G. pyriforme costantemente avvolti da una membrana di origine fungina. Nonostante il limitato interesse ecologico, questa simbiosi rappresenta l'unico caso noto di endosimbiosi tra un fungo e un cianobatterio azoto-fissatore. Nella simbiosi dei cianobatteri con le piante si osserva un graduale aumento del livello di integrazione cellulare tra ospite e simbionte: se nelle Briofite (per es., Anthoceros) e nella felce acquatica Azolla i cianobatteri occupano cavità naturali all'interno del corpo vegetale, nelle Cycadales (Gimnosperme) essi colonizzano tessuti specifici all'interno di radici coralloidi, e in Gunnera (Angiosperme) raggiungono una posizione intracellulare. In queste simbiosi sono ancora poco noti i segnali chimici che vengono rilasciati dagli ospiti e che sono in grado di indurre nei cianobatteri la transizione dalla fase vegetativa alla forma mobile e infettiva, l'ormogonio.
La simbiosi senz'altro più diffusa nel regno vegetale vede come simbionti non dei procarioti bensì degli eucarioti: si tratta delle micorrize, simbiosi cicliche che si stabiliscono tra le radici della maggior parte delle piante terrestri (ca. il 90% di Angiosperme e Gimnosperme, ma presenti anche in Briofite e Pteridofite) e funghi filamentosi che appartengono a taxa diversi nei Glomeromiceti, Zigomiceti, Ascomiceti e Basidiomiceti. Le micorrize compaiono nei resti fossili delle piante che per prime colonizzarono le terre emerse circa 450 milioni di anni fa e da allora svolgono un ruolo essenziale nella nutrizione minerale e nel bilancio idrico, soprattutto in terreni dove acqua e/o nutrienti minerali quali fosforo e azoto sono presenti in quantità limitanti. Esistono almeno sei tipologie di micorrize, che si differenziano per la posizione tassonomica dei membri dell'associazione, per la morfologia dell'organo simbiotico e per gli scambi nutrizionali che avvengono tra fungo e pianta.
Le tipologie più diffuse sono le ectomicorrize, tipiche delle piante ad alto fusto, e le endomicorrize arbuscolari, presenti nella maggioranza delle piante di interesse agronomico. A causa di questa grande variabilità biologica, gli studi sono focalizzati su alcuni sistemi modello: per le ectomicorrize il pioppo è al momento la pianta di elezione insieme con alcuni Basidiomiceti simbionti (Laccaria, Paxillus). Per le endomicorrize, le Leguminose sono le favorite in quanto formano simbiosi anche con rizobi azoto-fissatori. Per questo motivo esse sono considerate piante modello per individuare le somiglianze e le differenze tra le due simbiosi, identificare i determinanti genetici che controllano il processo di colonizzazione e soprattutto i segnali di riconoscimento che i due partner si scambiano. Come per il pioppo e i suoi ospiti fungini, anche per le Leguminose Lotus e Medicago e il fungo simbionte Glomus intraradices sono in fase avanzata di attuazione i progetti di sequenziamento del genoma. In conclusione, l'ampia distribuzione delle simbiosi cicliche in una varietà di ospiti e di ambienti (terrestri e marini) ben testimonia la loro importanza ecologica.
Le simbiosi permanenti tra batteri endosimbionti e organismi animali sono ampiamente diffuse in natura e offrono una moltitudine di situazioni affascinanti sia per gli ambienti colonizzati sia per il significato evolutivo. Gli esempi meglio conosciuti di endosimbiosi permanenti si trovano tuttavia tra gli Insetti: si valuta che circa il 15÷20% degli Insetti contenga batteri, i quali passano alla progenie dei loro ospiti con una modalità di trasmissione verticale. Queste intime associazioni da anni attirano l'interesse dei biologi evoluzionisti, in quanto in esse si realizzano diverse strategie, da quelle del mutualismo obbligato fino al parassitismo. Per esempio, Buchnera è un endosimbionte mutualista degli Afidi, mentre alcune specie di Wolbachia sono simbionti mutualisti di Nematodi che causano elefantiasi nell'uomo, ma sono anche parassiti di Artropodi. Si ipotizza che molte delle relazioni simbiotiche permanenti siano il risultato di antiche infezioni che, in tempi successivi e forse a causa della perdita di vie metaboliche ridondanti, hanno attenuato il carattere di parassitismo per trasformarsi in interazioni mutualistiche. Le endosimbiosi degli Insetti sono assai ben caratterizzate, anche grazie al fatto che il genoma di molti batteri è stato sequenziato.
