SEMIOLOGIA (v. semiotica, App. III, 11, p. 697)
Per "semiologia" o "semiotica" s'intende in linea generale la scienza o, meglio, la teoria dei segni, di qualunque tipo essi siano, verbale e non verbale. Questa, però, è non una vera e propria definizione scientifica, ma piuttosto la riformulazione più accessibile (di tipo dizionaristico) di qualcosa che dev'essere ancora definito e che è appunto compito della s. di definire opportunamente. Sotto questo profilo è lecito sostenere - insieme con molti semiologi o semiotici - che la s. ha assunto solo in tempi relativamente recenti una configurazione specialistica e quindi statuto di "scienza" in senso moderno. Tuttavia tale configurazione è ancora oggi tutt'altro che univoca e coerente, se guardiamo ai vari indirizzi e autori della s. moderna e contemporanea. Non si tratta soltanto di sfumature e differenziazioni interne, quali si dànno in qualsiasi ambito disciplinare, ma di diseguaglianze talvolta importanti, che decidono infine dello stesso oggetto della semiologla. Ne segue che la definizione discorsiva e informale, dizionaristica, data all'inizio, e che potrebbe essere agevolmente resa ancora più esplicita, rappresenta non soltanto un espediente espositivo, tale da collegare immediatamente la definizione scientifica all'esperienza comune, ma anche una prima e indispensabile determinazione intuitiva del campo della s., rispetto al quale sarà poi possibile dare anche definizioni scientifiche. Va detto inoltre che lo stesso nome della disciplina oscilla, spesso con qualche differenziazione di significato, tra il nome in esponente di s. - diffusosi soprattutto a partire dall'area europeo-continentale, sotto la prevalente influenza di Saussure (sémiologie) - e il termine più antico di "semiotica" - presente soprattutto in area tedesca (Semiotik) e angloamericana (semiotics) -, nonché altre varianti, oggi però in disuso. "Semiotica" è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell'ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente "semiologia".
Non solo la compattezza, ma anche la modernità della disciplina va intesa in senso restrittivo. Non si vuol dire, insistendo sulla sua modernità, che essa sia in ogni senso nuova, ma si dice semplicemente che soltanto in tempi a noi prossimi essa si è sforzata di determinare con rigore, con sistematicità, in forma propriamente scientifica (perfino con forti tendenze alla formalizzazione), il proprio oggetto e il proprio metodo; e ha assunto in ogni caso rilevanza disciplinare, terminologia specifica (anche se non ancora unificata), statuto epistemologico, teorico e applicativo, largamente autonomo (sia poi o no sempre giustificata e condivisa tale autonomia). Ma è nello stesso tempo ovvio che idee e problemi - spesso decisivi - che stanno alla base della s. hanno tradizioni e radici profonde nella storia del pensiero scientifico-filosofico, anche se entro l'orizzonte di problematiche diverse, non tutte facilmente traducibili nel linguaggio della s. moderna.
Esiste, per es., almeno una "semiotica implicita" - come affermano Ducrot e Todorov - nella cultura intellettuale dell'antica Cina e dell'India; così come esiste una s. ben più che implicita nella tradizione del pensiero greco. In particolare, soprattutto agli stoici sembra che debba essere attribuito il merito di aver delineato una vera e propria teoria semiotica, quale procedimento logico che permette d'inferire ciò che non è immediatamente osservabile da ciò che è immediatamente dato. Inoltre, una s. nasce nell'antichità anche come quadro metateorico di cui si avverte la specificabilità in diversi domini applicativi: non solo nel dominio della comunicazione verbale, insomma, ma anche in quello della comunicazione non verbale. Per altro verso, nel contesto complessivo della cultura antica e medievale, la teoria dei segni non sembra uscire in generale dall'area d'influenza della nozione fondamentale - ma anche generica e poco articolata - di "rappresentanza" in senso nomenclatorio, che ha la sua massima fonte in Aristotele. La ritroviamo del resto, quasi inalterata, in Locke per esempio (le "idee" come "segni delle cose"), e i "segni" propriamente detti come "segni delle idee") e perfino - sia pure entro un quadro teorico più complesso e più sofisticato - nei semiotici-logici moderni da Frege al primo Wittgenstein, a Tarski, a Carnap. Tale nozione è ancora indubbiamente importante anche per la s. moderna, ma essa esige e ha del resto ottenuto (almeno in parte) precisazioni essenziali, che segnano propriamente il passaggio da un generale orizzonte semiotico alla semiotica come scienza specialistica (sia pure con tutte le sue persistenti difficoltà e diseguaglianze). Proprio un semiotico moderno, Ch. Morris, ha disegnato in appendice a Signs, Language and Behavior (1946) la storia della semiotica dall'antichità a oggi - e lo ha fatto con generosità e larghezza d'interessi - senza tuttavia poter andare molto al di là delle generalità notevoli. E in verità quanto di più specifico, in senso semiotico, può essere rintracciato nel pensiero premoderno, circa la natura e la struttura di segni e immagini, va ascritto di solito ad altre discipline e problematiche, quali la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, ecc.: vale a dire, a discipline diverse, non sempre strettamente e necessariamente correlate tra loro sotto un profilo semiotico, e nelle quali lo studio del segno e delle sue funzioni si presenta spesso come accessorio e strumentale, almeno rispetto al posto che esso ha nella s. moderna e nei suoi più prossimi antecedenti. Ciò non esclude, ripetiamo, che sia possibile rintracciare, soprattutto nell'ambito degli studi retorici e grammaticali dall'antichità classica al Rinascimento e oltre, vari elementi di una dottrina dei segni, segnalati esplicitamente dagli autori (o inferibili motivatamente da trattazioni affini) e legati non esclusivamente alla considerazione dell'espressione verbale. Resta però il fatto che una vera e propria s. - come disciplina organica, sistematica e specialistica - si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del sec. 19°; e che i primi, più forti, riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. 17° e 18°, con Bacone, Hobbes, Locke, Leibniz, Lambert.
