SERBALDI da Pescia, Pier Maria
SERBALDI da Pescia, Pier Maria (detto il Tagliacarne). ‒ La data di nascita dell’artista è stata fissata intorno al 1455 sulla base della prima testimonianza documentaria finora nota: il 29 ottobre 1468 il padre dell’incisore, Antonio Serbaldi da Pescia (nulla è noto della madre), affidò il figlio a un non meglio noto «presbiter Macteus» per il periodo di un anno affinché imparasse i rudimenti della pittura a Pistoia (Milanesi, 1901). Unicamente in base al soprannome con cui era noto, gli studi hanno ipotizzato un apprendistato dell’artista presso l’incisore genovese Giacomo Tagliacarne.
Fino all’inizio dell’ultimo decennio del secolo i documenti tacciono: in questo lasso di tempo deve necessariamente essere collocato un soggiorno dell’artista a Firenze e l’avvio dei suoi duraturi rapporti con i Medici. Di quest’ultimi si ha notizia per la prima volta in una lettera del 28 novembre 1491 inviata da Roma a Lorenzo il Magnifico: con questa missiva Nofri Tornabuoni rivelava al Medici che un piccolo calco precedentemente speditogli a Firenze derivava da un lavoro d’intaglio fatto circolare da Serbaldi lasciando credere agli acquirenti che si trattasse di un’opera antica (Fusco - Corti, 2006, p. 320, doc. 158).
Serbaldi è documentato a Roma anche durante l’anno successivo grazie a due lettere inviate a Firenze, una di Luigi Lotti da Barberino a Nicolò Michelozzi (4 febbraio; De Marinis - Perosa, 1970) e una di Michelangelo Tanagli a Piero di Lorenzo de’ Medici (6 ottobre; De Marinis, 1953). Dalla seconda si apprende che quest’ultimo era in trattative con Serbaldi per l’acquisto di un «Fetonte in calcidonio» e di una «testa d’Ottaviano in tutto rilievo» (per una proposta d’identificazione di questi due oggetti: Fusco - Corti, 2006, pp. 321 s., nota 1), ma che l’artista preferiva attendere l’arrivo di Piero a Roma di lì a breve per concludere la vendita. Già in queste prime testimonianze trova riscontro la menzione di Serbaldi offerta dalla seconda edizione delle Vite di Vasari (1568, 1976), dove è definito «grandissimo imitatore delle cose antiche».
Se veritiero, tra gli ultimi giorni del 1494 e i primi dell’anno successivo dovrebbe collocarsi l’episodio riportato da Marcantonio Michiel, che a Venezia vide una tazza in porfido opera di Serbaldi (prima nella collezione di Francesco Zio e una seconda volta in quella di Andrea Odoni): l’incisore l’avrebbe sotterrata insieme ad altri oggetti al momento dell’entrata di Carlo VIII a Roma per poi recuperarla e ripararla in seguito (Michiel, 2000).
Dal 24 agosto 1499 Serbaldi ricevette l’incarico a vita di faber tiparius per la zecca di Roma e della Marca Anconitana (Müntz, 1884, pp. 229 s.). Nell’aprile 1505, in vigore di un mandato risalente all’anno precedente, venne pagato per aver realizzato una «stampam plumbeam» destinata alle bolle e lettere apostoliche di papa Pio III (p. 230).
Per il pontificato di Giulio II, l’unica registrazione nota risale al 17 novembre 1507, quando all’incisore vennero elargiti 75 ducati d’oro per aver eseguito punzoni destinati alla monetazione di Roma e di Perugia (p. 236).