Buchnera aphidicola è uno degli endosimbionti meglio conosciuti e vive in associazione con gli Afidi. Questi succhiano la linfa elaborata dagli alberi, grazie allo stiletto che viene posizionato nell'elemento floematico, assicurandosi così una dieta ricca in glicidi ma carente in amminoacidi. Alcuni amminoacidi essenziali sono forniti da Buchnera, che vive in particolari cellule poliploidi (batteriociti) raggruppate in un organo chiamato 'batterioma'. Durante il loro ciclo vitale, gli Afidi si riproducono per lo più per partenogenesi a partire da ovociti diploidi non fertilizzati. Nell'organismo materno i batteri vengono trasferiti dai batteriociti all'embrione che si sta sviluppando, con una modalità transovarica. Questa stretta relazione dura da almeno 200 milioni di anni e ha portato a una reciproca dipendenza dei due membri della simbiosi. In Buchnera, come in altri endosimbionti di Insetti, la dipendenza dall'ospite è basata soprattutto sulla perdita di geni dal genoma batterico, che risulta pertanto di dimensioni estremamente ridotte (ca. 650 kb contro le 4640 kb di Escherichia coli).
Il sequenziamento del genoma di Buchnera ha dimostrato l'assenza di geni necessari per riparare il DNA, per svolgere attività fermentative, per attivare le vie di difesa o per rispondere a stress ambientali. Gli Afidi fanno quindi scudo ai batteri, proteggendoli dalle difficoltà del mondo esterno. Come conseguenza, il genoma di Buchnera è straordinariamente stabile quando confrontato con quello di batteri non simbionti filogeneticamente correlati, i quali sono sottoposti a una più dura pressione selettiva. Si è dimostrato che non vi sono stati nessun riarrangiamento cromosomico o acquisizione genica negli ultimi 50-70 milioni di anni. D'altra parte, Buchnera ha mantenuto specifiche vie biosintetiche (vitamine, amminoacidi essenziali) che permettono al suo ospite l'accesso a fattori nutrizionali altrimenti non disponibili.
Ben diversa è la situazione di Wolbachia, un batterio filogeneticamente correlato con agenti patogeni come Rickettsia. Negli Artropodi (nei quali Wolbachia si comporta come parassita della riproduzione) la trasmissione avviene sempre per via materna, ma Wolbachia manipola i processi riproduttivi dell'insetto grazie a un impressionante arsenale di strategie offensive. Alcuni ceppi trasformano i maschi di alcuni Crostacei in femmine, mentre altri influenzano il processo meiotico, bloccando lo sviluppo della progenie maschile. In altri casi ancora causano eventi di incompatibilità citoplasmica, per cui solo le uova infettate da Wolbachia si sviluppano regolarmente. Questi meccanismi hanno favorito la trasmissione di Wolbachia a danno del suo ospite. Il sequenziamento del genoma di Wolbachia (900÷1550 kb) mette ben in evidenza le diverse strategie rispetto a Buchnera: si evidenzia un livello eccezionalmente alto di DNA ripetuto ed elementi mobili che permettono probabilmente radicali ricombinazioni geniche. Tra questi due estremi (endosimbionti obbligati ed endoparassiti riproduttivi) si trova una vasta gamma di simbionti che spesso conferiscono benefici occasionali ai loro ospiti. Inoltre, si è dimostrato che i giocatori sono più numerosi del previsto: negli Afidi oltre alla già citata Buchnera, esistono degli endosimbionti secondari che sono facoltativi e meno facili da studiare. Per esempio, Candidatus Hamiltonella defensa è un endosimbionte non coltivabile che protegge gli Afidi dall'attacco di vespe grazie alla presenza, nel suo genoma, di geni che codificano per proteine citotossiche.