Non che Locke, sia chiaro, vada di fatto molto più in là della semiotica antica, nei pochi cenni che egli dedica alla questione; ma che s'insista nell'indicare in lui il primo che parlerebbe in modo esplicito di semiotica e lo stesso coniatore del termine, non è senza significato. Non è certo l'introduzione, come tale, di un termine o una semplice proposta di disciplina ciò che conta. Ma il fatto è che con lui, e più in generale attraverso l'ambiente intellettuale cui egli appartiene e la cultura del suo tempo, si attua un nuovo orientamento di pensiero, che si esprime nello stesso tempo in rinnovati e più forti interessi semiotici, nell'accentuazione - e talora nella scoperta - degli oggetti d'indagine che saranno propri delle future scienze umane, e addirittura in un modo nuovo di concepire le stesse scienze della natura. Questa "culturalizzazione" del campo semiotico contribuirà in modo rilevante alla nascita della s. moderna: essa permetterà di vedere sempre meglio - oltre la tradizionale convenzionalità - la più radicale "arbitrarietà" del linguaggio, che consiste non soltanto nell'arbitrarietà del rapporto tra significante e significato, ma anche e soprattutto nell'arbitrarietà di quell'analisi dell'esperienza che viene compiuta e dal significante e dal significato. Cosicché, da una parte, si pongono le premesse della messa in crisi dell'antico referenzialismo e quindi della delimitazione di un nuovo spazio epistemico per una semiotica autonoma; e, dall'altra, si può cominciare a intravedere la possibilità di una dilatazione considerevole, tecnicamente esplicitabile, delle frontiere del semiotico.
Un caso tipico in questo senso può essere rappresentato dal già citato J. H. Lambert (1728-1777). Egli, è vero, concepisce la semiotica ("dottrina della designazione dei pensieri e delle cose") come scienza della possibile istituzione di una "characteristica", cioè di una lingua strettamente scientifica nella stessa determinazione e articolazione dei suoi elementi o segni o "characteres" (Neues Organon, 1764). Con ciò, in un singolare incrocio di idee aristoteliche, lockiane e leibniziane, si trasferiscono transitivamente le proprietà dell'oggetto esperito prima al pensiero e quindi al segno (isomorfismo tra lingua e realtà, che è la forma estrema e meno sostenibile di referenzialismo). E tuttavia Lambert era consapevole, come già lo stesso Leibniz, che quella lingua ideale costituisce per i linguaggi e i sistemi di espressione esistenti solo una sorta di limite asintotico, cui ci si può approssimare attraverso una gradualità di sistemi, all'apice dei quali sta appunto il linguaggio algebrico, "il più perfetto modello della caratteristica". E qui, precisamente, al rigido modello isomorfico si associa e si contrappone nello stesso tempo quella spregiudicata dilatazione del semiotico, che l'orientamento generale del pensiero era andato via via favorendo, pur in assenza di un'adeguata strumentazione teorica. Egli analizza infatti, rilevando limiti e ipotizzando modifiche, i più diversi linguaggi comunicativi, per es. il linguaggio pentagrammatico musicale, il linguaggio coreografico, l'araldica, il linguaggio verbale e non verbale adoperato nella descrizione dei gradi di parentela. Le analisi proposte dal Lambert non sono che un esempio, ma assai significativo, di un atteggiamento assai diffuso ai suoi tempi e si rivolgono ad evidenza al complesso e vasto mondo semiotico, identificato - si direbbe - con il mondo culturale, senz'altro. Se la categoria del "precursore" fosse lecita e se non tendesse inoltre a individualizzare troppo ciò che è piuttosto una temperie culturale, si potrebbe dire che egli si configura appunto come una sorta di precursore di quella s. della comunicazione verbale e non verbale, o addirittura di quella assai più vasta s. della significazione, che è tipica dei decenni recenti e che ha per molti versi i suoi fondatori in Ch. S. Peirce e in F. de Saussure.
E tuttavia, perché una s. o semiotica scientifica si costituisca davvero o possa aspirare a costituirsi come disciplina non rapsodica, è necessario un ripensamento pieno e radicale delle sue basi teoriche gnoseologiche, tale da superare l'inadeguata teoria referenzialistica. Tale ripensamento passerà paradossalmente, alla fine del sec. 18°, attraverso I. Kant, cioè attraverso un filosofo che non ebbe mai, o quasi mai, espliciti interessi linguistici e semiotici. È da Kant e dalla più tarda epistemologia di origine kantiana - quella epistemologia che nasce, nella seconda metà del sec. 19°, e si sviluppa, poi, non soltanto dalla Kritik der reinen Vernunft, ma anche dalla Kritik der Urteilskraft, dove la nozione di "spontaneità" dell'intelletto si unisce e si specifica con la nozione di "creatività" della facoltà di giudicare, gettando le basi della "formatività" della conoscenza e della semiosi, che è concetto cardinale della moderna s. -, è di lì dunque che si affermerà una concezione semiotica innanzi tutto in sede scientifica e di teoria della scienza. Ed è di lì anche che in particolare prenderà le mosse Ch. S. Peirce (1839-1914) che a buon diritto può essere considerato il vero e proprio fondatore della semiotica moderna. Basterebbe la presenza di Peirce a dimostrare il ruolo essenziale e discriminante del pensiero di Kant nella storia dell'epistemologia e della semiotica. Ma ci sono, oltre a ciò, una quantità di ragioni - e di testimonianze fattuali - assai forti che non consentono di nutrire dubbi su questo punto: da una parte, per es., l'esplicita congiunzione tra neokantismo e linguistica strutturale in E. Cassirer e, dall'altra, la significativa "riscoperta" dell'istanza dell'apriori (con riferimento prima a Descartes e poi allo stesso Kant) da parte di Chomsky e degli studiosi che ne dipendono. Ma più in generale si deve dire che tutta la linguistica e la semiotica del Novecento - quella di maggior peso e di più rilevante valenza teorica - è percorsa da cima a fondo dal fondamentale principio kantiano: del risalire dal "condizionato" alla "condizione" che lo rende possibile (e che prenderà il nome di langue, "sistema", "struttura" e si specificherà entro questo quadro teorico). Che la linguistica moderna, e segnatamente quella generativa, si configuri come una disciplina fondata trascendentalmente è ormai una convinzione diffusa nella letteratura specialistica tedesca dell'ultimo decennio. Ma ciò non significa neppure una semplice accentuazione della ripresa kantiana o addirittura una sollecitazione del pensiero kantiano originario: lo stesso Kant, per la verità, paragonava nei Prolegomena il compito della linguistica al compito della filosofia trascendentale, dimostrando così che i suoi interessi linguistici e semiotici erano semplicemente impliciti, non inesistenti. Kant era interessato piuttosto, e giustamente, alla fondazione di una teoria della conoscenza, della significazione e della comunicazione, che traesse alla luce esigenze già diffuse ma non adeguatamente esplicitate. Soltanto da una fondazione del genere poteva nascere anche una nuova semiotica.
