SIGNORIE e PRINCIPATI
. I. Si suole indicare con questa espressione il periodo della storia d'Italia compreso fra il declinare dei comuni e le guerre di predominio tra Francia e Spagna, cioè all'incirca tra la seconda metà del sec. XIII e il principio del XVI. Signorie e principati sono di fatto in quegli anni la tendenza generale, la creazione originale, l'istituzione caratteristica della politica italiana.
Come il comune, così la signoria, che ne deriva, è espressione tipica d'Italia, quale paese di cultura cittadina, e prospera in particolar modo nel settentrione e nel centro della penisola. I bacini del medio e del basso Po, dell'Adige, del Brenta, del Piave, dell'Arno e dell'alto Tevere, abbracciano il territorio di più potente vita comunale, e poi signorile; ai margini di esso, in regioni più largamente agricole, la feudalità prevale sul comune e si prepara a raccoglierne l'eredità: in Piemonte, dove intorno a Chieri e ad Asti si stringono Savoia, Saluzzo e Monferrato; nella Romagna meridionale e nella Marca d'Ancona, brulicanti di tiranni; nel ducato di Spoleto, nel Patrimonio di San Pietro in Tuscia, in Sabina, nella Campagna e Marittima, cioè in tutta la catena delle terre della Chiesa, affacciate in qualche modo con Viterbo e Orvieto, più risolutamente con Perugia, alla politica e all'economia dei comuni toscani, poi digradanti verso sud e sud-est, intorno a Roma, in una regione pastorizia e rurale di piccole città, di terre, di castelli.
Lo spettacolo che presenta questa Italia nel corso del sec. XIII è nei particolari oltremodo torbido e agitato, infinitamente vario, e nello stesso tempo uniforme: è un formidabile slancio di tutte le attività economiche, un ascendere combattuto di popolo, un'affermazione, rara da prima, poi sempre più numerosa e risoluta, di singoli uomini, col loro carattere, con la loro volontà e la loro capacità di governo. Nei centri minori i pedites si affiancano ai milites e cercano di spodestarli, decapitando le loro torri, combattendo per le cariche e per la ripartizione degli oneri comunali. Nei centri maggiori è un più vasto e complesso sforzo di organizzazione: l'aristocrazia che ha avuto la maggior parte nella fondazione del comune è agitata da ardenti e profonde divisioni e viene sopraggiunta dal popolo, che a schiera a schiera in un moto ascendente interviene nelle lotte, mira al potere, si crea i suoi organi di difesa e di conquista. L'infinita varietà degl'interessi discordi e comuni promuove associazioni di quartieri, di famiglie, di armi, di arti. Chiunque sia al governo della cosa pubblica - aristocrazia feudale o popolo - il comune è spinto da esigenze politiche ed economiche a un tempo ad allargare la propria giurisdizione sul contado, contro i castelli feudali e i minori comuni, a stendere in più vasto ambito la propria azione, a tender le fila delle alleanze contro i comuni rivali. Le stesse lotte di parte, con l'interminabile alternativa degli extrinseci e degl'intrinseci, contribuiscono ad ampliare e a dissolvere: meglio, sono il segno dell'ampliarsi e dissolversi dello stato cittadino. La lotta fra il papato di Gregorio IX e di Innocenzo IV e l'impero di Federico II, tra gli ultimi Svevi e il sistema angioino-papale, l'azione concorde e discorde di Chiesa e di Angiò durante e dopo l'interregno, sebbene appaiano nelle singole città come un germe di divisioni, sono per l'Italia comunale il principio e l'accenno di più vasti assetti politici, il cimento in cui si cercano, si trovano, si uniscono oltre le mura cittadine le forze alleate, in cui l'uomo mette a prova una più alta capacità politica.
Considerata sotto l'aspetto locale, la crisi del sec. XIII, cioè il passaggio dal comune alla signoria, è la creazione laboriosa di un sistema politico che contenga, inquadri, armonizzi quel complesso di forze che si sono fatte più numerose e discordi nella città, che inoltre, per quanto abbiano nella città la loro origine e si sentano a essa legate, hanno di molto trasceso in ogni verso la cerchia cittadina. Generale è la tendenza all'affermazione di potenti individualità, all'instaurazione di un ordine nuovo che dia stabilità alla mutevolezza estrema degli assetti politici, che temperi e concilii lo slancio anarchico delle energie, riducendo il potere nelle mani di un solo; ma, come avviene per il comune, da luogo a luogo e da momento a momento il problema si presta a una grande varietà di soluzioni, con alternative e ritorni che sembrano spezzare la linea storica, annientare l'opera intrapresa, e che solo dopo lungo travaglio mettono capo a una certa stabilità di ordinamenti.
Raccogliere in un quadro organico questo processo è impresa quasi disperata; ci accontenteremo pertanto di notare in breve gli svolgimenti più caratteristici.
Un primo, lontano accenno alla signoria è il tentativo stesso compiuto tra lo scorcio del sec. XII e il principio del XIII di porre fine alle lotte di parte col sovrapporre o col sostituire alla magistratura collegiale e locale dei consoli la magistratura unica e forestiera del podestà. La carica del podestà è appunto una delle vie attraverso le quali il comune si trasforma in signoria. La legislazione comunale aveva di regola limitato a un anno la durata dell'ufficio, vietata la rielezione, determinato rigorosamente l'ambito dei poteri. Ora, quasi in ogni luogo dell'Italia settentrionale e centrale, nel fervore delle lotte, degl'interessi, delle ambizioni, si manifesta la tendenza a rinnovare le elezioni nelle medesime persone, a conferire la podesteria per un periodo di più anni, a titolo vitalizio, ereditario, ad allargarne progressivamente la competenza, di là da tutti i limiti statutarî, fino al merum et mixtum imperium e alla omnimoda potestas.
Con questo mezzo non di rado - occupando di persona la carica o facendovi eleggere congiunti e fedeli - i capi di parte riescono a impadronirsi della città; così nella prima metà del Duecento Azzo VII da Este e Salinguerra Torelli si fanno alternativamente signori di Ferrara, Ezzelino da Romano di Verona (1236), Ghiberto de Gente di Parma (1254), i Polentani di Ravenna tra lo scorcio del sec. XIII e il principio del XIV.
Altra via aperta al nuovo regime furono le magistrature popolari, sorte in opposizione al comune podestarile: podesteria dei mercanti e capitanato del popolo, ristrette anch'esse in origine nel tempo e nelle attribuzioni, giunte poi via via per circostanze analoghe a un potere illimitato, alla concessione vitalizia ed ereditaria.
A illuminare uno dei grandi aspetti della signoria - espressione ed esigenza della democrazia cittadina - è significativo il fatto che, a parte la larga diffusione di questo processo, derivano principalmente dalle magistrature popolari alcune fra le maggiori signorie italiane: Visconti, Scaligeri, Gonzaga. A Milano il capitanato del popolo, dopo essere stato occupato dai Torriani ininterrottamente dal 1259 al 1277, al ritorno dell'arcivescovo Ottone Visconti (1277) divenne la base costituzionale della potenza della sua casa. A Verona dalla scomparsa di Ezzelino da Romano (1259) Mastino della Scala e suo fratello Alberto occuparono alternativamente le cariche di podestà o capitano del popolo, di podestà dei mercanti, finché nel 1277 Alberto si fece conferire il capitanato a titolo vitalizio e fondò una stabile signoria. Per questa medesima via si affermarono successivamente in Mantova Azzo VII d'Este e il conte Ludovico di San Bonifacio, Pinamonte Bonacolsi e i suoi discendenti, infine Luigi Gonzaga, che ottenne la carica nel 1328 con facoltà di nominare un vicario o un successore.
Nei due tipi a cui si è accennato, la signoria ha, per così dire, radice nel comune, nasce da uno svolgimento rivoluzionario delle istituzioni comunali. Un terzo tipo ci è offerto dal capitanato di guerra, magistratura eccezionale, di natura militare, imposta da necessità di difesa e di conquista, promossa dall'ambizione personale del capitano, che, attraverso le ripetute esperienze, assorbe la pienezza dei poteri e s'impadronisce della città.