Endobatteri simbionti sono stati identificati, oltre che nei protisti e negli animali, anche nel regno dei funghi. Le radici delle piante terrestri sono un'apprezzata nicchia per i funghi AM (micorrizici arbuscolari), ma questi a loro volta possono ospitare al loro interno degli endobatteri. Grazie a un approccio morfologico e molecolare basato sul sequenziamento dei geni ribosomali, si è dimostrato che i batteri presenti a migliaia nel citoplasma delle spore del fungo Gigaspora margarita sono β-proteobatteri del genere Burkholderia. Tali endobatteri, presenti anche in numerose altre Gigasporaceae, sono riportabili a uno specifico taxon batterico, Candidatus Glomeribacter gigasporarum. I batteri sono presenti in tutte le fasi del ciclo vitale del fungo, sia nella fase simbionte all'interno delle radici della pianta ospite sia nella fase non simbionte. Candidatus G. gigasporarum non è coltivabile su mezzi colturali e il suo genoma, similmente agli endosimbionti degli Insetti, è di dimensioni molto ridotte (ca. 1400 kb).
Questo endosimbionte viene propagato attraverso le generazioni fungine con un meccanismo di trasmissione verticale, a ulteriore riprova che si tratta effettivamente di una simbiosi permanente. Il suo significato per la biologia dell'ospite potrebbe essere presto chiarito grazie a un progetto di sequenziamento del genoma e allo studio di spore fungine aposimbionti. In conclusione, le endosimbiosi permanenti costituiscono un importante esempio di integrazione cellulare tra procarioti ed eucarioti. Inoltre, alcune caratteristiche conservate negli endobatteri (perdita di vita autonoma e di molte funzioni metaboliche, riduzione del genoma, trasmissione verticale) permettono di formulare ipotesi sui meccanismi che regolano la transizione da endosimbionte a vero e proprio organulo cellulare.
La teoria dell'origine simbiotica della cellula eucariotica risale al 1905 con l'importante contributo del biologo russo Konstantin Sergeevich Merejkovsky, il quale per primo ipotizzò che i fossero microrganismi originariamente autonomi (cianobatteri), evolutisi come simbionti di cellule eterotrofe. Basandosi sulla simbiosi tra Zoochlorella (un'alga verde unicellulare) e Hydra viridis, egli suggerì che le cellule vegetali fossero in effetti cellule animali invase da cianobatteri. Fu poi Margulis (1981) a conferire vigore e struttura scientifica alla teoria da lei chiamata Serial endosymbiosis theory (SET), che sottolinea l'acquisizione di mitocondri e cloroplasti in tappe successive. Lo sviluppo della biologia molecolare e della bioinformatica ha permesso di sequenziare il genoma plastidiale e mitocondriale e di confrontarlo con il genoma di organismi a vita autonoma. I risultati di questo confronto hanno fornito prove inconfutabili al dato ormai familiare che i due organuli dell'energia (mitocondri e cloroplasti, rispettivamente siti della respirazione aerobica e del processo fotosintetico) discendono da batteri. La SET afferma che l'antenato del mitocondrio è un α-proteobatterio in grado di ossidare i prodotti della fermentazione a CO2 e H2O. Tra i batteri attuali che mostrano tali caratteristiche si citano Paracoccus denitrificans e Bdellovibrio. Sempre secondo la SET, un successivo evento di acquisizione simbiontica generò gli organismi fotosintetici.