Il referenzialismo viene così non abbandonato, almeno nelle sue istanze ineliminabili, che fanno parte dell'ordine delle ovvietà, ma profondamente riformato. Una delle definizioni più note che Ch. S. Peirce dà di segno è la seguente: esso è "qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos'altro sotto certi aspetti o capacità". Già qui la funzione di rappresentanza del segno non è evidentemente intesa in senso referenzialistico stretto: che esso rappresenti "qualcos'altro" solo "sotto certi aspetti o capacità" mette in evidenza il carattere formativo del segno, il suo analizzare e ripresentare l'oggetto in qualche misura arbitrariamente, in modo non semplicemente speculare e a un diverso livello organizzativo. La definizione può trarre in inganno in senso referenzialistico solo se non si tiene conto del modello semiotico peirciano in cui essa s'include. Tale modello è organizzato - schematicamente - nella interrelazione di tre entità-funzioni caratteristiche: il "segno", il suo "oggetto" e il suo "interpretante". Il senso delle prime due nozioni è, almeno in primissima approssimazione, fin troppo chiaramente intuibile: esse apparentemente ricalcano soltanto il vecchio concetto di rappresentanza, come "qualcosa che sta per qualche altra cosa"; ma il terzo termine non soltanto aggiunge una precisazione importante allo schema referenzialistico, ma lo trasforma del tutto. Come appare dalla seguente, più completa, definizione: "Un segno, o rappresentante, è un Primo la cui relazione con un Secondo (il suo oggetto) è una relazione triadica genuina, tale da determinare un Terzo (il suo interpretante) ad assumere la stessa relazione triadica con l'oggetto con cui quel segno ha relazione". Questo vuol dire - com'è stato scritto - che "in una corretta descrizione del nesso semiotico nessuno dei tre termini - nemmeno l'oggetto - può essere definito indipendentemente dalle sue relazioni con gli altri due" (N. Salanitro). È chiaro allora che l'oggetto del segno non è più, senz'altro, la "cosa", l'oggetto reale osservabile, ma ciò che della cosa viene determinato all'interno della relazione semiotica; ed è quindi piuttosto un oggetto semiotico (Peirce lo chiama "oggetto immediato"), come tale appartenente di diritto alla sfera di una considerazione semiotica.
Ciò non vuol dire naturalmente che l'oggetto reale, extrasemiotico, non esista. Peirce distingue nettamente dall'oggetto - in quanto Secondo di una relazione semiotica - ciò che egli chiama "oggetto dinamico" - cioè l'oggetto reale che esiste indipendentemente dai segni. L'oggetto dinamico sembra essere qualcosa di molto simile a ciò che, più o meno contemporaneamente, Frege individuava come denotatum, ma con ascendenze - da parte di Peirce - più fortemente ed evidentemente kantiane; simile, cioè, a un oggetto trascendentale che dobbiamo necessariamente postulare e del quale tuttavia non ha propriamente senso voler sapere qualcosa, dal momento che esso è piuttosto una condizione del "voler sapere qualcosa". Il significato di un segno (il Sinn di Frege in quanto contrapposto alla Bedeutung) non è più la "cosa" cui il segno si riferisce, in quanto il segno non è di essa una replica o un doppio; ed è piuttosto - semplificando un poco la complessa e interagente problematica di Peirce - l'interpretante del segno, essendo l'interpretante tale da funzionare a sua volta come segno e da richiedere in linea di principio un ulteriore interpretante. Si deve aggiungere infatti - per intendere correttamente questa identificazione di significato con interpretante - che allo stesso modo il cosiddetto oggetto immediato è anch'esso segno e interpretante, nel senso che non è dato immediatamente e prima di ogni nesso semiotico e che è piuttosto il frutto di una qualche esperienza già formata. In altre parole, pur senza andare a parare in concezioni di tipo idealistico, dobbiamo rinunciare a ogni speranza (ma si tratterebbe, si badi, di una speranza non solo infondata, ma anche sbagliata e priva di significato) di ancorare segni e significati, al modo di una nomenclatura, a una realtà extrasemiotica già tutta data e nello stesso tempo, contraddittoriamente, già tutta discretizzata, analizzata, ordinata, classificata.
