Semantica
(XXXI, p. 334; App. III, ii, p. 692; IV, iii, p. 298)
Ciò che caratterizza gli studi di s. negli ultimi decenni del 20° secolo è la convergenza di due filoni di ricerca precedentemente separati, quello di carattere propriamente linguistico, e quello di area filosofica, e più specificamente logica. L'importanza di questo ravvicinamento, che si manifesta nella ricerca più avanzata, viene riconosciuta nelle migliori trattazioni contemporanee, ma non emerge ancora chiaramente dalle presentazioni nelle enciclopedie. Nell'ambito dell'Enciclopedia Italiana la s. logica viene trattata in una brevissima voce separata nell'App. III (ii, p. 692), ma resta quasi esclusa dalle due voci più ampie dell'Enciclopedia e dell'App. IV dedicate alla s. linguistica. In una prospettiva di fine secolo, e nel contesto di un ripensamento che consenta di superare la frattura fra le due culture, quella "scientifica" e quella "umanistica", la s. offre un campo di riflessione particolarmente fecondo. Essa ci lancia una sfida - che allo stato attuale delle ricerche non può ancora essere pienamente accolta - a ripercorrere, da un punto di vista unitario invece che separatista, la storia delle riflessioni dei logici oltre che dei linguisti, tenendo conto che i problemi affrontati dai due gruppi, con mezzi e metodi diversi, sono di fatto gli stessi.
È utile ricordare preliminarmente alcune convenzioni, di notazione e di terminologia, che hanno peraltro inevitabili risvolti concettuali e che introducono così nel vivo delle questioni che verranno esaminate. Ricorrendo alla distinzione corrente fra il segno e gli elementi che lo compongono, significante e significato, si useranno le virgolette alte singole per il segno, il corsivo per il significante, e le virgolette alte doppie per il significato. Per segnalare usi tecnici o semitecnici di un'espressione, o per richiamare l'attenzione su di essa, si useranno le virgolette basse (o guillemets). Queste servono anche per le citazioni, e il corsivo per le parole straniere. Si dirà dunque che la parola 'cane' ha come significante cane, e come significato "cane".
La posizione degli studi di s. all'interno della ricerca linguistica ha qualcosa di paradossale. Da un lato l'aspetto semantico è sempre stato centrale per qualsiasi lavoro linguistico: esaminare la storia, il valore, l'uso di un'espressione ha sempre coinvolto la considerazione, almeno implicita, del suo significato. Analizzare un testo, filologicamente e linguisticamente, presuppone che si sappia (o che si possa appurare) che cosa il testo vuol dire. La s. è, da questo punto di vista, onnipresente. Essa costituisce anche il ponte fra la linguistica e la filosofia: studiare il contributo che grandi pensatori (da Platone e Aristotele ad Agostino, Locke, Leibniz) hanno dato alla linguistica vuol dire lavorare sulla storia della semantica. D'altro lato, nella storia della linguistica vera e propria, la s. sembra occupare un posto marginale ed eccentrico, proprio perché essa si è sempre sottratta a quel trattamento sistematico e rigoroso a cui si prestavano altri aspetti della disciplina. Nei libri dedicati alla storia della s., l'indice ci fa scorrere davanti agli occhi una serie di studiosi minori e minimi la cui opera pare aver lasciato poche tracce. Al nome stesso della disciplina si attribuisce una recente origine ottocentesca: in tedesco Semasiologie (K. Reisig), in francese sémantique (M. Bréal), in inglese sematology (B.H. Smart). Si incontrano, certamente, dei nomi di grandi studiosi che si sono occupati di s.: basti citare, oltre a Bréal, A. Darmesteter e A. Meillet. Ma l'interesse sembra rivolgersi piuttosto al lessico, e allo sviluppo storico: "comment les mots changent de sens", per usare una formula celebre e diffusa. Alla semasiologia, che studia come le parole cambiano significato, si affianca l'onomasiologia, che parte dalle nozioni per appurare da quali parole esse vengano espresse. Gli studi che si caratterizzano come "semantici" possono presentare un alto livello di raffinatezza filologica e letteraria, come per es. nei saggi di L.Spitzer, o in quelli, idiosincraticamente chiamati di "critica semantica", di A. Pagliaro, ma sarebbe difficile sostenere che essi facciano progredire le nostre conoscenze riguardo alla natura del significato.
Come per molti altri aspetti, anche riguardo alla s. l'insegnamento di F. de Saussure si rivela straordinariamente fruttuoso. La concezione del segno come rapporto fra significante e significato (entrambi sul piano astratto della langue, e diversi dalla cosa designata) ha radici antiche, che risalgono agli stoici, con la distinzione fra σημαίνον (significante) e σημαινπμενον (significato), diverso, quest'ultimo, da τὸ τπγχάνον (la realtà esterna). Ma è grazie all'imporsi delle concezioni saussuriane che si diffonde fra i linguisti l'accettabilità di una trattazione sincronica e sistematica del significato. L. Hjelmslev illustra come, nonostante la necessaria coesistenza delle due facce del segno, sia legittimo studiare il significato separatamente dal significante, e propone una s. strutturale che può essere utilmente confrontata con quella elaborata da altri studiosi che hanno sviluppato in maniera originale le idee di Saussure, come E. Coseriu.
