MEDICI, Sebastiano
– Nacque a Firenze, verosimilmente poco prima della metà del XVI secolo, da Filippo e da Domitilla (o Dimitilla) Capaci (Capacci).
Il nome di battesimo del M. era Bastiano, lo stesso del nonno materno (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3292, c. 377). Il M. utilizzò sempre il nome Sebastiano nei suoi scritti, e come tale è ricordato nella maggior parte delle fonti successive. Apparteneva al ramo della famiglia fiorentina discendente da Chiarissimo (XIII secolo), e solo lontanamente era imparentato con il ramo granducale (Chiarissimo era fratello di Averardo, antenato di Cosimo il Vecchio), anche se profondi erano i legami tra le diverse linee della famiglia Medici, grazie altresì alle parentele acquisite attraverso una scrupolosa politica matrimoniale. Il M. non adoperò mai il de’ prima del cognome, e solo in rarissimi casi appare citato come Sebastiano de’ Medici.
Nulla si conosce dei suoi primi studi. Il 21 febbr. 1568 si laureò in utroque iure nello Studio pisano. Nell’ottobre 1569 divenne cavaliere di S. Stefano, l’ordine creato da Cosimo I nel 1562, e ottenne la commenda di 200 scudi l’anno istituita dal prozio Francesco. Quest’ultimo, familiare del cardinale Innocenzo Cibo e di Paolo III, ebbe una certa influenza sulla carriera del M., che rivestì molte cariche già ricoperte dal prozio. Altra figura rilevante per il M. fu quella di Antonio Ciofi, suo promotore alla laurea dottorale, il quale, insieme con Domenico Bonsi, ricoprì il ruolo di primo auditore dell’Ordine di S. Stefano.
Alla nomina nella Religione di S. Stefano, fu legata la concomitante redazione del Tractatus de legibus, et statutis (Firenze, Figli di L. Torrentino e C. Pettinari, 1569).
L’opera, dedicata a Cosimo, granduca da pochi mesi, è tradizionale per struttura e linguaggio, ma si presenta in realtà come una difesa della potestà normativa superiorem non recognoscens del Comune fiorentino e del suo governante, dotato di «amplissimum imperium, non solum armis decoratum, sed etiam legibus armatum» (Tractatus …, c. A3r). Inoltre, modificando parzialmente la dottrina vigente, il M. faceva divenire ius commune anche il diritto del principe e delle supremae civitates, al quale andava fatto ricorso, prima che al diritto romano, nei casi di difetto degli statuti delle città inferiori.
Al De legibus seguirono i trattati De definitionibus (Firenze, C. Pettinari, 1571); De regulis iuris (ibid., B. Giunti, 1572); De compensationibus (ibid., Id., 1573); Mors omnia solvit (ibid., G. Marescotti, 1573).
Divenuto canonico della cattedrale di Fiesole, nel 1573 il M. fu nominato protonotario apostolico e vicario a Pistoia, alle dipendenze del vescovo Alessandro de’ Medici, futuro papa Leone XI, il quale gli affidò un ruolo preminente nella conduzione del sinodo provinciale di quell’anno, che avrebbe dovuto discutere l’applicazione dei canoni tridentini in Toscana. Frutto di tale incarico furono la raccolta Concilium provinciale Florentinum e le Relationes decretorum, et canonum sacrosancti oecumenici, et generalis Conc. Tridentini, curate entrambe dal M. ed edite a Firenze per i tipi dei Giunti nel 1574.
Tra il 1574 e il 1575 il M. fu vicario vescovile nella diocesi di Bologna sotto il cardinale G. Paleotti, ma tornò ben presto a Firenze, dove nel frattempo era divenuto arcivescovo Alessandro de’ Medici. Il M. godeva della stima sia del presule sia del granduca Francesco I, come si evince dalla lettera del 4 marzo 1575, nella quale l’arcivescovo, ringraziando il granduca del conferimento del titolo di canonico della metropolitana fiorentina al M., affermava: «perché messer Bastiano è huomo da bene» (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 3292, c. 377). Con il titolo canonicale, il M. ottenne la prebenda lasciata da Angelo Marzi Medici, alla quale tuttavia rinunciò nello stesso anno. Inoltre fu creato vicario e, dal 1579, vicario generale dell’arcivescovo Medici, ufficio che esercitò fino al 1589.