Insistiamo sul fatto che l'affermarsi di un nuovo orientamento formativo e antireferenzialistico non ha niente a che fare con ciò che si ritiene essere, in senso negativo, "idealismo"; e che nello stesso tempo molto di ciò che passa per idealismo volgare dev'essere sdrammatizzato e ricondotto anche a certe esigenze di base epistemologicamente ineccepibili. Senza dubbio si può dire che idee antireferenzialistiche si erano già diffuse nel passato, per es. con la cosiddetta filosofia classica tedesca, e in particolare con Hegel, e che tutto ciò era per un certo verso idealismo e per altro verso esprimeva anche l'esigenza di analizzare e descrivere il processo formativo dell'esperienza. Senza dubbio idee analoghe risorgeranno anche più tardi, talvolta anche in forma non del tutto adeguata, per es. proprio in quanto si tenderà a privilegiare il riferimento a Hegel; e, più che inadeguata, si direbbe: "speculativa"; il che non esclude affatto una migliore riformulazione in termini di teoria scientifica. Le idee di un Cassirer, per es., sono in fin dei conti le medesime idee innovative e tutt'altro che metafisiche che si affermano con Saussure, con Hjelmslev, con il cosiddetto secondo Wittgenstein, e diventeranno patrimonio consolidato dell'epistemologia semiotica contemporanea. Così - per riprendere il modo di esprimersi del Cassirer della Philosophie der symbolischen Formen (1923-1929), cioè di un autore che si proclama idealista e lo è nel senso migliore della parola - il linguaggio rappresenta un livello originale di elaborazione dell'esperienza, qualcosa di "nuovo" (forme, categorie, principi organizzativi) rispetto a livelli inferiori cui quello non può essere ridotto, per es. rispetto al cosiddetto livello "espressivo". Il linguaggio non è insomma nomenclatura, è mediazione - che è un modo diverso per esprimere la medesima nozione di relazione triadica. Anzi, è mediazione ogni forma di attività spirituale (Cassirer) o di semiosi (Peirce). In realtà, già la semplice indicazione di uno o più oggetti - rimanendo ovviamente ben ferma la realtà di tali oggetti in quanto oggetti empirici - costituisce un momento della costruzione del mondo intellettuale delle "cose" o una loro semiotizzazione. Ma, se il processo semiotico non parte mai dall'immediato come tale, ma da una relazione semiotica, se cioè il suo "partire" è già un "esser partito", esso d'altra parte non arriva mai, propriamente, a una semiotizzazione completa, a un'esplicitazione totale del significato del mondo, insomma a una sorta d'interpretante ultimo e definitivo. La semiosi, secondo Peirce, procede necessariamente (almeno sotto un profilo ideale e definitorio) all'infinito: la semiosi è "semiosi illimitata".
Peirce, com'è noto, ebbe a suo tempo risonanza quasi insignificante rispetto all'importanza del suo lavoro teorico. Gran parte delle sue opere rimasero addirittura inedite e furono pubblicate solo dopo la sua morte nei Collected Papers (1931-35): e ancora oggi i suoi scritti richiedono un imponente lavoro d'indagine critica e addirittura filologica. La ragione di questo suo destino non può essere individuata in modo semplice e univoco: sconcertante dovette essere sicuramente la straordinaria novità e varietà dei suoi interessi, la densità del suo pensiero e, ancora di più, la difficoltà "oltraggiosa", com'è stato detto, della sua scrittura (C. M. Smith). Ma, probabilmente, una ragione ancora più significativa va ricercata nella sua fisionomia di outsider, nel modo d'impostare le questioni di semiotica, di logica e di filosofia generale, rispetto allo standard del pensiero americano. Già è stato notato che l'idea corrente di "pragmatismo", che viene spesso attribuita a Peirce, non è che una semplificazione o ipersemplificazione (se non addirittura un fraintendimento) di Peirce ad opera di W. James (U. Eco). Di fatto egli è stato più volte inteso almeno in senso riduttivo, a cominciare dallo stesso Ch. Morris, vale a dire da uno dei più noti e significativi studiosi di semiotica del nostro tempo. Noteremo soltanto questo: che mentre, in Morris, la relazione semiotica da triadica diviene relazione a cinque termini ("segno", "interprete", "interpretante", "significazione", "contesto"), si perde nello stesso tempo il senso fondamentale della definizione peirciana (Signification and Significance, 1964). La moltiplicazione dei termini denuncia semplicemente una maggiore attenzione alle varie condizioni fattuali che intervengono in un processo semiotico e di cui peraltro lo stesso Peirce era ben consapevole; ma, d'altra parte, l'oggetto diviene di nuovo la significazione (signification) e il segno qualcosa che provoca nell'interprete la disposizione a reagire in un certo modo a un certo tipo di oggetto-significato. Sebbene, e giustamente, Morris affermi che l'oggetto, in un processo semiotico, non funziona come stimolo, sembra tuttavia evidente che il modello è qui proprio quello dello stimolo-risposta, ampliato e distanziato dalla mediazione del sogno. Cioè, alla base di questa relazione a cinque termini c'è piuttosto una relazione diadica che non triadica e in essa sembra riemergere proprio il classico referenzialismo, semplicemente riformulato in senso comportamentistico. Va da sé che il contributo di Morris non è neppure sfiorato in queste poche considerazioni generali (si ricordi in particolare lo stretto legame tra la semiotica di Morris e la semantica logica di Carnap), che tuttavia sembrano decisive.