Secondo Saussure, la linguistica appartiene a una scienza più ampia, la "semiologia" (v. App. IV), che studia i segni in generale, e non solo quelli linguistici. Questa nozione fu poi ripresa, e paradossalmente capovolta, da R. Barthes, per il quale la semiologia finisce con l'appartenere alla linguistica, in quanto i segni vengono presentati e analizzati linguisticamente, e per es. il sistema della moda finisce col risolversi nel linguaggio della moda. In tale contesto vanno ricordate le ricerche di semiologia letteraria rappresentate in maniera eminen-
te da filologi italiani quali C. Segre, M. Corti, D'A.S. Avalle (v. semiologia: Semiologia del testo letterario, in questa Appendice).
Con riferimento alla cultura anglosassone lo studio dei segni viene designato prevalentemente dal termine "semiotica", in inglese semiotics, basato da J. Locke sul greco σημειωτιϰή. Il suo maggiore rappresentante è stato il filosofo americano Ch.S. Peirce, dal quale deriva la tripartizione, oggi largamente diffusa, dei segni in "icone", "simboli" e "indici". I segni "iconici" sono quelli in cui è ravvisabile qualche somiglianza con l'oggetto denotato. I segni "simbolici" hanno un rapporto arbitrario con l'oggetto denotato; fra questi rientrano le parole delle lingue naturali per cui parrebbe vano domandarsi, fra l'italiano cane, l'inglese dog, il russo sobaka, il cinese gou, l'ebraico kelev, quale sia l'espressione più adatta per l'animale in questione. D'altra parte è noto che ci sono casi di onomatopea e di fonosimbolismo che limitano la nozione di arbitrarietà; che per le forme composte e derivate in base a dati modelli si può parlare di motivazione; e che molti fatti grammaticali, dall'intonazione alla sintassi, vengono al giorno d'oggi considerati iconici. I segni "indessicali" o "indicali" sono collegati necessariamente all'oggetto denotato, come il fumo è segno di fuoco, o come una fotografia, che per certi aspetti è un segno iconico, in quanto riproduce certi tratti dell'oggetto fotografato, per altri è un indice, in quanto è stata prodotta meccanicamente dall'esposizione della pellicola alla luce riflessa dall'oggetto in questione. La connessione fra segno e denotato dipende dall'"interpretante", cioè dall'effetto veicolato dal segno su chi lo interpreta. Per stabilire il significato di un significante (per es. cane) bisogna ricorrere a un altro significante (per es. mammifero della famiglia dei Canidi), che ne rappresenta il senso. È dunque possibile vedere nell'interpretante un significante che nomina un altro significante, e quindi collegarlo alla nozione di "semiosi illimitata" che è stata approfondita da U. Eco, uno dei più influenti studiosi di semiotica contemporanei. Sviluppi interessanti si trovano anche negli studi semiologici di L. Prieto, e negli importanti lavori del maggiore studioso italiano di s., T. De Mauro, la cui opera (fondata anche su una profonda analisi critica del pensiero di Saussure e di L.Wittgenstein) fonde originalmente un'avvertita coscienza dei limiti della formalizzazione teorica con una costante attenzione alla natura storica e sociale dei processi di significazione.
Si sono qui usati come termini approssimativamente sinonimi "semiotica" e "semiologia", con riferimento alla tradizione anglosassone il primo, e alla tradizione francese il secondo. Converrà ricordare un'altra questione terminologica che può provocare dei malintesi: alcuni studiosi hanno accolto, soprattutto in Francia, negli ultimi decenni, la proposta di É. Benveniste di usare "semiotica" per designare il "significato" del segno, all'interno della lingua, da un punto di vista paradigmatico, e "semantica" per indicare il "senso" del segno, realizzato in un contesto sintagmatico, nel discorso, per la comunicazione, uscendo dal linguaggio e tenendo conto del rapporto fra segni e oggetti denotati e dell'intenzione comunicativa del parlante, nel suo interagire con l'ascoltatore e con l'ambiente. Questo va in parte contro l'uso tradizionale che considera la s. un fatto caratteristicamente linguistico e la semiotica un'area molto più generale di scambi di messaggi e di trasmissione di informazione in ambito sociale, o addirittura al di fuori della partecipazione umana. Gli aspetti comunicativi che per Benveniste caratterizzano la semiotica vengono, nell'uso prevalente oggi, attribuiti alla "pragmatica". Benveniste, inoltre, tende qui a distinguere "senso" e "significato" in maniera diversa da quella corrente, che collega il senso alla connotazione e all'intensione e il significato alla denotazione e all'estensione.
Le osservazioni che precedono sono di carattere terminologico, e riferite a testi del passato, ma ci portano dentro una serie di problemi ancora vivamente dibattuti nella s. contemporanea. La s. viene generalmente considerata lo studio del significato. Ma che cos'è il significato? Come può essere definito? Il filosofo tedesco G. Frege in un celebre articolo del 1892 aveva elaborato la distinzione fra Sinn e Bedeutung, che vengono di solito resi rispettivamente con "senso" e "riferimento" o "significato". Il "senso" è relativo all'"intensione" di un termine, cioè al suo valore concettuale, all'insieme dei tratti che ne determinano l'applicabilità; il "riferimento" è relativo all'"estensione", cioè alle entità a cui esso può essere applicato. Alcuni studiosi considerano intensione ed estensione come aspetti della "denotazione". Ma la differenza di fondo è chiara. Il senso è una nozione interna al linguaggio e dipende dal rapporto fra i vari termini della lingua, la denotazione riguarda il rapporto fra linguaggio e realtà extralinguistica. Dalla denotazione conviene distinguere il "riferimento" (Lyons 1995, p. 78): il rapporto di denotazione fra 'cane' e la classe dei cani è di natura diversa da quello di riferimento, fra 'Fido' e un cane particolare. La denotazione è indipendente dalla situazione enunciativa, il riferimento no. Negli studi di s. formale, l'intensione (senso) viene identificata col contenuto proposizionale di una frase, e l'estensione (riferimento) col suo valore di verità.