Valga come esempio caratteristico in questo campo Guglielmo VII di Monferrato, il quale, capeggiando per decennî guerre partigiane e cittadine, ottiene a titolo ereditario la signoria di Alessandria (1282) e di Alba (1283), a titolo vitalizio quella di Vercelli (1285) e di Pavia (1289).
Un distacco più netto, un trapasso immediato dall'uno all'altro regime, sebbene fondato anch'esso sulla deliberazione dell'assemblea popolare, si ha quando sotto la stretta dei pericoli interni ed esterni, il comune fa dedizione o anche si vende a un signore.
Così Mondovì a Carlo II d'Angiò nel 1305, Fossano nel 1304 a Manfredo IV di Saluzzo, nel 1313 a Filippo di Savoia, principe d'Acaia, parecchie città della Marca e della Romagna al cardinale Egidio Albornoz durante la riconquista dello Stato della Chiesa.
Una velata signoria si ha infine quando al di sopra e al di fuori degli ordini costituzionali, senza alcuna modificazione di essi, un capo esercita di fatto la sua egemonia sulla politica cittadina; come avviene in parecchi comuni dell'Italia settentrionale del Duecento, come avverrà nella Firenze medicea del Quattrocento.
La persona del signore, nell'estrema varietà delle sue condizioni, rispecchia gli aspetti e i momenti diversi della storia italiana, il prodigioso fermento delle energie individuali, l'universale bisogno di disciplina monarchica. Ora è un cittadino, nato di nobiltà o di popolo, che acquista un'autorità preminente e assoluta nella città; ora proviene dall'aristocrazia feudale del territorio o, in genere, dall'esercizio delle armi, come i grandi capi dell'età di Federico II e di Arrigo VII, i condottieri del Quattrocento, lo stesso Egidio Albornoz, diplomatico e soldato, il soldato e avventuriero Giovanni di Boemia. Rivestono la signoria i grandi potentati e protagonisti della politica europea: gli Angioini, che brigano a Roma per il senato, ottengono la dedizione dei comuni piemontesi, entrano da signori a Firenze e nei comuni toscani; il guelfo Riccardo di Cornovaglia e il ghibellino Manfredi; il re di Francia che s'impianta a Genova e punta su Milano; un candidato all'impero come Federico d'Austria e un imperatore come Carlo IV; i pontefici, che a titolo temporaneo o vitalizio entrano da podestà nei comuni e, come private persone, ottengono a vita il senato e il complesso delle magistrature urbane; e intorno a essi i membri del Sacro Collegio, Caetani, Orsini, Colonna, Savelli, Annibaldi, e parenti di papi e di cardinali, che volgono alla fondazione della signoria, in centri maggiori o minori, ricchezza, autorità, ambizione, gli stessi governi provinciali di cui sono investiti nello Stato della Chiesa.
Considerare nelle loro reciproche relazioni la città singola e il suo signore, come abbiamo fatto fin qui, offre un'immagine parziale del nuovo istituto e ne lascia in ombra qualcosa che tocca la sua intima natura. Proprio infatti del suo nascere è per l'appunto il raccogliersi di più signorie cittadine, l'una dall'altra distinte, nelle mani di un solo, nelle mani, non di rado, di un grande potentato laico o ecclesiastico del tutto estraneo alle competizioni e agl'interessi locali. Donde la necessità per il signore di nominare vicarî al governo dei singoli luoghi, e, comunque, l'avviamento a una formazione territoriale, a un'organizzazione burocratica, a una dissociazione e distinzione sempre più netta fra cittadinanza e signoria, fra governati e governo.
Nel passaggio dal comune alla signoria la cittadinanza, ch'era a un tempo soggetto e oggetto del potere politico, diventa oggetto di governo da parte del signore, verso il quale si piega a un regime di sudditanza; e il signore a sua volta tende con sempre maggiore energia ed efficacia a spezzare i vincoli che lo legano alla città, alle magistrature o alle assemblee comunali e popolari da cui emana formalmente il suo potere, ad annullare la propria subordinazione e la propria responsabilità verso statuti e deliberazioni consiliari.
Naturalmente il processo, condizionato alle forze e alle esigenze del signore, alle resistenze della superstite coscienza comunale, alle necessità di ordine, di lavoro produttivo, di un più largo respiro di vita, si compie lungo una linea tortuosa e spezzata secondo la prevalenza dell'uno o dell'altro interesse. Nelle terre dove il feudo tiene vittoriosamente il campo di fronte al comune - sotto questo aspetto il Piemonte può presentare interessanti analogie col Lazio - non di rado, in seguito a conquista, a vendita da parte degli stessi comunisti, a spontanea dedizione, l'autonomia comunale si dissolve e mette capo a una signoria di tipo schiettamente feudale, che si esprime nel riconoscimento immediato dell'ereditarietà, nel giuramento di fedeltà prestato dai cittadini al signore, nella donazione dei beni immobili da parte di quelli a questo, e nella loro retrocessione a titolo di feudo. Dove invece il comune è più vitale e vigoroso, organi e freni costituzionali sopravvivono e resistono a lungo all'invadenza del signore, e la signoria risulta almeno formalmente fondata su un'elezione popolare che si rinnova alla successione e dà luogo a un atto solenne d'investitura per mezzo dei simboli del potere, al giuramento di obbedienza o di fedeltà da parte dei cittadini. Momento fondamentale e decisivo nel progressivo distacco del potere politico dal corpo della cittadinanza è l'affermarsi del principio ereditario. Quando non venga stabilito fin dall'origine, come accade spesso nelle più o meno spontanee dedizioni a potentati forestieri, esso prevale a poco a poco con la facoltà concessa al signore o al magistrato comunale con ampî poteri, di eleggere vicarî, correggenti e successori, con l'esercizio di fatto di tali elezioni, col riconoscimento finale della signoria ereditaria.
Nel quale svolgimento era implicita la coscienza che le sorti del regime politico fossero legate all'uomo, alla sua fortuna, alla sua casa, che lo stato appartenesse, in certo modo, a chi l'aveva creato, e gli aveva dato stabilità e sicurezza, che la consanguineità costituisse un titolo per la successione. La signoria ereditaria, concessa a Obizzo da Este fin dal 1264, era stabilita di fatto a Milano, Verona e Mantova al principio del Trecento, legalmente costituita qui e altrove nel corso del sec. XIV. Col riconoscimento da parte del comune di un potere illimitato, irresponsabile, ereditario, la signoria era giunta al suo compimento.
Sennonché essa continuava a poggiare sul compromesso ormai assurdo di un assolutismo monarchico, che dipendeva, che cioè traeva la sua origine e la sua consacrazione, dalla volontà popolare. Era inevitabile che dalla natura e dalle necessità stesse del suo potere il signore fosse spinto a risolvere il compromesso a favore dell'assolutismo contro le vecchie resistenze democratiche e comunali a cercare una nuova e più alta legittimità là donde soltanto essa poteva derivare. Sullo scorcio del sec. XIV e durante il XV i principali signori italiani diventano principi dell'Impero o della Chiesa la signoria si trasforma in principato: nel 1395 Gian Galeazzo Visconti ottiene il ducato a titolo ereditario e feudale dall'imperatore Venceslao; Amedeo VIII di Savoia il ducato da Sigismondo nel 1416; Gian Francesco Gonzaga di Mantova il marchesato dal medesimo imperatore nel 1432; Borso d'Este il ducato per Modena e Reggio da Federico III nel 1452 e nel 1471 da papa Paolo II titolo e insegne ducali per Ferrara; Federico III da Montefeltro il ducato di Urbino da Sisto IV nel 1478. Per questa via il potere esercitato di fatto dai signori riceve una sanzione dall'alto, che lo legittima nei quadri delle due potestà supreme, consacra la fondazione dello stato territoriale, perfeziona il rivolgimento costituzionale per cui gli antichi elettori diventano sudditi, l'eletto sovrano. Analogamente, nascono senz'altro con carattere di principato gli stati fondati dai pontefici nel Quattro e nel Cinquecento a favore dei loro congiunti: la contea di Imola di cui viene investito Gerolamo Riario da Sisto IV nel 1473; il ducato di Romagna conferito da Alessandro VI al Valentino nel 1501; il ducato di Parma e Piacenza creato da Paolo III nel 1545 per Pier Luigi Farnese.