Procarioti con fotosintesi ossigenica sono all'origine dell'evoluzione dei plastidi e organismi come cianobatteri coccoidi (Synechoccus e Gleocapsa) possono essere considerati come gli antenati di questi organuli cellulari. A conferma di queste relazioni, si osserva un'alta omologia di sequenza tra il DNA dei cloroplasti e quello dei cianobatteri. Nonostante i plastidi si siano separati dai loro antenati cianobatteri milioni di anni fa, l'organizzazione dei fotosistemi I e II è praticamente la stessa per quanto riguarda la disposizione dei pigmenti e delle componenti proteiche. Molti dubbi esistono invece sulla natura della prima cellula ospite in grado di fagocitare il procariote: secondo Margulis essa fu presumibilmente un procariote simile a un archeobatterio pleiomorfico privo di parete, microaerofilo, o un pre-eucariote dotato di membrana flessibile e citoscheletro. Anche il periodo in cui avvennero tali eventi è sconosciuto: poiché il rialzo di concentrazione dell'ossigeno nell'atmosfera avvenne circa 2200 milioni di anni fa, si pone l'origine della cellula eucariotica subito dopo questa data, postulando che l'origine simbiontica dei mitocondri sia stata dettata dalle condizioni aerobiche. L'acquisizione di cianobatteri da parte di una cellula eucariotica che già portava mitocondri è stata sicuramente più recente, attorno a 1500-1200 milioni di anni fa. A ricordo dell'evento di fagocitosi, sia i mitocondri sia i plastidi delle piante sono limitati da due membrane.
Il processo di integrazione genetica e fisiologica tra i partner ha poi visto il trasferimento, in tappe successive, di una buona parte dei geni del simbionte al nucleo della cellula ospite. In Arabidopsis thaliana, una pianta modello di cui è interamente noto il genoma, il cromosoma 2 contiene, nella zona vicina al centromero, una copia completa del genoma mitocondriale, indicando un massiccio trasferimento genico di tipo orizzontale. Si è valutato inoltre che circa il 10÷20% dei geni nucleari di Arabidopsis si sia originato in seguito a un trasferimento orizzontale dall'antico progenitore dei cloroplasti. Come risultato di questa lunga storia evolutiva, mitocondri e plastidi mantengono un proprio ridotto genoma, ma entrambi dipendono dalla cellula ospite per la maggioranza delle proteine necessarie alle loro specifiche attività, avendo perso le informazioni genetiche corrispondenti.
Lo sviluppo della biologia molecolare e le prove sempre più numerose del carattere chimerico della cellula eucariotica hanno portato recentemente a nuove ipotesi sull'origine della cellula eucariotica. Esse si basano sulla possibilità che gli eucarioti si siano sviluppati in un ambiente anaerobico grazie alla simbiosi tra un a-proteobatterio, in grado di liberare idrogeno e anidride carbonica, e un archeobatterio anaerobio, autotrofo, metanogeno e dipendente dall'idrogeno per il suo metabolismo. Durante l'interazione, l'archeobatterio sarebbe divenuto dipendente dal batterio per il suo rifornimento di idrogeno, originando un complesso simbiotico caratterizzato da organuli cellulari confrontabili a mitocondri ancestrali. In alcuni eucarioti anaerobi (Ciliati) esistono in effetti degli organuli cellulari limitati da doppia membrana, chiamati , che liberano idrogeno. L'ipotesi è che l'idrogenosoma sia un mitocondrio che funziona in ambiente anaerobio e che in una tappa terminale abbia adottato la respirazione ossigenica, molto più efficiente. Tale via avrebbe aperto la strada all'evoluzione verso gli attuali mitocondri.
La sostanziale differenza tra l'ipotesi proposta da Margulis e quella avanzata di recente da William Martin consiste in primis nel metabolismo del batterio antenato dei mitocondri. Secondo Margulis, i mitocondri ancestrali sarebbero derivati da efficienti procarioti aerobi; secondo Martin, essi originerebbero da batteri anaerobi. La recente scoperta di sequenze di DNA riconducibili a geni mitocondriali all'interno degli idrogenosomi offre una convincente prova all'ipotesi che questi organuli cellulari rappresentino davvero una tappa centrale nell'evoluzione verso i mitocondri. In conclusione, tutte le ipotesi offrono possibili scenari che spiegano il carattere chimerico della cellula eucariotica, nel cui genoma nucleare sono presenti geni informazionali (quelli che controllano il metabolismo legato al DNA) comparabili con quelli degli archeobatteri, e geni metabolici (operazionali) simili a quelli di batteri gram-negativi. Maggiore complessità si osserva nelle cellule vegetali, per la presenza di geni derivati per trasferimento orizzontale dall'antico cianobatterio progenitore dei cloroplasti.
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