Roberto Weiss (1965, pp. 175-178) ha ricondotto a Serbaldi un gruppo coerente di piccole medaglie coniate (già attribuite a Gian Cristoforo Romano: Hill, 1930, pp. 57 s., nn. 224-229) realizzate in occasione della fondazione della rocca di Civitavecchia nel 1508 (p. 57 n. 224) e della costruzione del palazzo dei Tribunali (p. 57 nn. 225-227), a cui se ne aggiungono due che esaltano in modo più generico la protezione esercitata da Giulio II sui territori papali (pp. 57 s., nn. 228-229). Queste attribuzioni si basano sulle somiglianze stilistiche fra il ritratto di Giulio II al diritto delle medaglie e quelli presenti su alcune monete del pontefice (in particolare un giulio e un doppio fiorino: Martinori, 1918a, pp. 53 s. e 55 s.). In due casi (Hill, 1930, p. 57 nn. 225, 228), inoltre, il punzone impiegato (che si distingue per il bottone trilobato che ferma il piviale indossato dal papa) è il medesimo di un triplice ducato coniato sotto lo stesso pontefice (Martinori, 1918a, p. 52).
Un altro profilo di Giulio II – diverso, ma perfettamente omogeneo per stile rispetto a quelli appena discussi – è presente su tre medaglie di diametro leggermente maggiore (Hill, 1930, pp. 225 s., nn. 866, 868, 870) che portano al rovescio la raffigurazione del progetto bramantesco per la basilica di S. Pietro, la facciata del santuario di Loreto e una Conversione di s. Paolo (quest’ultimo è noto anche in associazione con un diverso diritto di datazione incerta: p. 225 n. 867): la critica è oggi divisa fra chi le ritiene opera di Serbaldi (Toderi - Vannel, 2000, pp. 643 s., nn. 2012-2014) e chi preferisce assegnarle a Gian Cristoforo Romano (Modesti, 2002, pp. 487 n. 201, 497 n. 206, 517 n. 216). Tale discordanza di pareri è in parte dovuta all’esistenza di esemplari coniati di datazione incerta (pp. 489 n. 202, 491 n. 203, 495 n. 205, 499 n. 207, 501 n. 208) dove due di questi rovesci (Hill, 1930, pp. 225 s., nn. 868 e 870) si trovano associati a un ulteriore e diverso profilo di Giulio II. Quest’ultimo compare al diritto di tre medaglie (pp. 226 s., nn. 871-872, 877) che Weiss (1965, pp. 173-175) mise in relazione con due pagamenti a Gian Cristoforo Romano (risalenti al 1506 e al 1509), contenenti un’esplicita menzione dei rovesci realizzati dallo scultore: una Pace, una raffigurazione allusiva a un periodo di carestia e due non meglio specificati «edifici di Roma et Civitavecchia» (Giordani, 1907, pp. 206-208). Tali documenti, in realtà, sono stati da tempo riconosciuti come il frutto di una falsificazione moderna, ma le tre medaglie aspettano ancora di essere approfonditamente ridiscusse in rapporto a Serbaldi (si veda, in breve, Leone de Castris, 2010).
Con l’elezione di Leone X, Serbaldi continuò a lavorare per la zecca come incisore, ma dovette avere proficui rapporti anche con i collezionisti di antichità della corte pontificia: ne è indice una lettera – priva di data, ma riconducibile al 1513 – con la quale Pietro Bembo (1990) inviò al fratello Bartolomeo «una scatoletta con alcuni impronti avuti da Pier Maria». È possibile, inoltre, che la menzione dell’artista quale autore «di cammei, di corniole et altri intagli» presente nei Ricordi di Sabba da Castiglione (1554) dipenda dal periodo trascorso dall’umanista a Roma tra il 1508 e il 1515.