La divisione ereditaria della signoria, la soggezione del cittadino verso il signore, una certa conquista di tipo feudale condotta dal signore stesso sul territorio, infine e soprattutto l'investitura del principato per opera dell'imperatore e la facoltà concessa al principe d'infeudare parti del territorio, hanno fatto pensare a una resurrezione feudale in pieno Trecento e Quattrocento. Ma l'analogia è forse più apparente che sostanziale, dato che l'individualità del momento storico ha giustificazioni profondamente diverse da quelle del feudo.
Fondamentale, decisiva importanza è stata attribuita al vicariato imperiale come avviamento alla signoria, legittimazione di essa, momento di transizione al principato. Ed effettivamente dalla rappresentanza dell'impero uomini come Ezzelino da Romano e Oberto Pallavicino poterono trarre l'esperienza viva, personale, la coscienza di un'autorità assoluta, non derivata dal comune e dal popolo, e distesa su più vasto ambito di territorio che non fosse una singola città; in una medesima persona vennero spesso a unirsi signoria e vicariato, l'uno come legalizzazione dell'altra; e il principato crebbe talvolta sul vicariato come sua trasformazione ed elevazione da parte dell'impero. È doveroso riconoscere tuttavia che, da un lato, molti altri importanti elementi contribuirono all'origine e allo sviluppo dello stato territoriale e dell'assolutismo monarchico in Italia, dall'altro, il vicariato imperiale non si applicò esclusivamente alle signorie, si diede signoria senza vicariato, e infine non di rado questo si dimostrò in pratica quasi del tutto insignificante. Cosicché viene da pensare che una concezione siffatta, sebbene utilissima a illuminare alcuni aspetti del problema, risponda meglio agli scopi di una compiuta costruzione giuridica che non alla realtà dello svolgimento storico.
Un accenno a parte richiedono Venezia, Firenze, e altre minori città toscane, di potente vita economica e di tenaci tradizioni repubblicane, dove la lotta costituzionale, il contrasto degl'interessi, mettono capo prima o poi, non a un uomo e a una monarchia, ma a un governo di classe, a un regime oligarchico, che serba per lungo tempo il nome di signoria. Tuttavia, mentre a Venezia un siffatto regime dura, si può dire, sino alla fine della repubblica, in Firenze, come s'è detto, trapassa insensibilmente nella velata signoria personale e familiare dei Medici per opera di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo, si consolida alla restaurazione del 1513, si trasforma in principato col conferimento del ducato a favore di Alessandro de' Medici da parte di Carlo V nel 1530, attraverso un processo che tende anche qui ad armonizzare in un più vasto concetto di stato il contrasto dei gruppi oligarchici e le aspirazioni popolari, che deve porre la città, per natura di ordinamenti, per stabilità di governo, sul medesimo piano degli altri organismi politici della penisola.
II. La politica interna della signoria e del principato risponde, com'è ovvio, alla loro intima natura, alle esigenze da cui sono stati creati. Il capoparte cittadino, il feudatario, il potentato forestiero, in tanto riescono a dare stabilità alla signoria di cui sono stati investiti, in quanto possono e sanno superare la vecchia politica partigiana, stabilire una superiore disciplina fra le parti, combattendo, ove sia il caso, gli stessi amici di ieri. Contro le resistenze costituzionali del comune e del popolo il signore tende a riassumere nella sua persona la somma dei poteri, lo stato.
Direttamente o indirettamente si appropria l'elezione degli ufficiali cittadini e dei membri dei consigli; toglie ogni facoltà d'iniziativa ai consigli stessi, i quali vengono pertanto convocati unicamente a scopo consultivo o per un'approvazione formale dei decreti del signore; la sua attività legislativa si sovrappone e s'impone alla vecchia legislazione statutaria: quelli ch'erano stati organi politici sono degradati a semplici funzioni amministrative. Esercito, finanza, giustizia, tutto passa nella balia, nell'arbitrio del signore. A poco a poco una corte lo circonda, una rete burocratica traduce in atto la sua volontà in ogni luogo e in ogni parte della vita pubblica. Cedono al suo assoluto potere, corruzione e violenza; privilegi tributarî e giudiziarî di corpi, di ordini, di classi, sottoposti a un implacabile logorio vanno perdendo vigore e dànno luogo a un progressivo generale livellamento dei sudditi di fronte al sovrano. Sforzo costante e vanto del nuovo regime sono la perequazione dei tributi, la giustizia severa e imparziale. Contro i vecchi, alterni dominatori, il signore si appoggia alla moltitudine del popolo, e alle genti del contado, ai minori centri del territorio, sottratti per questa via all'oppressione comunale e pareggiati nei diritti e negli obblighi alla città. Le campagne stesse via via meno esposte alla guerriglia incessante e alla distruzione delle lotte civili, diventano più assiduo oggetto di studio e di cura, e offrono più ambiti e comodi, se non più proficui investimenti ai capitalisti arricchiti nelle industrie e nei traffici.
Genericamente analogo a ciò che avviene nel singolo comune rispetto al singolo signore, ma di natura più rivoluzionaria e di portata più vasta, è il processo per cui l'originaria unione personale di più signorie a titoli e condizioni diverse si trasforma in uno stato territoriale, che livella e assorbe le autonomie cittadine, riconosce un centro unico di grandezza e di potere nel principe, nella sua corte, nella sua abituale residenza, riceve per opera del sovrano leggi valide per tutto l'ambito del territorio - si pensi agli Statuti generali emanati da Gian Galeazzo nei 1396, da Amedeo VIII nel 1430 - e viene sottoposto in tutte le sue attività economiche a un generale vigile controllo, di carattere protettivo verso l'esterno.
Che una creazione siffatta potesse avvenire senza violenze e senza torbidi, sarebbe assurdo pensare. Si trattava di scalzare le vigorose tradizioni municipali, abbattere privilegi, toglier di mano agli uomini di ieri il comando della cosa pubblica, sventare le velleità repubblicane alimentate dal classicismo risorto. Fu lotta di vita e di morte: signori e principi procedettero con la stessa cruda energia che i nemici non avrebbero esitato a usare contro di loro; la coscienza di un'assoluta volontà, di un principio d'ordine senza tregua insidiato dall'ambizione e dall'avidità, dava alla reazione l'asprezza di una vendetta personale; la violenza e la frode imposte dalla necessità e adoprate come normale strumento di governo trascorsero troppo facilmente nel semplice arbitrio e nel capriccio delittuoso. Da questo stato di cose, le tragedie di corte, le congiure, e il fallimento delle congiure stesse, che potevano colpire il tiranno e i suoi congiunti e familiari, ma non resuscitare un passato irrevocabile, con le sue autonomie cittadine, le sue parti, le sue oligarchie, i suoi privilegi. Di qui anche i giudizî opposti a cui vanno soggetti nell'apprezzamento dei contemporanei e nella tradizione storiografica parecchi fra i signori e i principi, secondo che la loro azione si prospetta sul passato o sull'avvenire, nello sforzo distruttivo delle resistenze superstiti o nella creazione del nuovo regime.
Nel complesso e nel loro aspetto positivo, signorie e principati furono, attraverso la compressione della coscienza individuale e attraverso gravi sacrifici pecuniarî, una politica di pacificazione interna messa al servizio della cultura e del lavoro, il massimo dello sforzo compiuto, nella terra cittadina per eccellenza, al fine di superare il particolarismo comunale, mentre s'affacciava il pericolo delle grandi monarchie d'oltr'Alpe e d'oltre mare.