La nozione di "significato" e quella di "verità" sono state spesso collegate nella tradizione filosofica, in quanto entrambe coinvolgono il rapporto fra parola e cosa, la corrispondenza fra linguaggio e realtà. In logica si è a volte sostenuto che il significato possa essere identificato (o collegato strettamente) con le "condizioni di verità" di una frase. Descrivere il significato di una frase vorrebbe dire allora indicare le condizioni in cui essa sarebbe vera o falsa, in date circostanze (cioè in un dato "mondo possibile", per usare una nozione tradizionale che risale a Leibniz). Si parla a questo proposito di "calcolo dei predicati". Questa concezione "vero-condizionale" del significato non è del tutto soddisfacente. Non è cioè chiaro come si potrebbero di fatto specificare le condizioni che consentono di stabilire il "valore di verità" di una frase come, poniamo, 'la neve è bianca', o 'questa distesa di neve è bianca'. La questione si complica ulteriormente se si considera l'aspetto "vero-funzionale" del "calcolo delle proposizioni", cioè l'assunto che il valore di verità di una frase composta sia una funzione del valore di verità delle frasi componenti e dei connettivi (od operatori) che le collegano. Fra questi troviamo, per es., '&', '∨', '∨e'. Il connettivo '&' indica la "somma logica": 'p & q' è vera solo nel caso che sia 'p' sia 'q' siano vere; '∨' indica il prodotto logico, o disgiunzione inclusiva, per cui 'p ∨ q' è vera nel caso che 'p', o 'q', o entrambe siano vere; '∨e' indica la disgiunzione esclusiva, per cui 'p ∨e q' è vera nel caso che 'p' sia vera, o 'q' sia vera, ma non entrambe, e così via. Potrebbe quindi parere possibile costruire delle "tavole di verità" che consentano di stabilire, in maniera chiara e univoca, il valore di verità di qualsiasi frase composta (questo ricorda l'aspirazione di Leibniz a creare una "characteristica universalis" che consenta di risolvere qualsiasi divergenza di opinione fra i filosofi ricorrendo a un calcolo di tipo matematico. I filosofi che sono in disaccordo dovrebbero prendere in mano la penna e dire: "calculemus"). Ma dal punto di vista dell'uso effettivo del linguaggio non è ovvio che si possa specificare un numero esatto di connettivi dotati di un significato preciso, e del resto secondo R. Carnap (Putnam 1988) le regole della logica formale non determinano univocamente l'interpretazione dei connettivi logici. Inoltre, le difficoltà che si incontrano nel cercare di rendere conto dell'operazione di sintesi che si compie nelle frasi semplici (per le quali abbiamo visto che non è realistico pensare a un procedimento meccanico che consenta di stabilirne il valore di verità) si ripropongono anche per le frasi composte (a parte il fatto che anche la distinzione tra frasi semplici e composte non è priva di problemi). Qui entra in gioco un principio fondamentale della s. logica, chiamato "principio di composizionalità" (detto a volte anche "principio di Frege"), secondo il quale il significato di un'espressione è una funzione del significato delle sue parti e del modo in cui esse sono collegate. Questo vale per espressioni di qualsiasi misura (dalle parole di cui i tratti componenti e i rapporti reciproci vengono analizzati dalla "semantica lessicale", ai sintagmi, alle frasi, a interi discorsi), e per certi aspetti sembra un assunto innegabile; per altri, come si è notato, l'effettiva applicazione della composizionalità pone problemi di natura non banale.
Si è parlato qui sopra di frasi semplici e composte. Si noti che la terminologia della linguistica non è univoca, e comunque differisce da quella della logica. Per quello che qui chiamiamo "proposizione", in corrispondenza all'inglese "proposition", i logici spesso usano "enunciato" (sono nozioni per le quali si risale ad Aristotele e agli stoici, che parlano di λπγοϚ ἀποφαντιϰπϚ e di λεϰτπν e si richiamano a un ἀξίωμα, "giudizio", espresso da una frase che possa essere considerata vera o falsa). Il termine "enunciato" è entrato in uso, nella linguistica italiana recente, come equivalente dell'inglese "utterance", cioè di una unità discorsiva, che può essere maggiore o minore di una frase, usata in un contesto specifico, a livello di "parole" o di "esecuzione", invece che di "langue" o di "competenza".
Molto influente è stata la "concezione semantica" della verità, proposta dal logico polacco A. Tarski. Su questa base si è formulata l'ipotesi della "de-citazione" (v. verità, in questa Appendice). Consideriamo la frase seguente: '"la neve è bianca" è vera se e solo se la neve è bianca'. Nella parte sinistra della frase, fra virgolette basse, un'espressione viene "citata", e nella parte destra essa viene "usata". Considerare vera tale espressione consiste semplicemente nel togliere le virgolette, nel "de-citarla" (Quine 1987). La nozione di verità viene in qualche modo a scomparire: dichiarare che la frase 'la neve è bianca' è vera non vuol dire attribuire a tale frase una determinata proprietà, ma semplicemente "affermare" che la neve è bianca. Come dice R. Rorty, dichiarare che una frase è vera è un modo di renderle omaggio, ed è ciò che normalmente si fa di fronte ad affermazioni che, per complessi motivi di ordine culturale e sociale, ci si trova a condividere (Putnam 1988). Si arriva così da una concezione logicistica a una concezione più storica e pragmatica della verità.