Anche per le ricordate ragioni d'ordine fattuale, tuttavia, l'orizzonte metodologico, gli assunti teorico-sistematici, la strumentazione terminologica, lo stesso oggetto e i fini della s. di questo secolo vengono soprattutto influenzati, e addirittura determinati, dalla nuova linguistica strutturale, che ha il suo fondamentale momento innovativo nel pensiero del ginevrino F. de Saussure (1857-1913), ricostruito dagli appunti dei suoi corsi universitari nel volume postumo Cours de linguistique générale (1916). Gl'interessi dominanti di Saussure sono linguistici, e in particolare di teoria del linguaggio, ma egli intravide chiaramente anche la possibilità di una più generale scienza dei segni, che chiamò appunto s.: "La lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee e, pertanto, è confrontabile con la scrittura, l'alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, le forme di cortesia, i segnali militari, ecc. ecc. Essa è semplicemente il più importante di tali sistemi. Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiameremo semiologia (dal greco σημεῖον, "segno"). Essa potrebbe dirci in che consistono i segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora non possiamo dire che cosa sarà; essa ha tuttavia diritto a esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo una parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla linguistica e questa si troverà collegata a un dominio ben definito nell'insieme dei fatti umani". Ma la stessa teoria linguistica di Saussure è così generale da prefigurare già i lineamenti teorici, o almeno certi suoi presupposti fondamentali, della futura semiologia. Lo afferma egli stesso quando, essendosi domandato perché la s. non sia stata ancora riconosciuta come scienza autonoma, risponde: "Il fatto è che ci si aggira in un circolo: da una parte niente è più adatto della lingua a far capire la natura del problema semiologico; ma, per porlo in modo conveniente, bisognerebbe studiare la lingua in sé stessa; senonché, fino a ora, la si è esaminata quasi sempre in funzione di qualche altra cosa, sotto altri punti di vista". Non è quindi casuale che proprio dalla nuova linguistica, e nonostante che Saussure non si sia mai occupato sistematicamente di s., siano provenuti in tal senso gl'impulsi determinanti: è proprio dall'idea saussuriana di lingua che può nascere l'idea più generale di sistema semiotico. Nel passo citato, Saussure allude infatti a studi di tipo fisiologico, psicologico o sociologico, come studi che si occupano di "qualche altra cosa, sotto altri punti di vista", ma anche - e in primissimo piano - alla considerazione referenzialistica del linguaggio, in quanto questo rinvierebbe a qualcosa di già costituito e analizzato: il linguaggio come "nomenclatura", appunto. Ora, in questa prospettiva, si pone una serie di idee fondamentali e interconnesse, che saranno alla base non soltanto della linguistica e della s. del nostro secolo, ma addirittura - in ambienti filosofico-culturali che lo favorivano - di quel metodo o quei metodi d'indagine che vanno sotto il nome di "strutturalismo". L'idea di lingua come "sistema" (come "struttura", diranno poco dopo i linguisti del Circolo di Praga) è una di queste, e ad essa si legano l'opposizione sincronia/diacronia, l'idea di lingua come "forma", l'idea di segno come "entità psichica a due facce" e infine l'idea, nuova, di "arbitrarietà". Proprio una considerazione sincronica, in rapporto di opposizione (ma non di esclusione) con una considerazione diacronica o evolutiva, permette di studiare la lingua come sistema di dipendenze interne; tale considerazione sarà formale, nel senso che il suo oggetto sarà la langue come sistema di dipendenze, e solo a questo patto potremo parlare propriamente di un "oggetto" definito della linguistica e non più semplicemente di una "materia", in quanto oggetto materiale che può essere studiato da più punti di vista eterogenei. Entro questo quadro, il segno come "entità a due facce", cioè come unione di significante e significato, si profila come una vera e propria condizione della significazione e in quanto è organizzato essenzialmente in un sistema di differenze. Significante e significato non sono semplicemente immotivati (secondo l'idea antica di convenzionalità), ma sono anche arbitrari per sé stessi, e come significante e come significato, nel senso che essi analizzano arbitrariamente e rispettivamente, in quanto forma, la sostanza del significante (per es. la sostanza fonica) e la sostanza del significato (la sostanza concettuale, le idee o, in generale, l'esperienza): due analisi implicite - possibili alla luce di una concezione formativa e non più referenzialistica - che possono peraltro sussistere solo nella loro unione, nel segno e nel sistema di segni, e proprio perché si tratta di analisi e di correlazione di analisi e non più di pura e semplice rappresentanza.
L'importante influenza di Saussure è stata poi rafforzata in modo decisivo, e non soltanto in area europea, dall'apporto di L. Hjelmslev (1899-1965), il linguista danese che è stato considerato con ragione come il continuatore e il sistematizzatore più rigoroso dell'indirizzo saussuriano (De Mauro). Sono caratteristici di Hjelmslev una forte tendenza verso una fondazione puramente formale (assiomatica o ipotetico-deduttiva) della teoria del linguaggio e verso una formalizzazione, forse più auspicata che realizzata, della linguistica; e, in secondo luogo, lo sforzo di costruire una metateoria molto potente, tale da dar luogo a una teoria semiotica molto generale. Tutto ciò ha contribuito a mettere in evidenza la stretta connessione tra s. e linguistica ed è servito di fatto come base - teorica e terminologica - per gran parte delle teorie semiotiche recenti. Siano stati o no completamente raggiunti gli obiettivi che si poneva Hjelmslev, resta il fatto che con lui si attua una generalizzazione interessante e produttiva