Dato che Alessandro, sin dalla sua nomina, si era stabilito a Roma, toccò per massima parte al M. la cura e l’organizzazione della diocesi fiorentina. Vi si dedicò con grande impegno, animato da una forte adesione ai valori della Controriforma. Lo sforzo profuso per il rinnovamento morale e spirituale e per il disciplinamento delle anime è testimoniato tanto dalle numerose visite pastorali compiute, quanto dall’ampiezza e sistematicità dei manuali scritti per l’educazione di confessori, inquisitori e censori: la Summa peccatorum capitalium (Firenze, Giunti, 1579) e la Summa omnium haeresum et catalogus schismaticorum, haereticorum et idolatrarum (ibid., Id., 1581). La Summa peccatorum capitalium è dedicata all’arcivescovo Alessandro; la Summa omnium haeresum reca invece una dedica a Gregorio XIII. Entrambe le Summae toccano gli argomenti i più vari, debitamente rubricati nei rispettivi indici, e costituiscono un esempio ragguardevole della teologia morale italiana nell’età postridentina.
Le sue funzioni portarono il M. ad occuparsi anche di censura teatrale (rese obbligatoria l’autorizzazione dell’arcivescovo o del vicario per ogni tipo di rappresentazione) e di provvedimenti tesi alla salvaguardia del «buon costume», come il divieto imposto alle meretrici di entrare in alcuni luoghi sacri. È noto inoltre che portò a termine i lavori della cappella Medici nella chiesa di S. Croce in Firenze, iniziati dal prozio Francesco.
Il M. non smise di occuparsi di questioni giuridiche: pubblicò il Tractatus de regulis iuris pars secunda (Venezia, Giunti, 1575); il Tractatus de fortuitis casibus (Firenze, B. Giunta, 1577, una delle prime trattazioni d’insieme sul caso fortuito); il Tractatus de sepulturis, & opuscula septem (ibid., B. Sermartelli, 1580). Nel 1586 apparve la raccolta dei suoi principali scritti civilistici e canonistici, il Tractatus,… duobus voluminibus comprehensi, Venezia, B. Giunti, 1586. Seguirono alla raccolta le addizioni all’opera di Bernardo da Montimirat nei Perillustrium doctorum, tam veterum quam recentiorum, in libras Decretalium aurei commentarii (Venezia, Giunti, 1588), e il Tractatus de venatione, piscatione, et aucupio (Colonia, J. Gymnich, 1588).
Il 17 apr. 1589, per volontà di Sisto V, il M. fu eletto uditore generale nella rota di Macerata, appena istituita dal papa con giurisdizione su tutto il territorio della Marca. Il collegio era costituito da cinque giudici, di cui quattro di nomina pontificia: con il M. furono nominati Francesco de Penna, Gabriele Gabrielli, Ottavio Formicini. Durante quel periodo, forse con l’auspicio di una promozione alla dignità episcopale, aveva scritto il Tractatus de promovendis episcopis (Macerata, S. Martellini, 1591).
Si tratta di un manuale sulla figura del vescovo, sulle qualità che deve possedere prima della promozione e durante lo svolgimento della missione episcopale, nonché sulle sue funzioni e sul loro esercizio. Interpretando quello che era il nuovo modello di vescovo postridentino, il M. auspica che i vescovi siano virtuosi e prudenti allo stesso tempo, moralmente integerrimi, intellettualmente preparatissimi, tanto da giudicare obbligatorio il possesso del titolo di doctor per l’attribuzione della dignità vescovile. Di carattere prettamente teologico è invece il Tractatus de mirabilibus operibus Dei Macerata, S. Martellini, 1590).
Nel quinquennio del suo mandato operò con la diligenza che gli era consueta, dando alle stampe una raccolta delle sentenze della rota maceratese, che è tra le prime e più preziose testimonianze dell’attività di quel tribunale: Decisiones, sive diffinitiones causarum provinciae Marchiae (Firenze, G. Marescotti, 1596).
La dedica delle Decisiones a Sisto V è del febbraio 1595, quindi il testo doveva essere pronto, almeno in una prima versione, pochi mesi prima della morte del Medici.
Per ciascuna decisione egli, dopo aver riassunto il caso, espone la motivazione introducendola con le formule «Domini fuerunt in voto […] quia», oppure «Fuit resolutum». Va rilevato che il M. non attribuiva alcuna superiorità alle risoluzioni della Sacra Rota rispetto alle altre rote pontificie, considerando anzi la possibilità di limitare il valore delle decisioni della Rota romana alla sola città di Roma (Decisiones…, pp. 231 s.).
Lasciata Macerata, nel 1594 il M. si stabilì a Roma, dove morì il 30 ag. 1595, «in aspettativa di molte distinzioni, con cui Clemente VIII suo concittadino voleva premiare i suoi meriti» (Litta).