Questo è il percorso compiuto parallelamente anche dalle indagini sul significato. I neopositivisti sostenevano che il significato delle frasi dipende dalla loro verificabilità. A parte le proposizioni analitiche a priori della logica e della matematica, le proposizioni sintetiche delle scienze devono essere verificabili ricorrendo ai fatti del mondo fisico. Ogni altra proposizione che non sia verificabile è letteralmente priva di significato, come la maggior parte di quelle che si usano nella vita quotidiana, nella letteratura, nelle varie aree della filosofia tradizionale. Ovviamente queste affermazioni si sono rivelate inaccettabili, oltre che, come è evidente, non verificabili e perciò tali che dovrebbero, paradossalmente, essere considerate prive di significato proprio da coloro che le sostengono. D. Davidson, ricorrendo alle teorie di Tarski, si serve del concetto di verità per chiarire quello di significato. Ma il concetto di verità viene assunto come una nozione pre-teorica. Occorre fondarsi su certi "atteggiamenti" generali riguardo alle frasi, e in particolare su quello specifico atteggiamento per cui "si accetta una frase come vera". Il fatto che una frase sia vera richiede che essa sia ritenuta tale dai parlanti. Quine, che pure, in base a un atteggiamento empiristico, ritiene che il significato debba essere in ultima analisi riconducibile all'esperienza, ha formulato l'ipotesi del suo "carattere olistico", per cui il significato di una frase è determinato da tutte le altre frasi della lingua.
S.A. Kripke ha elaborato un'originale teoria del riferimento, che ricorre alla s. dei mondi possibili, o "possibili stati" del mondo, o "situazioni controfattuali", come si trovano nei periodi ipotetici di terzo tipo. Kripke esamina il modo in cui si assegna un nome e si fissa il riferimento, e mostra che la teoria della descrizione non basta a render conto né del significato né del riferimento dei nomi. Una "descrizione definita" si riferisce a una singola entità specifica, secondo l'idea di B. Russell che si possa specificare un'entità non solo usandone il nome, ma anche ricorrendo a una descrizione sufficiente a identificarla. Il nome (per es. 'Aristotele') non equivale a una descrizione definita (come "il maestro di Alessandro Magno") presentata in forma abbreviata o travestita. Infatti la frase 'Aristotele fu il maestro di Alessandro Magno' non è una tautologia. Per indicare sia i nomi propri, sia la descrizione definita, Kripke usa il termine "designatore". I nomi sono "designatori rigidi", tali cioè che indicano lo stesso oggetto in ogni mondo possibile. Il riferimento di un nome è determinato non già da proprietà che identifichino in maniera univoca il suo referente e che siano ritenute vere dal parlante, bensì dal fatto che il parlante appartiene a una data comunità che usa il nome in quel modo. Centrale per questa argomentazione è l'esame dell'"identità". Se diciamo che 'Tullio è Cicerone' postuliamo una relazione non fra un oggetto e se stesso, ma fra due nomi che designano lo stesso oggetto. Se affermiamo che 'il calore è il moto molecolare' possiamo chiederci se il Buon Dio, creando il moto molecolare, abbia dovuto fare anche qualcos'altro perché ci fosse il calore. Evidentemente sì: deve aver creato anche degli esseri senzienti, tali che il moto molecolare produca in essi una sensazione di calore. Solo a queste condizioni possiamo considerare l'affermazione 'il calore è il moto molecolare' una verità a posteriori (Kripke 1980). Anche H. Putnam (1988) accetta la tesi di Quine e Davidson che non ci sono criteri per stabilire l'identità di significato di due espressioni, al di là delle effettive pratiche interpretative. Viene così rinnegata l'ipotesi mentalistica che i significati siano entità teoriche, oggetti che possono essere individuati nella mente dei singoli parlanti. In realtà il linguaggio è una forma di attività cooperativa. La ragione va al di là di ciò che essa è in grado di formalizzare, e il tentativo di comprendere il "significato" e il "riferimento" fallisce per lo stesso motivo per cui fallisce quello di comprendere la ragione. La nozione di verità non trascende quella di uso, e quest'ultimo è storicamente determinato secondo specifiche condizioni culturali e sociali.
Si è notato un parallelismo nel mutare dell'atteggiamento dei filosofi riguardo alle nozioni di "verità" e di "significato". Si accennerà ora, da questo punto di vista, al modo in cui i filosofi hanno affrontato questioni semantiche nelle lingue naturali, e i linguisti hanno potenziato il loro studio della s. ricorrendo alla logica formale.