Tre lettere inviate dalla città papale a Firenze nella primavera del 1514 testimoniano la continuità dei rapporti di Serbaldi con i Medici sotto il pontificato di Leone X (Fusco - Corti, 2006, p. 321 nota 1, n. 4). Il 27 e il 28 aprile di quell’anno rispettivamente Alvise Rossi e Luigi Lotti da Barberino scrissero a Lorenzo di Piero per raccomandare il fratello dell’incisore, Niccolò, all’ottenimento di una pensione in forza del suo lungo servizio presso i Medici come barbiere. Al medesimo scopo anche Serbaldi inviò una missiva da Roma il 27 aprile (senza l’indicazione dell’anno, deducibile però dal contesto), facendo esplicito riferimento ai suoi rapporti pregressi con il futuro duca di Urbino e rievocando la sua «antiqua e fidelissima servitù» prestata al servizio di Lorenzo il Magnifico e di suo figlio Piero (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, filza 111, c. 274r).
La ricostruzione di un corpus di monete associabili all’attività di Serbaldi nella zecca di Roma si basa ancora su presupposti ipotetici. I primi tentativi sistematici in questo senso si devono a Edoardo Martinori (1918a, pp. 18 s., 52-58), che ha insistito sull’assenza di documentazione relativa a qualsivoglia altro incisore papale di conii tra il 1499 e il 1515. Dal 24 giugno di quell’anno, infatti, Serbaldi fu affiancato nell’incarico dal veneziano Vittore Gambello detto Camelio (Id, 1918b, pp. 13, 27 s.): da questo momento in avanti, dunque, ogni attribuzione deve tenere conto della parallela attività di quest’ultimo. È il caso di due testoni di Leone X, che, pur presentando il medesimo soggetto al rovescio (Cristo benedice gli apostoli), attestano, ad esempio, una significativa varietà di stile, ben imputabile alla coesistenza in zecca di distinte personalità di artisti (p. 13).
Da un pagamento del 20 febbraio 1521, relativo al triennio precedente, si ricava che Serbaldi passò alla carica di soprastante almeno a partire dalla fine del 1518 con uno stipendio annuo di 18 ducati (pp. 16, 31). L’ultimo pagamento noto relativo a questo ufficio papale risale al primo semestre del 1522 (Müntz, 1884, p. 231).
È plausibile che sia Serbaldi il «Piero Maria» che nel 1525 venne pagato dalla tesoreria pontificia per aver inciso delle iscrizioni su vasi in agata e diaspro (il documento è segnalato da Bulgari, 1969, p. 398).
È stato proposto (ibid.) di riconoscere l’ultima attestazione documentaria relativa all’artista in un censimento della popolazione romana redatto subito prima del 1527: qui si trova registrato un «Pietro Maria zoilier» con tre persone a carico (Gnoli, 1894, p. 462). Non sono a oggi noti eredi diretti di Serbaldi, né ci sono notizie di un suo matrimonio.
L’unica opera certamente associabile a Serbaldi è una piccola scultura in porfido raffigurante Venere e Amore (altezza 26 cm) documentata nelle collezioni medicee dal 1704 (Firenze, Museo degli Argenti, Inventario Sculture 1914, n. 1067). Il classicismo formale della Venere e la sottoscrizione in caratteri greci (pétros marías epóiei) sono stati messi in relazione con i «gusti umanistici padovani e veneziani» (Ceriana, 2013, p. 256). Ha incontrato un certo consenso anche l’attribuzione di una testa muliebre in porfido (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer, inv. 3529) formulata da Ernst Kris (1929, p. 157 n. 92/23; Ceriana, 2013, p. 256).
Due conii in porfido (entrambi del diametro 45 mm) conservati al Museo degli Argenti di Firenze (Inventario Gemme 1921, n. 325) e al Louvre (inv. OA 3330) sono oggi considerati dalla maggior parte della critica come opera di Serbaldi (Malgouyres, 2003, pp. 97 s., n. 21) e raffigurano rispettivamente un profilo di Leone X e una Pace che brucia le armi. Andrà sottolineato, tuttavia, che lo stile di questi due intagli (dei quali è nota un’impressione in piombo: Toderi - Vannel, 2003, p. 117 n. 1084) sembra inconciliabile con quello delle medaglie finora attribuite all’incisore.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, filza 111, c. 274r.
