TEUTOBURGO, Selva di (lat. Saltus Teutoburgiensis; tedesco Teutoburger Wald, nome dotto introdotto dopo le guerre di indipendenza; localmente il rilievo è detto Osning; A. T., 51-52)
Rilievo di forma allungata, che dalle sorgenti della Lippe si estende verso NO. per un centinaio di km. fino a Rheine sull'Ems in modo da formare un vallo che separa il bassopiano di Münster dalla pianura della Germania settentrionale. Esso consta per la massima parte di calcari e di arenarie variegate del Cretacico ed è formato da una serie di colline (a oriente per lo più suddivise in tre dorsali, separate da valli longitudinali); vi sono anche delle profonde incisioni trasversali (dette localmente Dören "porte"), come quella di Bielefeld, per la quale passa la linea ferroviaria Colonia-Minden. Le maggiori elevazioni sono il Barnacken (m. 446), il Groteburg (m. 388, con il monumento di Arminio) e l'Hermanńs Höhe (m. 364). Per la massima parte il rilievo è ancora coperto da bei boschi di faggio, ricchi di selvaggina.
La battaglia alla Selva di Teutoburgo.
Dal 7 d. C., l'esercito romano del Reno, formato da almeno cinque legioni, era comandato da P. Quintilio Varo, che nel 9 d. C. si trovava con tre legioni, XVII, XVIII e XIX, sei coorti di fanteria e tre ali di cavalleria ausiliarie nella regione dei Germani Cherusci, sul Weser. La Germania fra il Reno e l'Elba sembrava ormai sottomessa al dominío romano e Varo, uomo anziano, lento e d'indole poco bellicosa, credette di poter ad essa estendere l'organizzazione politica e amministrativa delle provincie ormai pacificate. Un nobile cheruseo, Arminio, che, militando come ausiliario, aveva acquistato la cittadinanza romana e la dignità equestre, capì che, con un uomo come Varo, i Germani potevano tentare di scuotere il dominio straniero. Egli si accordò a questo scopo con un eerto numero di capi della sua e di altre tribù, alcuni dei quali servivano nel campo romano, e nello stesso tempo seppe cattivarsi la fiducia di Varo, che di frequente l'ospitava. La congiura fu rivelata a Varo da altri Germani fedeli, ma egli non prestò fede alle ripetute denunce. Pare che, nell'autunno del 9, Varo intendesse di ritornare con l'esercito ai quartieri d'inverno, quando gli giunse la notizia che una tribù germanica si era sollevata, ed egli decise di compiere con l'esercito una spedizione repressiva. La cosa era stata invece predisposta da Arminio per far cadere Varo in un'imboscata in luoghi sconosciuti. L'esercito di Varo, reso pesante dal numeroso carreggio e dai molti non combattenti, fra i quali non poche donne e fanciulli, iniziò la marcia senza prendere misure di sicurezza, che Varo riteneva inutili; i capi Germani lo avevano salutato alla partenza assicurandolo che l'avrebbero tosto raggiunto con truppe ausiliarie. Ma presto divenne difficile procedere attraverso la densa foresta e il terreno rotto, e mentre i Romani cercavano di aprirsi una strada, si videro d'improvviso assaliti da varie parti dai Germani. Le legioni erano fra le migliori dell'esercito, ma il terreno intricato, la sorpresa, la mobilità del nemico impedirono ad esse di farsi valere. Dopo avere subito gravi perdite, l'esercito giunse a un punto, dove costruì un campo e si bruciarono o si abbandonarono i bagagli non necessarî. Si riprese quindi la marcia il giorno successivo, ma gli attacchi dei Germani divennero sempre più violenti e l'esercito, premuto da ogni parte, sferzato dalla pioggia e dal vento, si ridusse a una massa disordinata, incapaee di difendersi. È incerto, se la tragica marcia sia durata due o, com'è più probabile, tre giorni, e se i Germani abbiano assalito i Romani fin dal giorno della loro partenza dal campo. È certo l'epilogo disastroso. Varo e gli ufficiali superiori, già feriti, si tolsero la vita: i centurioni e gli altri ufficiali superstiti furono massacrati, i soldati ridotti in schiavitù e Arminio infierì con oltraggi e crudeltà sui morti e sui vivi. Pochi fuggiaschi riuscirono a raggiungere le retrostanti guarnigioni e il basso Reno, dove il legato L. Nonio Asprenate assicurò la difesa accorrendo con le due. legioni del campo di Magonza. L'impressione a Roma fu enorme e si temette per la sicurezza dell'Italia e della stessa Roma; Tiberio fu inviato con rinforzi sul Reno. Ma i Germani non seppero, o non poterono sfruttare il successo. Però la strage di Varo segnò una crisi grave nell'espansione romana in Germania.
Sei anni dopo, un esercito romano, guidato da Germanico, giunse sul campo di battaglia e diede onorata sepoltura alle ossa dei caduti. A questo proposito Tacito dice (Ann., I, 60): "ductum inde agmen ad ultimos Bructerorum, quantumque Amisiam (Ems) et Lupiam (Lippe) amnes inter vastatum haud procul Teutoburgiensi saltu, in quo reliquiae Vari legionumque insepultae dicebantur". La localizzazione della battaglia partendo da questo passo diede e dà occasione a un numero enorme di scritti. Pare certo che il campo estivo di Varo fosse alla Porta di Vestfalia, cioè alla stretta del Weser a sud di Minden; ma il campo di battaglia fu cercato in varie località sulla catena dei Wiehen Gebirge, che per alcuni sarebbe la Selva di Teutoburgo, p. es., dal Mommsen a Barenau, o sull'Osning e la Selva di Lippe, ove sorge il monumento eretto ad Arminio, mentre altri scesero più a sud, sulla Lippe presso Hamm o l'Arnsberger Wald, a sud della Ruhr. Ma nessuna delle tante proposte ha per sé prove convincenti.
Le aquile delle tre legioni furono poi tutte recuperate dai Romani: l'aquila della XIX presso i Brutteri da Germanico, di un'altra legione presso i Marsi per opera del medesimo, e la restante nella campagna contro i Cauci del 42 d. C.
Bibl.: Per la bibliografia più antica, v.: E. Wilisch, in Neue Jahrbücher für Altertumswiss., 1909, p. 322; H. Drexler, in Jahresberichte über die Fortschritte der klass. Altertumsw., CCXXIV Suppl. (1929), p. 349, e A. Franke, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VA (1934), col. 1166. Fra le pubblicazioni recenti si può citare: W. Judeich, in Rhein. Museum, LXXX (1931), p. 299 segg.; W. Kolbe, in Klio, XXV (1932), p. 141, e Judeich, ibid., XXVI (1933), p. 56; H. E. Stier, Hist. Zeitschrift, CXLVII (1933), p. 489.