La feconda collaborazione fra logica e linguistica va da Aristotele fino al Settecento, passando per gli stoici, i modisti, Port-Royal e Leibniz. Le due discipline si sono venute separando nel corso dell'Ottocento, a causa di una divaricazione che ha portato da un lato la linguistica ad accostarsi alle discipline storiche e filologiche (l'allontanamento, pur dannoso, dalla logica, appare come uno dei prezzi che si imponevano per consentire lo sviluppo della linguistica storica e comparativa come scienza autonoma); e dall'altro ha portato la logica a elaborare un apparato teorico rigoroso e matematizzante (si pensi a studiosi quali G. Peano, G. Frege, B. Russell) che sembrava renderla poco adattabile alla sfuggente e confusa fenomenologia delle lingue naturali. Quando scriveva la sua grande opera Logische Syntax der Sprache (1934), Carnap si occupava di linguaggi simbolici costruiti artificialmente, osservando che "a causa della struttura asistematica e logicamente imperfetta dei linguaggi verbali naturali (come il tedesco e il latino), l'enunciazione delle relative regole formali di formazione e di trasformazione risulterebbe così complicata da essere - in pratica - difficilmente attuabile" (Carnap 1934; trad. it. 1961, p. 24). Altri logici si sono dimostrati più ottimisti. Si pensi in particolare a H. Reichenbach, che nel suo manuale di logica simbolica del 1947 inseriva uno stimolante capitolo sul linguaggio quotidiano, e offriva come esempio un'analisi del sistema temporale nelle lingue naturali dalla quale ancora oggi sarebbe difficile prescindere. Uno dei più importanti studiosi moderni che hanno raccolto la sfida di Reichenbach è R. Montague, secondo il quale non ci sono differenze teoriche importanti fra i linguaggi naturali e quelli artificiali creati dai logici, ed entrambi sono analizzabili entro una stessa teoria matematicamente precisa. Oggi disponiamo di numerose trattazioni formali, altamente tecniche, designate come "semantiche di Montague" o "grammatiche di Montague". Nella teoria di Montague troviamo una "grammatica categoriale" nella tradizione di K. Ajdukiewicz, subordinata a una s. che deriva da Tarski. Ciò che Montague si proponeva era di stabilire un rapporto sistematico fra sintassi e s., collegando univocamente le categorie sintattiche con quelle intensionali. Del resto il parallelismo e il collegamento fra sintassi e s. è al centro delle ricerche più avanzate di ispirazione generativista (per le prime ricerche di s. dal punto di vista generativo, e per la cosiddetta s. generativa, v. semantica, App. IV). La s. di Montague si fonda su una teoria vero-condizionale del significato, e in particolare su una nozione di verità "relativa a un'interpretazione" o a un "modello ". Le frasi sono descrittivamente sinonime se hanno la stessa intensione, cioè una "funzione" che determina la loro estensione in tutti i "mondi possibili". Queste funzioni consentono di identificare l'estensione di qualsiasi espressione nel mondo specifico che è il "dominio" della funzione. La classe delle entità a cui ci si riferisce è il "valore" di tale funzione. Si ricorre a "indici" complessi che identificano mondi possibili, diversi non solo temporalmente (situazioni del passato o del futuro), ma anche modalmente (e quindi mondi immaginari). La grammatica di Montague mira così a offrire un'interpretazione formalmente rigorosa del linguaggio naturale.
Essa serve anche ad affrontare in maniera interessante alcuni ben noti problemi logici, come quello per cui certe espressioni che hanno la stessa estensione non sono fungibili dal punto di vista vero-funzionale, contraddicendo quella che in logica è detta "legge di Leibniz" o "legge di sostituzione", secondo la quale, se (a) 'Lucifero è il pianeta Venere', e (b) 'Espero è il pianeta Venere', allora (c) 'Espero è Lucifero'. Ma ci sono dei contesti, detti "referenzialmente opachi" (o "obliqui"), come quelli che coinvolgono atteggiamenti e credenze, in cui non si possono trarre inferenze analoghe. Da (a) 'Mario cerca di vedere Lucifero', e (b) 'Lucifero è Espero', non posso concludere che (c) 'Mario cerca di vedere Espero'. Occorre distinguere un'interpretazione estensionale (de re) da una intensionale (de dicto). Dal punto di vista di chi enuncia queste frasi, e sa che Lucifero è Espero, è possibile affermare (c) (de re), prescindendo da ciò che Mario ritiene di stare facendo; ma se Mario non sa che Lucifero è Espero, e noi descriviamo ciò che sta cercando di fare, cioè le sue intenzioni (de dicto), non potremo evidentemente affermare (c). La differenza può avere implicazioni drammatiche: è chiaro che da (a) 'Edipo vuole sposare Giocasta', e (b) 'Giocasta è la madre di Edipo', non possiamo concludere che (c) 'Edipo vuole sposare la propria madre'. Ovvero, per trarre legittimamente questa conclusione, dovremmo anche chiarire che (b) è ciò che noi sappiamo, ma Edipo non sapeva prima del matrimonio, e che in (c) la persona che Edipo vuole sposare, pur essendo (estensionalmente) la stessa, cioè Giocasta, è (intensionalmente) una persona diversa per Edipo, che non sa che è sua madre, e per noi che lo sappiamo. La distinzione viene attivata dal verbo 'volere' che, corrispondentemente, si presta a due interpretazioni (la situazione, beninteso, si complica, da un punto di vista vero-funzionale, se cerchiamo di far rientrare in ciò che Edipo "sa" anche la considerazione del suo inconscio).