del pensiero di Saussure. Si precisa anzitutto l'assetto antireferenzialistico e formativo della nuova linguistica strutturale. Entra in crisi la stessa nozione di segno (che rimane come termine operativo e particolare) e si afferma in suo luogo quella di "funzione segnica". Se infatti il segno richiedeva, secondo la concezione classica ("popolare", dice Hjelmslev), di essere "segno di qualche altra cosa" e si poneva quindi come funzione esterna, la funzione segnica viene invece essenzialmente concepita come funzione interna tra (nella terminologia di Saussure) significante e significato o (nella nuova terminologia) tra espressione e contenuto. Due nozioni che non si richiamano più, intuitivamente, a ciò che è il significante sostanziale (per es. suono linguisticamente organizzato) o ciò che è il significato sostanziale (pensiero linguisticamente formato) della concreta esperienza del linguaggio verbale, e che non rappresentano tuttavia semplicemente dei termini semanticamente più neutri. Si tratta in realtà di nozioni più generali, suscettibili di essere variamente specificate, in senso linguistico e anche in senso (materialmente o intuitivamente) non linguistico: il che li rende appunto più disponibili per una utilizzazione semiotica, non più legata al modello intuitivo del linguaggio verbale. Essi vengono identificati dalla teoria solo nella loro opposizione e relazione reciproca, formale e non sostanziale, come due gerarchie - non in rapporto biunivoco tra loro - di classi e classi di classi. La correlazione delle due gerarchie fornisce in definitiva, ai vari livelli, le condizioni formali della significazione e della comunicazione, cioè - nel linguaggio hjelmsleviano - le distinzioni e unità formali che possono essere coordinate a qualcosa di materiale (a una "materia"), che esse informano e, per così dire, trasformano in "sostanza". I concetti fondamentali di Saussure vengono così precisati e sistematizzati: si parla di forma, di sostanza e, anche, di materia come - rispettivamente - organizzazione formale del linguaggio (o, meglio ancora, come organizzazione formale di entità in generale, non specificate, di cui importa la relazione sistematica, non la natura), come linguaggio o semiosi (che però non è termine hjelmsleviano) osservabile, come ciò che di extrasemiotico dev'essere necessariamente supposto da ciò che è sostanzialmente semiotico. (Questa supposizione è ineliminabile non soltanto da un punto di vista teorico generale, come la "denotazione" di Frege, l'"oggetto dinamico" di Peirce o infine lo stesso "referente", ma anche da un punto di vista operativo e applicativo: la materia permette infatti di giustificare l'equivalenza materiale - per es. nell'ordine del senso - tra due testi diversi sotto il profilo sostanziale, in quanto organizzati da forme diverse - per es. due testi rispettivamente inglese e italiano -, e che siano l'uno la traduzione dell'altro). In Hjelmslev, tuttavia, ciò che è materia da un certo punto di vista, per es. linguistico, può essere considerato sostanza e, quindi, anche forma da altri punti di vista, nel nostro caso non linguistici. Si pone qui, in altre parole, il problema dei vari livelli della sostanza, che Hjelmslev articola - nell'ambito di un progetto generale di ricerca - nei tre livelli delle "valutazioni collettive" (la cosiddetta "sostanza semiotica immediata"), socio-biologico e fisico. La teoria (che ha il suo testo fondamentale negli Omkring sprogteoriens grundlaeggelse, 1943 - trad. ingl. autorizzata e rivista dall'autore: Prolegomena to a Theory of Language, 1953 - e il suo svolgimento più significativo in La stratification du langage, 1947) lega insieme, quindi, non soltanto linguaggio e non-linguaggio, in quanto essi cadano sotto la medesima definizione formale di "sistema semiotico", ma anche, e in vari sensi, il semiotico e il non-semiotico, secondo una prospettiva semiotico-centrica totalizzante.
La moderna s. reca con sé fin dall'inizio, si è visto, una forte tendenza verso una sempre maggiore generalizzazione; essa si è andata sempre confermando - pur tra controversie - nella costituzione di molte semiotiche particolari nel non-verbale: la prossemica (che si occupa del "linguaggio" degli spazi e delle distanze), la cinetica (che studia in sostanza il cosiddetto "linguaggio" del corpo), e perfino la zoosemiotica (che si occupa della comunicazione animale in generale), per non parlare delle tante semiotiche che studiano l'organizzazione di messaggi verbali più complessi (come nel caso del linguaggio letterario o mitico) o di messaggi in cui non è neppure presente una componente verbale (come nel caso dei cosiddetti linguaggi artistici). Non si tratta però semplicemente di una scelta arbitraria da parte dei semiotici: il fatto è che nel suo dispositivo di base, quale si manifesta negli autori fin qui citati, è in gioco non il linguaggio come tale o l'idea di comunicazione, ma piuttosto - più in generale - la possibilità di significare, vale a dire il problema della significazione, cioè di qualcosa che sembra essere necessariamente connesso con tutti i fatti culturali, quali che siano. La s. tende quindi a occupare virtualmente l'intera area delle cosiddette scienze umane proprio in quanto s. della significazione. Sta il fatto che, da una parte, la presupposizione che la s. possa costituirsi solo come estensione della linguistica provoca, com'è stato detto, una discussione tra "annessionisti" e "anti-annessionisti" (A. Martinet), cioè il problema stesso dei limiti disciplinari della s.; e che, d'altra parte, la supposizione che la s. si costituisca come scienza della comunicazione impone ad essa automaticamente dei limiti. Vale la pena di ricordare qui che - nonostante l'universalismo tendenziale della maggior parte degli studi semiologici contemporanei - la nozione di comunicazione ha svolto un ruolo non insignificante nella s. degli ultimi cinquant'anni, anche nel