Ma nei momenti di crisi: alla morte di Gian Galeazzo e di Filippo Maria Visconti in Lombardia, alla scomparsa di Amedeo VIII in Piemonte, alle nuove invasioni e dominazioni in Italia iniziate con la discesa di Carlo VIII (1494), apparve evidente come il principato fosse sorpreso prima d'aver condotto a termine il suo compito unitario, e come nel sospetto, nella repressione di ogni contraria manifestazione politica, nell'esaltazione delle arti e delle lettere a gloria del sovrano e della corte, nella cura degl'interessi economici a vantaggio degli umili, si fosse quasi inaridita la vecchia coscienza municipale, senza che fosse sostituita da una nuova consapevolezza di stato, dal senso e dall'orgoglio di una nuova tradizione, da una nuova capacità di sacrificio.
III. La politica estera, espansiva, delle signorie e dei principati, è stata talvolta accostata per analogia alla conquista del territorio da parte del comune. In realtà essa riceve luce, carattere, individualità di momento in momento non soltanto e non tanto dalla vita delle singole città, quanto dalle circostanze generali della politica italiana ed europea.
La prima generazione di signori, quale che sia la loro versatilità politica, quali gl'interessi personali e locali, opera, conquista, organizza città e partiti sotto bandiera di papato e d'impero, di guelfismo e di ghibellinismo, nei quadri della lotta tra gli Svevi e la Chiesa: così Ezzelino da Romano nella Marca Trevigiana, così Oberto Pallavicino - con a fianco, in più modesto luogo, Buoso da Doara - nel cuore della valle padana, così Tomaso II di Savoia in Piemonte. E tutti, attraverso i vicariati, le podesterie, l'organizzazione dei partiti qua e là nei varî centri, la conquista militare, vengono corrodendo le autonomie cittadine, tutti, eccetto i Savoia, scompaiono senza seguito, perché non hanno radice, perché sono legati personalmente, momentaneamente, ai mutevoli interessi locali e a un grande conflitto che trascende di troppo la loro persona.
Il medesimo logorio di comuni, un nuovo slancio di espansione signorile - con altrettanto scarse conseguenze - fu provocato dalla formazione della signoria piemontese di Carlo I d'Angiò, dalla sua discesa in Italia, dalla vasta e un poco torbida politica guelfa sull'intera penisola, infine dalla reazione antiangioina. Parti e città videro allora nell'isolamento, più che un pericolo, un'impossibilità di esistenza e furono costrette a combattere sotto l'una o l'altra insegna, a riparare sotto un signore cittadino o forestiero. Savoia, Monferrato, Saluzzo vennero stimolati ad avanzare dai dominî, dalle ambizioni, dai rovesci di Carlo (battaglia di Roccavione, 1275). Fu questo il periodo di Filippo della Torre, signore di Milano, Bergamo, Como, Novara e Lodi (1265), soprattutto di Guglielmo VII di Monferrato (1254-1292), che, amico o nemico dell'angioino, riusciva a penetrare, sotto l'uno o l'altro titolo, in una ventina di comuni dell'Italia settentrionale (Alessandria, Acqui, Tortona, Ivrea, Alba, Vercelli, Biandrate, Casale, Milano, Pavia, Novara, Como, Genova, Verona, Mantova, Torino), con un'azione incoerente, saltuaria, a cui dava unità la sua persona e la sua potenza militare.
Dopo qualche decennio di oscuramento, l'organizzazione guelfa della penisola raggiunse la sua maggior perfezione nei primi vent'anni circa del regno di Roberto d'Angiò, quando fecero capo al re il rettorato e il vicariato di Romagna (1309), la signoria di Ferrara (1312), di Parma, di Reggio, di Genova (1316), il senato di Roma, il vicariato imperiale in Italia (1317), la protezione di Firenze. La prova suprema, e vittoriosa, avvenne alla discesa di Arrigo VII, allo scacco di Roma e di Firenze, alla morte dell'imperatore. E fu in quel ventennio, contro l'invadenza paurosa del sistema angioino-papale, tutto un nuovo germinare di signorie e di vicariati imperiali: in Toscana, intorno a Pisa e a Lucca, in Lombardia, nella Venezia; dal profondo lavorio emersero le prime stabili fondazioni, dei Visconti e degli Scaligeri. Da Milano, Matteo mise piede ad Alessandria, Piacenza, Lodi, Pavia, Bergamo, Tortona, Como, Vercelli, Novara, in complesso le terre della signoria di Oberto Pallavicino, poi, in più modesta misura, dei Torriani, fece le prime puntate su Genova, porto di Lombardia, a sostegno dei ghibellini contro i guelfi e Roberto. Cangrande estese il suo dominio dov'era stata la potenza di Ezzelino da Romano, sulla Marca Trevigiana, a Vicenza, Padova, Feltre, Belluno, Treviso.
Messo in disparte il re di Napoli, la Chiesa cercò di arginare l'invasione coi proprî mezzi, religiosi, militari, diplomatici, affidati alle mani energiche di Bertrando del Poggetto, poi con uno strumento che le veniva offerto dalle circostanze e che seppe o manovrare o tirare nel suo giuoco, Giovanni di Boemia. Il legato, respinto dalla Lombardia, riuscì ad afforzarsi in Emilia e in Romagna; Giovanni, fortunato, avventuroso, disceso a pacificare e troppo debole per suscitare violente reazioni, ottenne d'un subito Bergamo, Como, Pavia, Novara, Vercelli, Cremona, Parma, Reggio, Modena, Lucca (1331). Ma l'ibrido, pericoloso connubio del cardinale e del re di Boemia ebbe virtù di stringere in lega a Castelfranco (8 agosto 1331) gli Estensi, Mastino della Scala, i Gonzaga, Azzone Visconti, di farvi accedere i Fiorentini, i Bolognesi, lo stesso Roberto di Napoli, guelfi e ghibellini a un tempo, stretti dal comune pericolo.
I due nemici furono spazzati, la monarchia angioina declinava, ormai destituita della sua funzione universale, e in tutta l'Italia settentrionale e centrale riprese con più potente respiro lo sforzo costruttivo e distruttivo della signoria. Rispuntarono i tiranni di Romagna: Pepoli, Manfredi, Alidosi, Ordelaffi, Polenta; i Malatesta si estesero press'a poco a tutta la Marca d'Ancona. Da Verona Mastino della Scala giunse a Vicenza, a Treviso, Belluno, Feltre, Brescia, Piacenza, fino all'Appennino con Parma, di là dall'Appennino con Lucca, e parve sul punto di afferrare una corona regia. Sotto Azzone, Luchino e Giovanni la signoria viscontea dilagò più impetuosa di prima dalla Lombardia in Piemonte e in Emilia, menò colpi d'ariete in ogni direzione per abbattere tutti gli ostacoli, per aprirsi tutte le vie: d'intesa con Saluzzo, Monferrato, Savoia, prese in mezzo e cercò di sgretolare il dominio angioino, mettendo a nudo alla fine il sostanziale definitivo antagonismo fra Visconti e Savoia; entrò a fianco di Firenze e di Venezia nella formidabile lega che ridusse in pochi anni (1336-1341) la potenza scaligera a Vicenza e Verona; compì le vaghe aspirazioni di Matteo con l'occupazione di Genova (settembre 1353); pose in scacco la Chiesa con l'acquisto di Bologna (1350) e tentò di là la Toscana e la Romagna, respinto dall'una, arrestato nell'altra a Orvieto e a Bettona, senza poter giungere alla sua ultima meta, Firenze.
Un arresto e una reazione a questo slancio espansivo, un principio di stabilizzazione venne dalla riconquista dello stato pontificio per opera di Egidio Albornoz. Nonostante le estreme resistenze dei Manfredi a Faenza, degli Ordelaffi a Forlì, i signori delle Marche e di Romagna furono alla fine sottomessi e riebbero le loro città in qualità di vicarî; anche Bologna venne riconquistata nel 1360. Contemporaneamente, fra il 1353 e il 1375, un brulichio di leghe in perpetua formazione e trasformazione, dietro l'esempio e sotto l'egida della Santa Sede, arrestava il passo, insidiava e smembrava da ogni parte la signoria viscontea: a occidente Savoia e Monferrato, a mezzogiorno Firenze e la Chiesa, a E. e a SE. Este, Gonzaga, Scala, Carrara, Venezia.