Per quanto riguarda il "riferimento", conviene rifarsi alla nozione di "pragmatica", che risale a Peirce, ed è stata ripresa da Carnap e da C. Morris (al quale si deve la popolarità della tripartizione dello studio dei segni in sintassi, s. e pragmatica). Negli ultimi decenni il termine è entrato nell'ideario generale dei linguisti, per indicare tutto ciò che riguarda l'uso del linguaggio. Da un lato la pragmatica è diventata una disciplina accademica, alla quale si dedicano corsi ed esami e che viene codificata in ampi e sistematici manuali; dall'altro essa continua, per certi aspetti, a servire come un'area di servizio nella quale i linguisti relegano (e a volte si sarebbe tentati di dire "buttano" o "ficcano") le questioni che non si prestano al trattamento rigoroso e sistematico che si ritiene necessario per la langue o per la competenza, come è successo per tanti aspetti dell'uso linguistico il cui esame è stato assegnato (o rinviato) allo studio della parole o dell'esecuzione.
Wittgenstein aveva postulato nel suo Tractatus una concezione secondo cui la lingua rispecchia il mondo e serve a parlare della realtà, ma non è in grado di parlare dei propri rapporti con la realtà. Una frase può "esibire" la propria struttura, ma non "descriverla" (si possono ricordare a questo proposito i paradossi relativi all'autonimia e in generale all'autoriflessività). Ma in una seconda fase del suo pensiero, rappresentata dalle Philosophische Untersuchungen, pubblicate postume nel 1953 ma risalenti al suo insegnamento degli anni Trenta, Wittgenstein arriva alla conclusione che il significato di una frase si identifica col suo "uso", e perciò dipende da una quantità di fattori culturalmente e socialmente determinati. A queste posizioni si collega la "filosofia analitica" (o "filosofia linguistica") oxoniense, nel cui ambito un pensatore originale e acuto, J.L. Austin, ha elaborato la nozione della funzione "performativa", che entra in gioco quando il locutore non tanto "parla" di qualcosa, quanto, parlandone, la "fa" (a conclusioni simili arriva indipendentemente Benveniste in un contesto linguisticamente anche più interessante di quello di Austin). In generale parlare è sempre "fare" qualcosa. Un atto linguistico (per es. quello di Anna che dice a Mario: 'Apri la finestra per favore') può essere considerato "locutivo" in quanto il parlante dice qualcosa (Anna parla), "illocutivo" in quanto il parlante persegue uno scopo (Anna chiede a Mario di aprire la finestra), o "perlocutivo" in quanto il parlante raggiunge il suo scopo (Anna persuade Mario ad aprire la finestra). Con il "performativo" il parlante che usa certi verbi, alla prima persona del presente indicativo, nel suo valore semelfattivo, non "descrive" un'azione, ma la "compie". Se dico: 'Ti prometto di scriverti', sto "facendo" e non "descrivendo" una promessa. Non sto invece facendo una promessa, ma la sto descrivendo, se uso il verbo alla terza persona ('Mario promette di scriverti'), o al passato ('Ti ho promesso di scriverti'), o con valore iterativo ('Ti prometto sempre di scriverti'). È chiaro che una frase performativa non può essere "vera" o "falsa", ma piuttosto sincera o insincera, più o meno felice o appropriata ecc. Se io dico: 'Ti nomino presidente della Repubblica', 'Ti proclamo vincitore del concorso' ecc., senza essere la persona autorizzata col necessario mandato pubblicamente riconosciuto, la mia frase non solo non ha valore di verità, ma fa anche cilecca come performativo (tu cioè non hai ottenuto la presidenza della Repubblica, non hai vinto il concorso ecc.). Ciononostante la mia frase ha un significato, e pone dei problemi a chi voglia renderne conto dal punto di vista semantico.
Alla teoria degli atti linguistici, elaborata sistematicamente da J.R. Searle (1969), ha dato un contributo importante H.P. Grice con il suo "principio cooperativo" che si articola in quattro "massime" della conversazione: la massima della "qualità" (dire la verità, dire le cose di cui si abbiano le prove), la massima della "quantità" (dare le informazioni necessarie e non dire cose superflue), la massima della "pertinenza" o "relazione" (relevance o relation; dire cose pertinenti), la massima della "maniera" o "modo" (esprimersi chiaramente, evitando oscurità, ambiguità, confusione). Si tratta non tanto di prescrizioni morali quanto di un tentativo di descrivere le condizioni che rendono possibile la comunicazione. Grice ha esaminato con grande sottigliezza la nozione di "significato"; in realtà la sua analisi verte sulla parola inglese 'meaning' e implicitamente richiede dal lettore il tentativo di distinguere se si tratti di una questione di interesse teorico generale (il concetto di "significato"), o di un argomento molto più limitato, di lessicologia inglese (gli usi idiomatici della parola 'meaning').
Grice distingue (a) un significato "non naturale" del verbo 'to mean' ("voler dire") relativo al parlante che, dicendo una frase, "vuol dire qualcosa", cioè vuole comunicare, far capire qualcosa a qualcuno, con un elemento di intenzionalità; e (b) un uso "naturale" di tale verbo, relativo a un'espressione (una parola, una frase) che "vuol dire 'qualcosa'" (si noti l'assenza delle virgolette intorno a 'qualcosa' nel primo caso, in cui ci si riferisce a un fatto, e la loro presenza nel secondo, in cui ci si riferisce a un'espressione linguistica). Si tratta della differenza fra "utterer's meaning" da una parte, e "sentence-meaning" o "word-meaning" dall'altra. Ma mentre in inglese c'è un ovvio rapporto lessicale fra il nome 'meaning' e il verbo 'to mean', in italiano c'è solo un rapporto di contenuto fra il nome 'significato' e l'espressione 'voler dire'. D'altro canto 'significare' e 'significato' si usano per le espressioni linguistiche ('Che cosa significa questa parola?', 'Qual è il significato di questa parola?'), ma non per il parlante ('Che cosa significa Mario?', 'Qual è il significato di Mario?', possibili forse come domande riguardanti l'etimologia del nome, non sembrano utilizzabili per 'che cosa vuol dire/che cosa intende dire Mario?').