senso di una restrizione teorica del suo oggetto (E. Buyssens). Ricordiamo per es. l'idea di "intenzionalità" (e "finalità") - con influenze documentate da parte della fenomenologia husserliana - che sostenne le teorie dei linguisti e semiologi della scuola di Praga, almeno fin dalle note Thèses del 1929, con le quali si aprirono gl'importanti Travaux du Cercle linguistique de Prague e alle quali collaborarono tra gli altri J. Mukařovský e R. Jakobson. Un fondamentale intenzionalismo permane anche nei lavori recenti di Jakobson, sia pure in forma più complessa e articolata, perfino nella tripartizione gerarchica delle scienze della comunicazione, che pure approda a qualcosa che sembra essere abbastanza prossimo all'universalismo della s. della significazione. Jakobson distingue infatti tre scienze che "s'inglobano l'una nell'altra e rappresentano tre gradi di generalizzazione crescente: 1) lo studio della comunicazione dei messaggi verbali, o linguistica; 2) lo studio della comunicazione di messaggi qualsiasi, o semiotica (ivi compresa la comunicazione dei messaggi verbali); 3) lo studio della comunicazione, o antropologia sociale ed economica (ivi compresa la comunicazione di messaggi)." (Relations entre la science du language et les autres sciences, 1974). È da notare tuttavia che - in forza del ruolo specifico assegnato al linguaggio verbale e, forse, anche in funzione dell'intenzionalismo di base - Jakobson mette in guardia lo studioso dall'operare "un'estensione puramente metaforica del termine 'linguaggio'". La classificazione, almeno fino a un certo punto, rappresenta soltanto un'organizzazione esterna delle varie discipline in gioco: non è che, eliminando via via tratti pertinenti, si possa passare senz'altro dalla linguistica alla semiotica, all'antropologia sociale ed economica, poiché ciascuna di queste discipline ha qualcosa di specifico che rende plausibile non tanto una gerarchizzazione classificatoria quanto una correlazione, con interrelazioni e scambi di funzioni. Con l'affermarsi di una s. della significazione - via via, cioè, che ci si rende conto, per questo verso giustamente, della materialità e inadeguatezza della nozione di comunicazione - quello schema disciplinare tende invece a proporsi come una classificazione rigorosa, tale da realizzare non solo un traliccio descrittivo per la collocazione delle discipline semiologiche, ma la stessa definizione di s. nella sua generalità e nelle sue interne specificazioni. Su questa base, L. Prieto ha distinto linguistica, s. della comunicazione e s. della significazione, che s'includono l'una nell'altra secondo la crescente generalità dei rispettivi oggetti: così, "la semiologia della comunicazione studierebbe tutti i fatti studiati dalla linguistica - cioè i segnali linguistici - nonché i segnali non linguistici, che questa disciplina non studia; la semiologia della significazione studierebbe tutti i segnali, cioè i fatti studiati dalla semiologia della comunicazione, nonché gl'indici convenzionali che non siano segnali, e che perciò non sono studiati da questa disciplina" (Études de linguistique et de sémiologie générales, 1975). Rimane, dunque il criterio distintivo dell'intenzionalità (s. della comunicazione/s. della significazione), accanto a un criterio puramente formale (linguistica/s.), ma solo per individuare, nel quadro di una s. totalizzante, una specificazione della più generale s. della significazione, che di quel criterio non tiene conto. Ora, la s. di Prieto è così totalizzante da occuparsi anche degli "atti strumentali", cioè delle operazioni pratiche in senso stretto.
Non è facile, a tutt'oggi, valutare esattamente tale vocazione universalistica della s. e le sue effettive realizzazioni teoriche e applicative: percepita di solito come segno di vitalità e produttività, non è tuttavia escluso che essa presenti, come da più parti si va sostenendo, gravi difficoltà di fondo. In realtà, sembra che si sia andata soprattutto imponendo, più che una s. come disciplina specifica, una metodologia strutturale (com'è apparso evidente, per es., nel caso di Lévi-Strauss e dell'antropologia strutturale), volta a determinare, nel senso di Hjelmslev o forse in senso ancora più generale, il sistema di dipendenze interne cui è o sarebbe riferibile qualsiasi insieme organizzato di fenomeni culturali. Tale metodologia si è generalmente specificata come applicazione sistematica della logica delle classi. Ma è appunto lecito domandarsi - com'è accaduto a Chomsky nei riguardi della linguistica strutturale, soprattutto americana - se un metodo classificatorio, sempre utile per l'approntamento e il controllo inventariale dei materiali d'indagine, sia anche sempre esplicativo, oltre che descrittivo, e se esso riesca a delimitare davvero una qualsiasi disciplina specifica. In realtà, un metodo classificatorio sembra essere sommamente aspecifico. Esso permette, per es., che si parli pacificamente di zoosemiotica, disinteressandosi della questione se esista o no una comunicazione animale analizzabile con gli stessi metodi con cui analizziamo la comunicazione umana. Cioè, non dice nulla sullo statuto di tale presunta comunicazione animale - sulla cui consistenza semiotica gli studiosi sembrano ancora divisi, in senso positivo (De Mauro) e negativo (Eco) - e sul suo modo specifico di funzionare, se per es. essa funzioni al modo di una vera e propria semiosi, in quanto questa suppone una dimensione metasemiotica, oppure secondo il modello stimolo-risposta. Ma, infine, un metodo classificatorio permette in generale analisi di qualsiasi fenomeno, culturale o no, etologico o semplicemente fisico; il che equivale a dire che esso non permette l'identificazione di alcuna disciplina specifica, semiotica o non semiotica, con un suo definito oggetto d'indagine e volta a darne non soltanto una descrizione, ma anche e soprattutto una spiegazione, cioè a individuarne la specifica legalità.