L'impresa dell'Albornoz aveva ripetuto, in certo modo, il tentativo di Bertrando del Poggetto; se l'opera fosse stata duratura avrebbe levato, a primo aspetto, una barriera a difesa di Firenze contro i Visconti. In realtà, a parte i timori per la propria indipendenza, Firenze si sentì circondata, impedita nei traffici e negli approvvigionamenti, nel giuoco delle sue alleanze comunali e, in genere, della sua politica esterna. E gettò il grido d'allarme, che ebbe per effetto di stringere per un momento nella guerra degli Otto Santi (1375-1378) sotto una stessa bandiera di ribellione alla Chiesa le due potenze irrimediabilmente antagonistiche della penisola: Fiorentini e Visconti.
La barriera non resse alla pressione delle forze interne ed esterne, lo scoppio dello scisma parve annientare la faticosa costruzione dell'Albornoz, i disordini interni affievolirono per qualche tempo la politica fiorentina. Col favore di queste circostanze, i ricchi mezzi finanziarî, l'energia di dominio sorretta da un'ormai lunga tradizione, l'abilità diplomatica fondata sull'esperienza, la versatilità dei capi, delle cittadinanze, dei mercenarî, spinsero i Visconti a ritessere con anche più vaste ambizioni la loro tela. Sulla guerra incessante e universale si leva qualche volta una voce più alta che parla in nome d'Italia contro stranieri e compagnie di ventura; con questo intendimento si formano di ora in ora leghe particolari e anche generali, altrettanto frequenti quanto labili e inefficaci; le quali esprimono tuttavia una seria realtà, un non mentito sentimento nazionale, un bisogno, italiano, di ordine, di pace, di lavoro, e, a un tempo, in ambito più o meno vasto - vastissimo per i Visconti -, le due tendenze fra loro contraddittorie all'equilibrio e al primato. Ma le invocazioni non hanno effetto, lo squilibrio è perenne, la stessa grande politica matrimoniale di Bernabò, i fervidi negoziati diplomatici con la Francia, con Venceslao, con Roberto di Baviera, dimostrano l'impossibilità di risolvere il problema nei quadri della vita nazionale. Unico lineamento stabile in un processo così vertiginoso di guerre, di paci, di alleanze, l'opposizione reciproca di Milano e di Firenze, l'implacabile assalto visconteo contro Firenze e Toscana, e la resistenza, la reazione indomita toscana e fiorentina.
Gian Galeazzo in veste di mediatore cominciò col prendersi Asti, ribelle a Secondotto di Monferrato (1378), poi si volse a oriente sulle vie già battute da Bernabò. Alleatosi con Francesco da Carrara (1387) disfece a suo vantaggio la signoria scaligera, quindi, con Venezia, Este, Gonzaga, la carrarese (1388). Una grande lega - Visconti e Fiorentini alla testa - era stata appena stipulata a Pisa dopo laboriosi negoziati (1389), quando i sospetti e le ambizioni stesse che l'avevano provocata davano origine alla guerra (1390). Si affrontarono in alta Italia Iacopo dal Verme per Gian Galeazzo, Giovanni Acuto e il conte Giacomo d'Armagnac, imparentato con la casa di Francia, per la signoria fiorentina. Il 25 luglio 1391 il conte fu sconfitto e perdette la vita sotto le mura di Alessandria - grande vanto per il Visconti che rinfacciava ai nemici "di far passare in Italia Francesi e Tedeschi, nazioni barbare e strane e che la natura aveva per mezzo delle Alpi escluso d'Italia" -; la Toscana fu invasa fra molte speranze e trepidazioni, ma senza esito decisivo. E alla fine, con la mediazione di Genova e del papa, fu stretta una pace generale per la quale Gian Galeazzo e Firenze s'impegnavano rispettivamente a non intromettersi nelle cose di Toscana e di Lombardia. Gl'intrighi tuttavia ripresero immediatamente all'interno e all'estero, soprattutto verso Francia, che l'una e l'altra parte cercava di tirare nel giuoco, ciascuna col miraggio d'ingrandimenti territoriali a spese del nemico. Dopo lunghe alternative la Francia inclinò verso Firenze e s'impadronì di Genova (1396), meta di tenaci ambizioni viscontee; ma frattanto Gian Galeazzo aveva posto un nuovo fondamento alla sua potenza col titolo ducale e il riconoscimento dell'impero (1395). Dal 1396 in avanti nonostante la tregua di Pavia (11 maggio 1398) e la pace di Venezia (21 marzo 1400), tra il Visconti da una parte, Firenze, Bologna, Gonzaga, Este, Carrara, Venezia dall'altra, fu guerra quasi ininterrotta, alimentata dall'urgente minaccia su Mantova, dai maneggi di Gian Galeazzo nelle città toscane, dalla trepidazione universale contro la sua energia e la sua intraprendenza. Il disegno parve prossimo a compiersi: si fece vendere Pisa per 200.000 fiorini (1400); ottenne la dedizione di Siena (1399), di Perugia (1400), di Assisi e mutò a signoria il governo di Lucca (1400); il 24 ottobre 1401 batté sotto le mura di Brescia, per mezzo dei suoi condottieri, Ottobuono Terzi e Facino Cane, il nuovo re dei Romani, Roberto di Baviera, sostituito dai principi elettori al deposto Venceslao e invocato a loro difesa dai Fiorentini con la promessa di 200.000 fiorini; rimise le mani sopra Bologna e puntò su Firenze. E in quel punto lo colse la morte (Melegnano, 3 settembre 1402).
La scomparsa di Gian Galeazzo non fu soltanto la dissoluzione del principato, ma per la maniera stessa come avvenne la dissoluzione - parte a favore dei condottieri viscontei, parte di Savoia, Venezia, Firenze - un preannuncio dell'avvenire. La milizia mercenaria, che tanto peso aveva avuto nella fortuna delle signorie, diventerà nelle mani dei condottieri e a loro vantaggio, strumento di fondazione politica; una nuova generazione di signori, secondata dagli eventi, occuperà la scena della storia italiana. Intanto verrà lentamente declinando il vecchio mondo dell'antagonismo fiorentino-visconteo, delle discordie e dei maneggi interni, dei mille organismi in perpetuo moto di attrazione e di repulsione, di alleanze, di guerre, di paci, delle conquiste sporadiche, saltuarie in vastissima cerchia e in ogni direzione, secondo che comandavano ragioni e tradizioni economiche e politiche, personale volontà di dominio, opportunità di circostanze locali e di armi mercenarie. A tanta dispersione terrà dietro una contrazione e un concentramento progressivo che sboccherà nella formazione degli stati territoriali e regionali. Mentre in Amedeo VIII si riunivano i dominî di Savoia e d'Acaia (1418) e la vecchia contea sabauda si trasformava in ducato (1416), mentre fra i torbidi seguiti alla morte di Ladislao (1414), Braccio da Montone s'impadroniva di Perugia (19 luglio 1416), Todi, Rieti, Narni, Terni, Spoleto, e della stessa Roma (16 giugno 1417), Filippo Maria Visconti veniva ricostituendo a pezzo a pezzo la signoria paterna. La vedova di Facino Cane gli riportava in dote Alessandria, Novara, Tortona (1412); tornavano nelle sue mani, ritolte ai condottieri, Lodi, Como, Vercelli, Piacenza (1416-1418), Bergamo (1419), Cremona (1420), Brescia (1421), la stessa Genova, privata un'altra volta della sua indipendenza (1422), Asti ceduta dal duca d'Orleans, Crema strappata ai Benzoni (1423); proteso da Bellinzona (1422) verso il San Gottardo il ducato minacciava i Cantoni svizzeri.