All'interno del valore totale (per Grice "signification" o "significazione") di un'espressione, occorre distinguere fra ciò che il parlante "ha detto" e ciò che "ha fatto capire". Per quest'ultima nozione viene usato in inglese il verbo "to implicate" (a volte reso in italiano con "implicare", nel senso di comunicare in maniera indiretta, suggerire, far capire), distinto da "to imply" ("implicare" nel senso logico). La nozione di "implicatura" (in inglese "implicature"), cioè di tutto quello che è coinvolto o implicato da un'espressione, ha avuto grande fortuna. Grice distingue l'implicatura "convenzionale" da quella "conversazionale". La prima è relativa a valori codificati nel sistema linguistico e tratta di distinzioni come quella fra (a) 'È povero ed è onesto' e (b) 'È povero ma è onesto', che hanno lo stesso contenuto proposizionale ma una differenza di significato riportabile all'implicatura convenzionale della congiunzione 'ma'. Le "implicature conversazionali", cui la linguistica contemporanea ha dedicato particolare attenzione, si richiamano soprattutto alla contestualizzazione sociale e culturale degli enunciati, cioè a quegli aspetti che rendono problematica l'analisi semantica della maggior parte delle frasi usate nelle reali circostanze della vita quotidiana. Si tratta di quelle difficoltà che avevano indotto la linguistica bloomfieldiana a disperare della possibilità di una s. scientifica, fra i cui compiti rientrerebbe anche l'obbligo di render conto in maniera precisa del fatto che una frase come 'Ho fame', detta da un bambino che ha cenato da poco, viene (correttamente) interpretata dai genitori non in base al suo contenuto proposizionale, ma come se volesse dire (ciò che di fatto vuol dire): "Non voglio ancora essere mandato a letto, voglio restare a guardare la televisione e a partecipare alla conversazione dei grandi". Questo tipo di interpretazione viene normalmente praticato dai parlanti per ogni frase che sentono e usano, ed è del resto caratteristico di ogni attento commento di testi prodotto da filologi e critici letterari. Ciò che la teoria delle implicature si propone è di offrire una sistemazione coerente ed esplicita dei principi che consentono alla lingua di funzionare in questo modo.
In questo contesto va ricordata anche, per il suo interesse semantico, la differenza (a cui si è accennato sopra) nell'uso dei logici fra "implicazione materiale" e "implicazione stretta" o "formale". Per l'implicazione materiale 'p implica q' è vera non solo se 'p' e 'q' sono entrambe vere, ma anche (paradossalmente, dal punto di vista dell'uso comune) se sono entrambe false, e se 'p' è falsa e 'q' è vera. Per l'implicazione stretta (o "conseguenza", in inglese "entailment") 'p implica q' è vera se, nel caso che 'p' sia vera, 'q' è "necessariamente" (e non "contingentemente") vera, cioè vera in tutti i mondi possibili. Alla nozione comune di implicazione si avvicina di più quella di implicatura, per cui 'p implica q' è vera se dalla verità di 'p' è "ragionevole" ricavare la verità di 'q' (Lyons 1995, p. 169).
Una delle proposte che si sono rivelate di maggior interesse nell'ambito della pragmatica contemporanea è costituita dalla teoria della "pertinenza" ("relevance") di D. Sperber e D. Wilson (1986), che continua a godere di grande fortuna. Questa teoria si richiama alle posizioni citate di Grice, associandole ai principi generativi di esplicitezza, e mirando a definire, al di là dell'uso idiomatico della parola 'relevance' in inglese, la nozione teorica di "pertinenza" nell'ambito della psicologia cognitiva (Sperber, Wilson 1986, p. 118). La differenza principale, rispetto a Grice, è che per Sperber e Wilson (1986, p. 161) la nozione è più esplicita, e non richiede la "cooperazione" a cui si appella Grice, secondo il quale entrano in gioco delle norme che gli interlocutori devono conoscere. Per Sperber e Wilson invece la pertinenza spiega la comunicazione ostensiva nel suo complesso, esplicita e implicita, relativa cioè alla comunicazione inferenziale e andando al di là delle implicature.
