Senso
(Italia 1954, colore, 117m); regia: Luchino Visconti; produzione: Renato Gualino per Lux; soggetto: dall'omonimo racconto di Camillo Boito; sceneggiatura: Suso Cecchi d'Amico, Luchino Visconti, Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Giorgio Prosperi; fotografia: G.R. Aldo, Robert Krasker; montaggio: Mario Serandrei; scenografia: Ottavio Scotti, Gino Brosio; costumi: Marcel Escoffier, Piero Tosi.
La contessa Livia Serpieri, mal maritata con un vecchio esponente dell'aristocrazia lombardo-veneta fedele all'Impero asburgico, conosce casualmente a teatro il giovane ufficiale occupante Franz Mahler. In una Venezia notturna e bagnata di pioggia alla fine dell'inverno, mentre le strade sono rese insicure dagli agguati dei patrioti italiani, esplode tra i due una passione carnale che Franz volge, quasi suo malgrado, a proprio vantaggio chiedendo regali, favori, attenzioni. Livia, infiammata altresì dalle idee di rivolta del cugino Ussoni, lascia alla fine la città prima di essere travolta dallo scandalo e raggiunge la villa sui colli veneti, prendendo in consegna la cassa dei carbonari. È il 1866, l'esercito piemontese tenta di sfondare il quadrilatero austriaco, i volontari cercano di collegarsi ai regolari, Ussoni si batte e resta ferito in battaglia, ma Livia sembra non sentire nulla, nella quiete ovattata della sua casa. Finché non vi irrompe Franz, che ha disertato e si appella disperato a lei in cerca dei soldi per comprare un esonero dal servizio al fronte. Basta una notte d'amore perché i fondi destinati all'insurrezione passino di mano, ma quel gesto insensato finisce per pesare come un macigno su entrambi. Lui non riuscirà a comprarsi il salvacondotto e prenderà coscienza di essere un relitto tra i tanti di un mondo che corre allo sfacelo; lei non reggerà alla vergogna, scenderà tutti i gradini dell'abiezione fino a denunciare l'amante alle autorità austriache, condannandolo al plotone d'esecuzione, mentre l'esercito di Vittorio Emanuele viene messo in rotta e la cappa dell'oppressione sembra stroncare ogni sogno di libertà. I grandi fatti della Storia, visti col cannocchiale rovesciato dei drammi privati, echeggiano soltanto sullo sfondo, ma il muro grigio su cui si appoggia Mahler in attesa dell'ultima raffica sembra già crivellato di altri colpi, quelli della repressione e della fine di ogni ideale.
Tutto l'arco espressivo e concettuale del film più amato e contestato di Luchino Visconti potrebbe essere sintetizzato dalle scelte musicali compiute dall'autore, che ricorse a celeberrimi temi non originali di due tra i maggiori compositori del romanticismo. In testa le arie memorabili (e non accreditate nei titoli) del Trovatore di Giuseppe Verdi, eseguite nella cornice originale della Fenice di Venezia; per tutta la durata della vicenda straziante dei due amanti condannati all'infelicità, i rintocchi funebri, via via più cupi, della Settima Sinfonia di Anton Bruckner. In mezzo, quasi uno scherzo della sorte e della sceneggiatura, un protagonista che porta il nome del musicista più amato, Mahler, che Visconti avrebbe rievocato, di nuovo sullo sfondo di Venezia, per la sua trascrizione da Thomas Mann. Il film che si sarebbe dovuto intitolare Custoza, se il Ministero della Difesa e il Governo non avessero tacciato di disfattismo l'autore, impedito il montaggio originale, chiesto il taglio e la distruzione di alcune scene emblematiche compreso il finale con il soldatino austriaco che gridava piangendo "Viva l'Austria" nel giorno della grande vittoria contro l'esercito sabaudo, usa la novella di Camillo Boito, ma ne stravolge coscientemente i presupposti. Secondo la regola della scapigliatura a cui Boito (come il fratello Arrigo) apparteneva, la scena è occupata da due amanti maledetti. Il progetto ideologico di rilettura della Storia adottato da Visconti sulla scorta delle riflessioni di Gramsci e Alicata trova qui come in La terra trema (1948) una incarnazione di rara perfezione e lucidità, mentre il Visconti privato usa le vicende di Livia e Franz per mettere in scena il melodramma romantico della fine di una società e di un'epoca in cui riversa la propria inquietudine e consapevolezza.
Molto si è scritto dei riferimenti espressivi (dai Macchiaioli a Francesco Hayez, da Giovanni Segantini a Giovanni Boldini), delle traversie politiche e dello scontro intellettuale agitato dal film che, intorno a una controversa idea di 'realismo', spaccò in due l'Italia del tempo fino al mancato premio alla Mostra di Venezia. Ma varrà la pena di segnalare come il set di Senso resti una formidabile occasione d'incontro fra grandi artisti e di formazione per allievi che molto devono al maestro: Francesco Rosi e Franco Zeffirelli furono gli aiuto registi, Paul Bowles e Tennessee Williams firmarono la versione inglese del copione, Jean Renoir supervisionò la versione francese, Giuseppe Rotunno fu il primo cameraman, Aldo Trionfo e Giancarlo Zagni collaborarono al montaggio, Franco Fontana diresse l'orchestra dal vivo e in studio, Jean-Pierre Mocky fece l'assistente alla regia e la comparsa. La lavorazione durò nove mesi, l'appoggio dell'esercito (poi ritirato) fu essenziale per le scene di battaglia, le sequenze censurate risultano distrutte per sempre. Un Nastro d'argento alla memoria celebrò l'eccezionale fotografia (che scurisce a vista, secondo lo scorrere della vicenda) di G.R. Aldo. Con Senso il cinema di Luchino Visconti cambia per sempre, ma la sua influenza storica appare ancora assolutamente intatta.
Interpreti e personaggi: Alida Valli (contessa Livia Serpieri), Farley Granger (tenente Franz Mahler), Massimo Girotti (marchese Ussoni), Tino Bianchi (Meucci), Heinz Moog (conte Serpieri), Rina Morelli (Laura), Christian Marquand (ufficiale austriaco), Sergio Fantoni (patriota italiano), Ernst Nadherny (comandante della piazzaforte di Verona), Tonio Selwart (colonnello Kleist), Marcella Mariani (Clara), Goliarda Sapienza (una patriota), Jean-Pierre Mocky (un patriota).
"Cinema", n. 136, 25 giugno 1954 (con interventi di F.M. De Santis, F. Zeffirelli et al.
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Sceneggiatura: 'Senso' di Luchino Visconti, a cura di G.B. Cavallaro, Bologna 1954.