Ma qui s'arrestarono i progressi di Filippo Maria; ogni qual volta tentò d'ingrandirsi gli fu inesorabilmente sbarrata la strada; la politica di egemonia e di conquista si mutò insensibilmente in una politica di equilibrio; il più potente e sottile strumento della sua lotta, Francesco Sforza, gli sfuggì di mano e finì con l'imporre i proprî interessi anziché servire agli altrui. Quando nel 1423 cominciò a intervenire in Romagna minacciando la Toscana, si ricostituì il vecchio fronte, a capo Firenze e Venezia, e dietro di esse, Este, Gonzaga, Savoia, Monferrato, ora con più spiegata partecipazione della signoria veneta tutta intesa alla politica di terra ferma; e la pace di Ferrara (1428) gli tolse Bergamo e Brescia. Quando riprese a maneggiare in Lucca (1430), trovò di nuovo a fianco di Firenze, Venezia, e la seconda pace di Ferrara (1433) impose la restituzione delle terre occupate. Il farsi paladino del Concilio contro Eugenio IV, veneziano e nemico, non gli fruttò altro che la costituzione di una signoria nelle Marche a favore dello Sforza (1433-1435). La conversione verso Alfonso d'Aragona dopo la battaglia di Ponza (1435), consigliata dal pericolo francese e dall'inimicizia del papa, di Firenze, di Venezia, gli costò la perdita di Genova. Il tentativo di riconquistarla (1435) gli mosse contro le due rivali, lo involse in una nuova guerra, di cui il vero arbitro, alla tregua di Firenze (1438) e alla pace di Cavriana (1441), apparve Francesco Sforza. E fu pace bianca, senza vinti né vincitori, anzi con qualche acquisto su minori potentati per Venezia e Firenze, con l'obbligo per Filippo Maria di non intromettersi in Toscana e in Romagna e di riconoscere l'indipendenza di Genova. Fiancheggiò Alfonso d'Aragona ed Eugenio IV contro lo Sforza, nemico all'uno per la Marca, all'altro per l'aiuto dato a Renato d'Angiò; salvo a buttarsi dalla parte di Venezia e di Firenze quando temette del definitivo trionfo aragonese e della rovina dello Sforza a vantaggio dello Stato della Chiesa (1442-1444). Ristrinse la vecchia alleanza con Roma e con Napoli contro il genero (1444); e quasi in punto di morte (1447) sotto la minaccia dei Veneziani lo chiamò in aiuto con le più lusinghiere promesse, mentre si veniva ormai definitivamente ricostituendo nelle terre della Chiesa quella barriera che arginava senza speranza l'espansione del ducato verso il mezzogiorno.
Attraverso l'anacronistica esperienza repubblicana, la successione viscontea passò allo Sforza (1450), che solo poteva vantare dirette ragioni ereditarie, e che aveva in sé forza e destrezza sufficienti per difendere la repubblica, stringersi con Venezia contro Milano, fronteggiare Milano e Venezia alleate contro di lui. Nella guerra generale che ne seguì, e che, senza profonde modificazioni territoriali fra i principati, si conchiuse con la pace di Lodi (1454) e con la lega italiana (1455), i due potentati nuovi, Medici e Sforza, si tesero la mano contro Napoli e Venezia, quasi a suggellare con l'alleanza la fine di un passato.
Cercare d'ora in avanti un principio attivo, un carattere individuale nella politica esteriore delle signorie e dei principati è forse opera vana: l'equilibrio diventa per quarant'anni la legge suprema della vita italiana e di qua da questo termine sopraggiunge la forza preponderante delle invasioni e delle dominazioni straniere.
IV. Se alla radice delle signorie sta, non di rado, un conflitto di natura sociale ed economica, e se, com'è ovvio, gl'interessi economici hanno parte in maniera generica nell'origine e nello svolgimento della nuova istituzione, caratteristica di essa, quando riesce a metter radice, è essenzialmente l'affermazione e il trionfo di una volontà politica, una dissociazione dell'esercizio del potere dalle attività della produzione e dello scambio, dalle organizzazioni di arte e di classe, una soggezione lenta e progressiva di queste e di quelle agli scopi dell'uomo di governo, infine, dello stato.
Nasce signoria nel Piemonte, nelle Marche, nella Romagna, a costituzione prevalentemente agricola e feudale, non altrimenti che a Milano e in Lombardia, prospera per le vie di transito verso la Germania, per l'industria dei panni e delle armi, per la fiorente agricoltura. Contemporaneamente Venezia, grande emporio tra Occidente e Oriente, grande mercato verso Milano e Firenze, rimane fedele al suo saldo regime oligarchico di aristocrazia mercantile, e mentre mantiene la sua potenza marinara, conduce a compimento la conquista del pingue retroterra e interviene energicamente nelle competizioni italiane. Firenze, in paese d'insufficiente sviluppo agricolo, di attività bancaria, commerciale, industriale esuberante, conquista poco per volta l'intera Toscana e passa attraverso a tutte le esperienze: effimere signorie, prevalenza di popolo grasso e di popolo minuto, oligarchia mercantile, con una coscienza politica che stenta per ragioni interne ed esterne a svincolarsi e a dominare e che solo a sec. XV avanzato sbocca nella signoria dei Medici. Il Napoletano, nonostante il fuoco fatuo di Ladislao, l'avvedutezza e lo splendore di Alfonso d'Aragona, si dibatte tra la cronica impotenza della monarchia e il malgoverno dei baroni, nella povertà delle sue risorse e nell'economia arretrata. Lazio e Umbria continuano il pieno Medioevo, metà orientati verso Toscana, metà verso il Napoletano, di là con prevalenza di vita comunale, d'industrie, di traffici, di qua con prevalenza di feudalismo, di agricoltura, di pastorizia.
Volontà politica soprattutto è quella che informa di sé la signoria, anche se gl'interessi economici segnino naturalmente le vie della sua lotta e della sua conquista o impongano ai meno potenti la norma della loro condotta.
Così Este e Gonzaga saranno attratti nell'orbita veneziana; i Savoia tenderanno a mantenere i passi delle Alpi occidentali e a espandersi nella pianura padana; i Visconti aspireranno al dominio del Po e dell'Adige, cercheranno i passi delle Alpi centrali verso la Germania, punteranno su Genova come al naturale emporio marittimo della Lombardia, su Bologna verso Firenze per vincerne la concorrenza commerciale e industriale.
Tra le ristrette e più omogenee signorie estense e gonzaghesca da un lato, e la signoria sabauda dall'altro, di resistente struttura economico-finanziaria a tipo feudale, lo stato visconteo è il solo che riesca a condurre innanzi su vasta scala un livellamento, una soggezione generale verso il sovrano, una certa perequazione tributaria, a circondarsi di una burocrazia esperta e devota, d'una operosa aristocrazia intesa alle industrie, ai traffici, all'agricoltura, a conciliarsi le città e le campagne, a provvedersi con le nuove investiture feudali, coi prestiti, con le imposte dirette e indirette i larghi mezzi finanziarî destinati allo splendore della corte e alle imprese di guerra. Era un felice avviamento verso lo stato moderno, che doveva tuttavia nei momenti di crisi mettere in luce l'incompiuta fusione e l'intrinseca debolezza derivante dalla mediocre entità dello stato e dalla grave pressione fiscale, che gli era imposta dalla sua superba politica nazionale e internazionale.
V. La crisi della società cittadina, che mette capo alle signorie e ai principati, è, in una delle sue manifestazioni più significative, crisi militare; un intimo nesso stringe l'esercizio delle armi col nascimento e lo sviluppo del nuovo regime. L'esercito comunale dalla breve e rapida azione deve affrontare nel sec. XIII un compito superiore alle sue forze e contrario alla sua natura. Sono gli anni del conflitto tra Federico II e la Santa Sede, tra gli ultimi Svevi e Carlo d'Angiò, tra Angioini e Aragonesi nella guerra del Vespro; si richiede al comune uno sforzo duraturo, in terre anche lontane, contro eserciti numerosi e agguerriti, contro mercenarî addestrati esclusivamente al maneggio delle armi; si richiede in altre parole ciò che le democrazie cittadine non sanno o non possono dare, uno strumento di difesa e di potenza, che sappia per un verso tutelare il ritmo fecondo della vita economica, per l'altro superare la cerchia ristretta della politica locale. A queste esigenze si fa incontro la vigorosa individualità dei primi signori, capitani di guerra, ancora più o meno strettamente legati ai luoghi e alle parti: Ezzelino da Romano, Uberto Pallavicino, Guido da Montefeltro, Guglielmo VII di Monferrato. Le milizie comunali si ritraggono a poco a poco, e il signore trova la sua forza negli elementi del mondo feudale in dissoluzione, nella moltitudine dei fuorusciti, sradicati, gettati alla lotta e all'avventura, nei frammenti di quegli eserciti mercenarî che avevano servito Federico, Manfredi, Carlo d'Angiò e Pietro d'Aragona. Dall'alto e dal basso si andava verso un'unica direzione: il cittadino, inferiore ai nuovi compiti militari, era disposto a pagare purché gli fossero assicurati la sua ricchezza e il suo lavoro; il signore era condotto dalle ragioni essenziali della signoria a dissociare il cittadino dal soldato, a crearsi un potere militare estraneo e superiore ai partiti, adeguato alle esigenze dei tempi. Il desiderio di pace promoveva la signoria; la signoria a sua volta, disarmato il comune, promoveva il mercenarismo e la guerra.