Va notato anche che alla generalizzazione della s. ha contribuito, indirettamente e quasi involontariamente, la teoria dell'informazione, nata alla fine degli anni Quaranta e sviluppatasi notevolmente nel decennio successivo (Wiener, Shannon). Ma la teoria dell'informazione non si occupa affatto della significazione come tale, né dell'"informazione" nel senso corrente, ma piuttosto delle possibilità combinatorie delle unità di sistemi astratti, delle loro restrizioni (in relazione al fenomeno del rumore e della ridondanza), delle loro relazioni con la capacità e la velocità di trasmissione di "canali", sotto il profilo matematico-quantitativo. Certamente, essa studia tutto ciò anche e soprattutto in vista dell'applicazione dei suoi risultati alla comunicazione effettiva di messaggi semanticamente determinati, ma non è questo il suo scopo teorico costitutivo: essa si occupa, da questo punto di vista, di sistemi di unità distintive quali che siano e non di codici in senso proprio, in quanto definibili come correlazione di due sistemi, di cui l'uno funga da sistema dell'espressione e l'altro da sistema del contenuto. La distinzione tra codice e sistema - propria dei semiotici più avvertiti, lo stesso Prieto, De Mauro, ecc., ed espressamente ribadita in un contesto analogo da Eco - contribuisce senza dubbio, o dovrebbe contribuire, a segnare le differenze specifiche tra s. e teoria dell'informazione, e quindi, in particolare, a porre limiti più severi alla prima. È infatti possibile domandarsi se, studiando i fenomeni culturali e la loro organizzazione, non accade d'incontrare - più spesso di quel che immagini la s. della significazione nelle sue tendenze "imperialistiche" - sistemi piuttosto che codici, essendo per es. tali sistemi (o condizioni organizzanti dell'esperienza e del comportamento) assai più stabili delle correlazioni che essi possono contrarre con altri sistemi, per es. sistemi di significazioni, che risulterebbero in questo caso relazionalmente avventizi. Ciò non toglie che qualsiasi fenomeno culturale possa essere funzionalizzato a qualcosa d'altro, cioè semiotizzato; ma, in questo caso, rimarrebbe il fatto che il suo statuto originario non può essere considerato di tipo semiotico. E c'è di più: è anche lecito domandarsi se siano in ogni caso necessariamente costruibili, al di fuori dell'ambito dei codici, sistemi in senso stretto, e non anche quasi-sistemi, semplici inventari di unità distintive o di semplici procedimenti, insiemi di variazioni che hanno bensì dei limiti (e in questo senso sono alcunché di determinato), ma non sono tuttavia discretizzabili in senso proprio. Potrebbe essere il caso, per es., di quella produzione culturale che è la pittura, nei cui riguardi la s. sembra finora non operante, o dello stesso "linguaggio" gestuale, nella misura in cui esso si sottragga a una stretta semiotizzazione (gesti di assenso, di diniego, ecc.) e perfino a una discretizzazione e sistematizzazione.
La significazione costituisce senza dubbio la base adeguata su cui è costruibile una s.; ma il punto fondamentale, al di qua di un approccio soltanto formale, è di appurare in primo luogo che cosa intendiamo per "significazione". Sembra, per la verità, che di essa non possa essere fornita un'esibizione attendibile al di fuori di una riformulazione verbale - sia o no la significazione in esame il risultato di un'esplicita convenzione linguistica (come nel caso del codice della segnaletica stradale o del codice morse) o piuttosto il risultato di un processo indipendente dalla significazione verbale e da convenzioni linguistiche. Dobbiamo poter riformulare verbalmente ciò che designiamo come "semiotico", se non vogliamo usare la parola "semiotico" in modo del tutto indeterminato, favorendo con ciò un metodo d'indagine puramente classificatorio e, quindi, descrittivo e non esplicativo. Ma, se l'ipotesi è corretta, essa sviluppa inevitabilmente una tendenza opposta a quella che abbiamo designato come vocazione universalistica della s.: essa costringe a indicare più esplicitamente i suoi limiti, a riscoprire più adeguatamente il dominio dell'extrasemiotico e, nello stesso tempo, a riproporre in modo più adeguato il problema del referente. Tale tendenza di segno contrario non avrebbe tuttavia soltanto una funzione limitativa: essa permetterebbe probabilmente di distinguere nel dominio della significazione livelli e momenti diversi (che qui, a titolo di esemplificazione terminologica, potrebbero essere indicati come "significato", "simbolo", "senso"), vale a dire di cogliere il campo semiotico non come qualcosa di unitario e indistinto e i concreti fenomeni che diciamo semiotici non come un flusso continuo, senza lacune e salti. Proprio una s. generale tende a configurare le lingue come codici onnipotenti e, nello stesso tempo, come qualcosa che si colloca sulla medesima linea evolutiva e strutturale dei codici a potenza finita, compresi gli stessi codici zoosemiotici: in questo senso si è potuto affermare, per un verso, che non esistono condizioni definitorie che siano specifiche del linguaggio verbale, questo essendo reso possibile dal concorso di un insieme di condizioni semiotiche non specifiche del linguaggio; e, per altro verso, si è creduto di poter asserire che anche nei primati non umani, addestrati a un particolare linguaggio realizzato mediante gettoni colorati, è presente una dimensione metalinguistica (D. Premack). La questione è ancora aperta, naturalmente; ma non è impossibile supporre, sulla base di considerazioni diverse, che il linguaggio umano - in quanto rinvia a un codice onnipotente - funzioni in modo specificamente diverso dai vari sistemi comunicativi zoosemiotici, per es. proprio in funzione delle sue capacità metalinguistiche o, più in generale, metasemiotiche (Chomsky, Lenneberg). Così, il campo semiotico potrebbe presentarsi come un campo internamente articolato in lingue (codici sui generis, in quanto non convenzionali e non finiti), in codici veri e propri (in quanto istituiti convenzionalmente a partire da una lingua) e quasi-codici o pseudo-codici, cioè come correlazioni estremamente variabili, fortemente situazionali e solo in parte istituzionalizzabili tra l'extrasemiotico (per es. l'operazione, le attività pratiche) e l'orizzonte linguistico in cui è collocato e che promuove in esso, direttamente o indirettamente, con o senza parziali istituzionalizzazioni e semiotizzazioni locali, l'insorgere di diffuse valenze simboliche. Tutto ciò non è, per il momento, che un'ipotesi: ma nel problema che essa sottende sembra essere in gioco attualmente il destino scientifico della s., lo statuto della teoria e l'esatta delimitazione (nonché il ridimensionamento) di molti suoi particolari settori di ricerca, da quello relativo al linguaggio gestuale a quello relativo ai cosiddetti linguaggi artistici e letterari.
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