M. Michiel, Notizia d’opere del disegno (1521-1543 circa), a cura di Th. Frimmel, saggio introduttivo di C. De Benedictis, Firenze 2000, pp. 52, 55; P. Bembo, Lettere (1492-1546), a cura di E. Travi, II, Bologna 1990, p. 78 n. 333; G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, IV, Testo, Firenze 1976, p. 620; Sabba da Castiglione, Ricordi overo ammaestramenti..., in Vinegia, per Paulo Gherardo, 1554, c. 51v; E. Müntz, L’atelier monétaire de Rome. Documents inédits sur les graveurs de monnaies et de sceaux et sur les médailleurs de la cour pontificale depuis Innocent VIII jusq’à Paul III, in Revue numismatique, s. 3, XII (1884), pp. 220-251, 313-332; D. Gnoli, Descriptio Urbis o censimento della popolazione di Roma, in Archivio della R. Società Romana di Storia Patria, XVII (1894), pp. 375-520; G. Milanesi, Nuovi documenti per la storia dell’arte toscana dal XII al XVI secolo, raccolti e annotati, Firenze 1901, p. 120, doc. n. 239; D. Giordani, Studi sulla scultura romana del Rinascimento, in L’Arte, X (1907), pp. 197-208; E. Martinori, Annali della Zecca di Roma. Alessandro VI (1492-1503) - Pio III (1503) - Giulio II (1503-1513), Roma 1918a, pp. 13, 15-19, 33, 46 s., 52-58, 64 s., 75, 77; Id., Annali della Zecca di Roma. Leone X (19 marzo 1513 - 1° dicembre 1521). Adriano VI (9 gennaio 1522 - 14 settembre 1523). Sedi vacanti (1521; 1523), Roma 1918b, pp. 6-8, 11, 13, 16 s., 27 s., 31, 33; E. Kris, Meister und Meisterwerke der Steinschneidekunst in der italienischen Renaissance, I, Wien 1929, pp. 39-42, 157 nn. 90-91/22, 92/23, 95/25, 96/25, 97/25; G.F. Hill, A corpus of Italian medals of the Renaissance before Cellini, I, London 1930, pp. 57 s., nn. 224-229, 224-227, nn. 866-872 bis, 877; T. De Marinis, Introduzione, in M. Tanaglia, De agricultura, a cura di A. Roncaglia, Bologna 1953, p. XI; R. Weiss, The Medals of Pope Julius II (1503-1513), in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXVIII (1965), pp. 163-182; C.G. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d’Italia..., II, Roma 1969, pp. 397 s.; T. De Marinis - A. Perosa, Nuovi documenti per la storia del Rinascimento, Firenze 1970, p. 62; G. Toderi - F. Vannel, Le medaglie italiane del XVI secolo, II, Firenze 2000, pp. 641-644 nn. 2005-2017; A. Modesti, Corpus numismatum omnium Romanorum pontificum, I, Da San Pietro (42-67) a Adriano VI (1522-1523), Roma 2002, pp. 483-491 nn. 199-203, 495-512 nn. 205-213, 517 n. 216; G. Toderi - F. Vannel, Medaglie italiane del Museo Nazionale del Bargello, I, Secoli XV e XVI, Firenze 2003, pp. 116 s., nn. 1076-1086; Ph. Malgouyres, Porphyre. La pierre pourpre des Ptolémées aux Bonaparte (catal.), Paris 2003, pp. 96-98 nn. 20-21; L. Fusco - G. Corti, Lorenzo de’ Medici, collector and antiquarian, New York 2006, pp. 140, 157, 208, 320-322, doc. 158; P. Leone de Castris, Studi su Gian Cristoforo Romano, Napoli 2010, pp. 71 s.; M. Ceriana, in Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento (catal., Padova), a cura di G. Beltramini - D. Gasparotto - A. Tura, Venezia 2013, pp. 256 s., n. 4.11.