L'impresa di Arrigo VII, appoggiata anch'essa a mercenarî e a fuorusciti, produsse la nuova, meno effimera germinazione militare e signorile di Uguccione, Castruccio, Cangrande, Matteo Visconti, armati con i resti dell'esercito imperiale e con altri soldati di ventura; Firenze non seppe resistere con le sue forze e si diede in signoria di Roberto d'Angiò, di Carlo di Calabria, più tardi di Gualtieri di Brienne. Nelle agitate vicende italiane del Trecento, le molte patrie senza o quasi senza esercito, chiesero protezione e potenza agli eserciti senza patria, alle compagnie dei mercenarî lasciate da Giovanni di Boemia, Ludovico il Bavaro, Luigi d'Ungheria, piovute da ogni parte al richiamo delle paghe e del bottino; quel che doveva essere semplice strumento del potere politico, sfuggì di mano a signori e comuni e affermò una propria torbida ragione di vita e di sfruttamento. Con i condottieri italiani, dallo scorcio del Trecento alla metà del Quattrocento, l'esercizio delle armi, attraverso i più sottili avvolgimenti e la più vertiginosa volubilità, tende un'altra volta, in circostanze diverse, a radicarsi alla terra e a convertirsi in azione di governo. Al comando si unisce non di rado un'astuta attività diplomatica e politica via via più indipendente; e da quello e da questa esce una nuova generazione di signori: i piccoli fondatori di stato della dissoluzione viscontea ai primi del Quattrocento, Pandolfo Malatesta, Iacopo dal Verme, Ottobuono Terzi, Facino Cane, Gabrino Fondulo; gli usurpatori più o meno stabili delle terre della Chiesa durante il grande scisma e lo scisma del concilio di Basilea, il Broglia, Biordo dei Michelotti, Braccio da Montone, Niccolò Fortebraccio e Francesco di Niccolò Piccinino, maggiore di tutti Francesco Sforza.
Nel tempo stesso, e giù giù lungo il Quattrocento e il Cinquecento, le più robuste e durevoli tra le nuove fondazioni vengono lentamente creando ordini militari meglio rispondenti alla loro natura e alle loro esigenze, ritraggono a poco a poco l'esercito nell'orbita dello stato, lo incorporano in esso e ricompongono, sotto altra legge, nell'assolutismo monarchico, nel vincolo di sudditanza il vecchio dissidio fra cittadino e soldato.
Sotto questo aspetto per lungo tempo Piemonte e Romagna differiscono dalla Lombardia. Lo stato sabaudo dei secoli XIV e XV poggia essenzialmente sopra un esercito indigeno, fedele, ma provveduto, oltre che dalle terre di diretto dominio, da vassalli e comuni, dagli uni secondo il contratto feudale, dagli altri secondo il patto di dedizione, quindi oltremodo vario nella composizione, e poco adatto a imprese di vasto ambito e di lunga durata. La Romagna è un semenzaio di minori principi e signori, che assoldano i proprî sudditi e si fanno condottieri a servizio altrui: Ordelaffi, Malatesta, Montefeltro, Manfredi, ecc.; quei signori che il Valentino spegnerà, fondando egli stesso il suo ducato con le armi dei condottieri e dei mercenarî, con le arti della signoria, e spianando la via alla riconquista di Giulio II. La sola Lombardia offre il campo a grandi e durature esperienze. Non altrimenti da ciò che accade, ad es., a Firenze o a Bologna sotto Giovanni d'Oleggio, dalla metà del Trecento i Visconti tendono a disarmare i cittadini, a sostituire l'obbligo militare con imposizioni in danaro, a servirsi di mercenarî; le sole campagne continuano a provvedere con persone (cernite) e con mezzi proprî alla difesa del territorio. Sotto Gian Galeazzo l'esercito viene, per così dire, addomesticato con la concessione di feudi - inalienabili e non ereditarî senza il consenso del principe - a favore dei condottieri, che levano i mercenarî sulle loro terre.
Nel corso del sec. XV, specie dopo la conquista del ducato da parte di Francesco Sforza e lo stabile stanziamento delle sue schiere nel Milanese, si diradano al massimo le condotte forestiere e l'esercito risulta composto in grande prevalenza dagli uomini d'armi della famiglia ducale, da mercenarî in servizio permanente o comunque reclutati direttamente dal governo (lance spezzate, provvisionati ducali), dalle forze levate sui feudi, al comando del duca, dei suoi congiunti, dei feudatarî, degli alti ufficiali dello stato. Tra Quattrocento e Cinquecento col progressivo prevalere delle fanterie sulla cavalleria, questo indirizzo diventa generale in tutti i principati. Vien meno la grande generazione dei condottieri, che s'erano alimentati unicamente di guerra e avevano mirato con le condotte alla fondazione di uno stato. Quelli che rimangono, escono dalle casate principesche della Romagna, di Mantova, di Monferrato, e cercano nelle armi fama e soddisfazione per sé, ricchezza e splendore per lo stato avito. In Toscana soprattutto per opera del granduca Cosimo, di Francesco Maria della Rovere a Urbino (1533) di Ottavio e Ranuccio Farnese a Parma e Piacenza, di Alfonso II d'Este a Modena e Ferrara, di Vincenzo Gonzaga a Mantova e nel Monferrato, di Emanuele Filiberto in Piemonte, gli eserciti, per la maggior parte fondati sulla coscrizione obbligatoria, stipendiati, armati, approvvigionati dal principe, assumono un carattere sempre più nazionale e statale.
VI. La formazione delle signorie cadeva durante una profonda crisi dell'impero, nel momento delle prime vivaci espressioni nazionali di Dante, del Petrarca, di Cola di Rienzo, era il trionfo, e la dissoluzione del principio democratico, l'affermazione di robuste energie individuali, uno svolgimento costituzionale, e una rivoluzione. Sotto ciascuno di questi aspetti la signoria toccava la coscienza contemporanea: si alimentava delle correnti ideali del tempo, vi s'inquadrava, destava reazioni, stimolava la speculazione politica.
Le invocazioni rivolte da Gian Galeazzo agl'Italiani perché "si tenessero Italiani" e facessero fronte a Francesi e Tedeschi, "nazioni strane e barbare, nemiche del nome italiano", non sono astuzia politica, o lo sono solo in quanto ogni grande politica, per intima natura e per necessità, suscita e promuove ideali, chiama alla chiarezza della coscienza, al fervore dell'azione, istinti e sentimenti più o meno oscuri nell'animo dei contemporanei. Le parole con cui lo storico Andrea Biglia attribuiva ai Visconti in genere e in particolare a Gian Galeazzo il merito di aver protetto l'Italia dai barbari, restaurato la disciplina militare, insegnato agl'Italiani a fidare in sé anziché negli altri; i versi e le prose in latino e in volgare con cui la letteratura ufficiale o semiufficiale di Pasquino Capelli e di Antonio Loschi, di Braccio Bracci e di Giovanni de' Boni, del Saviozzo e di Francesco di Vannozzo, esaltava lo sposo d'Italia, il Cesare novello, l'inviato di Dio "per dar pace a l'italica gente"; tutte queste espressioni vanno oltre l'ambizione personale e l'adulazione interessata; esse ci dicono effettivamente di un uomo che s'imponeva con la sua potente originalità, di una corte tutta animata dalla sua passione e dalla sua energia, di desiderî e di speranze vaghe, e che pure avevano in sé qualcosa di vivo e di sincero. La corona italica che doveva cingere il capo di uno Scaligero o di un Visconti, era, più che un vuoto motivo cortigiano e letterario, una possibilità, sia pure non consacrata dall'evento, ma che poggiava su qualcosa di solido: la tradizione del Regno Italico e un sentimento nazionale, che dovevano metter capo a un'eccezionale volontà e capacità di governo. Né il sogno tramonterà col Trecento.