Si accennerà infine all'importanza che ha per la s. dell'enunciato (cioè dell'uso effettivo del linguaggio) lo studio delle questioni che riguardano la "soggettività", e in particolare delle categorie della temporalità, dell'aspetto, e della modalità. Esse partecipano della nozione di "deissi", cioè del richiamo a un "qui" e "ora" relativi all'"io" da cui proviene l'atto linguistico. Questo tema è stato trattato in maniera illuminante in alcuni importanti saggi di Benveniste (1966), in cui si illustra come la simmetria di superficie delle tre persone del verbo e dei relativi pronomi personali nasconda una più profonda asimmetria di natura semantica e semiotica. Il pronome di terza persona ('lui', 'lei') può denotare individui diversi, in maniera simile a quella per cui un nome ('Carlo', 'libro') può denotare entità diverse. 'Lui' e 'lei' sono propriamente pronomi, nel senso etimologico, per cui stanno al posto di nomi, possono sostituirli. Ma 'io' e 'tu' invece appartengono alla dinamica del dialogo, designano coloro che a esso partecipano. Certamente 'io' e 'tu' possono designare, come 'lui' e 'lei', di volta in volta persone diverse. Ma il rapporto di denotazione pare essere di tipo diverso. Da un altro punto di vista si può dire che 'io' e 'tu' designano sempre la stessa persona, cioè i partecipanti all'atto locutivo, rispettivamente l'emittente e il ricevente del messaggio. L'io è la fonte stessa del discorso, la persona che parla. Si tratta del "soggetto" dell'enunciazione, piuttosto che dell'enunciato, se indichiamo con 'enunciazione' l'atto di produrre un enunciato. L'io si presenta come creatore della frase, anche se in essa non compare nessun verbo alla prima persona. Ecco quindi che quando usiamo un passato o un futuro ('Mario è partito', 'Mario partirà') li colleghiamo implicitamente al presente dell'enunciazione, del parlante che usa tali tempi. Considerazioni analoghe sono particolarmente importanti per la modalità, che coinvolge l'uso dei modi verbali (anche in rapporto ai tempi e agli aspetti), dei cosiddetti verbi modali ('potere', 'dovere', 'volere'), e dei quantificatori (il quantificatore esistenziale 'qualche', e il quantificatore universale 'ogni'). La logica tradizionale riconosce la distinzione fra "necessità" (indicata con gli operatori 'N' o '□') e "possibilità" (indicata con gli operatori 'M' o '◇'), collegate al valore di verità delle frasi. La modalità può essere "epistemica" o "deontica". La frase 'Deve tingersi i capelli' può avere un'interpretazione epistemica ("è possibile che si tinga i capelli") o un'interpretazione deontica ("ha il dovere di tingersi i capelli"), ed entrambe possono essere "oggettive" (cioè relative a un qualche mondo possibile, indipendente dal parlante), o "soggettive" (cioè relative agli atteggiamenti e alle credenze del locutore). A quanto pare l'uso più comune (diacronicamente precedente, e tipologicamente più spesso grammaticalizzato o lessicalizzato nelle lingue del mondo) è quello soggettivo (Lyons 1995, p. 334). Sebbene esso si presti meno a un'analisi vero-funzionale, basata sul contenuto proposizionale (e ricordando anche che la distinzione fra "significato" e "contenuto proposizionale" è per certi aspetti problematica), va riconosciuto che gli sforzi che vengono compiuti per estendere l'uso della s. formale contribuiscono a farci capire meglio anche quegli aspetti del significato che per ora a essa sfuggono.
bibliografia
È fondamentale il trattato di J. Lyons, Semantics, 2 voll., Cambridge-New York 1977 (il 1° vol. in trad. it., Manuale di semantica. 1. Sistemi semiotici, Roma-Bari 1980).
Buone presentazioni sintetiche: F. Palmer, Semantics. A new outline, Cambridge-New York 1976 (Semantics, 1981²; trad. it. Introduzione alla semantica, Milano 1982); P. Violi, Significato ed esperienza, Milano 1997.
Una trattazione enciclopedica: Semantik/Semantics. Ein internationales Handbuch der zeitgenössischen Forschung. An international handbook of contemporary research, hrsg. A. von Stechow, D.Wunderlich, Berlin-New York 1991.
Fra le migliori introduzioni moderne, che ricorrono alla semantica formale per illuminare la semantica delle lingue naturali: G. Chierchia, S. McConnell Ginet, Meaning and grammar. An introduction to semantics, Cambridge (Mass.) 1990 (trad. it. Significato e grammatica. Semantica del linguaggio naturale, Padova 1993); J. Lyons, Linguistic semantics, Cambridge-New York 1995; G. Chierchia, Semantica, Bologna 1997.
Per la semantica formale: R. Cann, Formal semantics, Cambridge-New York 1993.
Si citano qui alcune delle opere a cui si riferisce il testo (per altre si veda G.Lepschy, La linguistica del Novecento, Bologna 1992, 1996²): G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, in Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, 1892, pp. 25-50 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, Milano 1973, pp. 9-32); Ch.S. Peirce, Collected papers, 8 voll., Cambridge (Mass.) 1931-58 (antologia it. Semiotica, a cura di M. Bonfantini et al., Torino 1980); R. Carnap, Logische Syntax der Sprache, Wien 1934 (trad. it. Milano 1961); H. Reichenbach, Elements of symbolic logic, New York 1947; T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari 1965, 1970²; É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Paris 1966 (trad. it. Milano 1971); J.R. Searle, Speech acts. An essay in the philosophy of language, Cambridge 1969 (trad. it. Torino 1976); T. De Mauro, Senso e significato. Studi di semantica teorica e storica, Bari 1971; R. Montague, Formal philosophy. Selected papers, ed. R. Thomason, New Haven 1974; U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano 1975; D. Davidson, Essays on actions and events, Oxford-New York 1980 (trad. it. Bologna 1992); S.A. Kripke, Naming and necessity, Oxford 1980; T.De Mauro, Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Roma-Bari 1982; D. Davidson, Inquiries into truth and interpretation, Oxford-New York 1984; D.Sperber, D. Wilson, Relevance. Communication and cognition, Oxford 1986; W.V.O. Quine, Quiddities. An intermittently philosophical dictionary, Cambridge (Mass.) 1987; H. Putnam, Representation and reality, Cambridge (Mass.) 1988 (trad. it. Milano 1993); H.P. Grice, Studies in the way of words, Cambridge (Mass.) 1989 (trad. it. parziale in Logica e conversazione, Bologna 1993).