Radicata nell'immediata realtà fu la creazione di stati monarchici, cittadini, territoriali, regionali, che riconoscevano in genere la loro origine da una formale delegazione di poteri da parte del popolo. Il comune democratico e la nascente signoria contribuivano così a fondare il principio, teorizzato da Marsilio da Padova nel Defensor pacis, dell'origine popolare del potere; e alla lex regia si richiamavano espressamente i Mantovani nell'elezione di Guido Gonzaga a signore (1360), i Milanesi nell'atto di dedizione a Francesco Sforza. Ma il nuovo regime urtava per la sua natura e per i suoi modi da un lato contro le superstiti aspirazioni locali repubblicane, dall'altro contro l'antica tradizione imperiale. Esso parve usurpazione sull'impero, di cui ignorava, escludeva, combatteva la suprema autorità, tirannide sui cittadini, disarmati e assoggettati a un dispotismo troppo spesso avido e crudele. Illegittimità e malgoverno, offesa dell'ordine giuridico, morale, religioso, sono l'accusa promiscua dei nemici, l'invettiva dei poeti, l'argomentazione dei dottrinarî, l'arma della polemica imperiale e papale.
Poi, superato il torbido momento della creazione, via via che il potere si viene rassodando e ampliando, che acquista continuità e stabilità, si sente il bisogno di riconoscere ciò che è accaduto, di configurare giuridicamente il nuovo istituto, di sistemarlo nel quadro universale dell'impero. A distanza di pochi decennî escono il De Tyrannia di Bartolo da Sassoferrato e il De Tyranno di Coluccio Salutati (1400).
Per Bartolo v'è tirannide: ex defectu tituli in quanto il potere è stato imposto con la violenza o è stato conferito da chi non vi aveva diritto; ex parte exercitii in quanto viene esercitato, anziché nell'interesse comune, contro giustizia e a vantaggio personale. Ma egli ammette l'esistenza di civitates superiorem non recognoscentes, che sono sibi principes, capaci come tali di conferire per atto di volontà popolare la somma dei poteri al signore; e all'incontestata, alta sovranità dell'impero assegna unicamente il compito di una missione di pace e di armonia fra gli stati cristiani. Per il Salutati, invece, le città italiane stanno, per così dire, al limite dell'autonomia, e alla legittimità del governo monarchico sono indispensabili tanto la volontà del popolo, quanto la conferma dell'impero. Bartolo e Coluccio riflettevano la realtà contemporanea, accentuando l'uno il sorgere di fatto delle signorie sul tronco del comune popolare, l'altro la sua tendenza a trasformarsi in principato attraverso la legittimazione imperiale.
Voce del tempo è nell'uno e nell'altro la resistenza al tiranno, il tirannicidio, che sarà fra i grandi motivi della letteratura e della pubblicistica del Rinascimento, eredità ideale del riscoperto classicismo repubblicano, e, nella vita pratica, estrema riscossa, individuale, ambiziosa di gloria, contro l'assolutismo monarchico. Sennonché Bartolo sfugge alla stretta della realtà con qualche platonico richiamo alla legislazione romana, in base alla quale può essere condannato il tiranno; Coluccio, mentre ammette il tirannicidio contro chi s'impadronisca del potere per violenza o per frode, riserva la condanna del tiranno ex parte exercitii, secondo i casi, all'esplicita volontà della maggioranza dei cittadini o all'autorità sovrana; il che equivaleva in certo modo a sanzionare il passato e a salvaguardare l'avvenire da nuovi rivolgimenti.
Al trapasso della signoria in principato e al suo progressivo consolidamento s'accompagna nel Quattrocento e nel Cinquecento tutta un'abbondante letteratura pubblicistica che, in accordo coi tempi, prescindendo ormai dalle considerazioni giuridiche sulla legittimità nell'acquisto del potere, sulla sovranità imperiale e sulla volontà popolare, riconduce in genere la tirannide al vecchio concetto politico-morale che aveva predominato nel Medioevo, e si compiace di delineare l'immagine dell'ottimo principe.
Fra tante scritture di maniera hanno un loro schietto sapore di realistica onestà i Consigli in cui Carlo Malatesta raccoglieva per Giovanni Maria Visconti le buone esperienze di Gian Galeazzo; fra tanta imitazione classica ci arresta, in Pier Candido Decembrio, la consapevolezza dello sforzo eroico di Filippo Maria Visconti, uso ad anteporre statum dominatus sui saluti corporis et animae. Da tutto l'intrico dottrinale e retorico si libera e si distacca, prodotto unico, fecondo della coscienza del tempo, la prosa nuda del Principe, che con la sua esaltazione della sovrana virtù fondatrice di stato, liberatrice d'Italia, riassume i due grandi motivi dell'età delle signorie: ciò che essa aveva prodotto, lo stato creazione dell'uomo; ciò che essa aveva invocato, la nazione, ed era il compito dell'avvenire.
Bibl.: Si vedano le amplissime indicazioni bibliografiche di lavori generali e speciali: nella bibliografia della voce italia (vol. V, p. 905, n. 50 segg.); in P. Egidi, La storia medievale, Roma 1922; nei volumi di F. Ercole, Dal comune al principato, Firenze 1929; Da Bartolo all'Althusio, Firenze 1932; Da Carlo VIII a Carlo V, Firenze 1932. Da aggiungere ora L. Mirot, La politique française en Italie de 1380 à 1430, Parigi 1934; le ricerche di N. Valeri, Gli studi viscontei-sforzeschi fino alla crisi della libertà nell'ultimo ventennio, in Archivio storico italiano, 1935; L'insegnamento di Gian Galeazzo e i "Consigli al principe" di Carlo Malatesta, in Bollettino storico-bibliografico subalpino, XXXVI (1934); Facino Cane e la politica subalpina alla morte di Gian Galeazzo, ibid., XXXVII (1935); Guelfi e Ghibellini in Val Padana all'inizio del ducato di Giovanni Maria Visconti, ibid., XXXVII (1935); Lo stato visconteo alla morte di Gian Galeazzo, in Nuova rivista storica, XIX (1935).
Non esiste finora un buon lavoro complessivo sulle signorie e sui principati, o sull'età delle signorie e dei principati: nel grosso volume di C. Cipolla, Storia delle signorie italiane dal 1313 al 1530, Milano 1881, la ricchissima informazione, attinta direttamente alle fonti, va a danno della chiarezza e dell'organicità del lavoro; di minore impegno, ma più utile e agevole per una prima informazione, P. Orsi, Signorie e Principati, Milano 1900. - Per la cultura del periodo: J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1927. - Sull'origine, la natura, lo svolgimento delle signorie e dei principati, fondamentali: J. Ficker, Forschungen zur Reichsund Rechtsgeschichte Italiens, Innsbruck 1868; E. Salzer, Über die Anfänge der Signorie in Oberitalien, Berlino 1900, in Historische Studien, XIV; F. Ercole, Dal comune, cit., e Da Bartolo, cit. - Sulla storia militare, oltre E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1845, sempre utilissimo: P. Pieri, La crisi militare italiana nel Rinascimento nelle sue relazioni con la crisi politica e economica, Napoli 1934. - Sul pensiero politico e in genere sulla coscienza contempranea: J. Burckhardt, La civiltà, cit.; F. Ercole, Dal comune al principato, cit., Da Bartolo all'Althusio, cit., Da Carlo VIII a Carlo V, cit.; F. Chabod, Del "Principe" di N. Machiavelli, in Nuova rivista storica, IX (1925); G. Volpe, Il Trecento, Milano s. a.; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1934; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933.