Ingegno poliedrico e sistematico, il M. lasciò contributi di indubbio spessore giuridico, teologico e filosofico. Tra i più entusiasti protagonisti della prima stagione postridentina, con le sue azioni e la sua opera contribuì alla rifondazione non solo giuridica e istituzionale, ma anche teologica e morale della società, nella direzione, ovviamente, dettata dal concilio stesso. Dotato di vasta cultura, capace di spaziare indifferentemente dalle fonti canonistiche a quelle civilistiche, dalla scolastica ai classici latini e greci, il M. seppe ben cogliere le istanze di rinnovamento provenienti dalla cultura controriformistica. Indirizzato verso un profondo realismo, espresse la sua attitudine eminentemente pratica, per esempio, nell’elogio della dissimulazione, oppure nell’adesione alla massima «necessitas non habet legem», o ancora nella liceità per i cristiani di allearsi con i Turchi in tempo di guerra. Critico severo dei costumi, disapprovò con forza l’usura, l’ubriachezza, le manifestazioni artistiche che eccitano il vizio, la convivenza degli ecclesiastici con donne e la disobbedienza.
Nella storia del pensiero giuridico il M. trova generalmente collocazione tra gli «scolastici». Nelle sue opere, risulta evidente l’esigenza di ordinare e razionalizzare la materia trattata: nel proemio del Tractatus de legibus si afferma che «ordo in cunctis rebus servandus sit […] ubi non est ordo, ibi est confusio». Tale esigenza è ben visibile sia nella scelta, pressoché univoca, di aderire alla forma del Tractatus, tipica della scuola del Commento, che ben si prestava all’indagine di singoli problemi giurisprudenziali, sia nei dettagliati indici che suddividono le varie parti dei testi e nel metodo della ripartizione dei casi (onnipresente al principio dei lavori del M. la massima «divisio bona debet esse bimembris»). L’opera del M. si fa apprezzare, dunque, innanzitutto per il tentativo ambizioso di dare ordinata disposizione a una vastissima materia giuridica, che tocca aspetti pubblicistici e privatistici, civilistici e canonistici. Egli, è stato notato (I. Birocchi), rifiutava l’ammonimento del Giavoleno, secondo il quale il diritto non è conoscibile attraverso le sue cause e la dimostrazione della sua essenza. Nel De regulis iuris, paragona la giurisprudenza alle scienze naturali, specificamente la medicina e la fisica, sostenendo la necessità di trovare alcune regole generali dalle quali partire, utilizzandole a modo di bussola, per potersi orientare nei percorsi spesso tortuosi della scientia iuris. La stessa esigenza è percepibile (come appare già dal titolo stesso) nel De definitionibus, testo, tra l’altro, presente nella biblioteca di G.W. Leibniz. Un buon esempio del metodo adottato dal M. nei suoi lavori ci è offerto dal Tractatus mors omnia solvit, nel quale egli, dopo aver adottato una definizione generalissima («la morte è la separazione dell’anima dal corpo»), ne distingue subito due tipi – morte naturale e morte civile –, e quindi procede con l’esame delle situazioni e degli effetti giuridici riconducibili all’una o all’altra fattispecie, e delle rispettive eccezioni (interessante notare, a tal proposito, che il M. non considera morti i non nati: «nec mori dicuntur non nati, quia mors est privatio vitae, quae praesupponit habitum»).
I pochi studi che hanno nominato la figura del M. si sono concentrati su alcune specifiche questioni. Per quanto riguarda gli aspetti pubblicistici, la teoria che considera la normazione dei comuni superiorem non recognoscentes come parte integrante dello ius commune, fu abbracciata nel Seicento da E. Vignolo e G.B. De Luca. Sul versante privatistico, un cenno particolare merita il trattato De fortuitis casibus. Si tratta di una tra le prime esposizioni sistematiche sul caso fortuito, nella quale il M. prende in considerazione alcune problematiche di grande rilevanza nella società del XVI secolo, quali ad esempio il naufragio, l’incursione di pirati e la rissa. Riguardo ai primi due punti egli esime il conductor rerum dal risarcimento del danno, sostenendo che il rischio di naufragio e di incursione piratesca spettano al proprietario delle merci e non al comandante del naviglio. Sulla rissa, invece, il M. è dell’opinione che la culpa competa di norma solo a colui che inizia l’atto rissoso, e non ad altri eventuali coinvolti. Analogamente, in materia di giochi e attività sportive, egli fu tra i primi giuristi a chiedersi se, almeno in certi casi, l’omicidio conseguente ad atti agonistici non fosse il prodotto di colpa dell’agente. Venendo invece alla disciplina delle obbligazioni, nel De definitionibus (II, 43), riprende e modifica la definizione di contratto data da Labeone, preferendogli una definizione sostanziale, che si concentra sul contratto actualis: «contractus est dispositio legitima hominis inter vivos, ex qua oritur ultro citroque obligatio». Una certa diffusione deve aver avuto anche il De compensationibus, citato da Pothier per difendere l’opposizione di pieno diritto della compensazione per beni immobili, e il De piscatione, venatione et aucupio, menzionato dal Muratori e ristampato a Spira nel 1605 e a Lipsia nel 1702 all’interno del Corpus iuris venatorio-forestalis romano-germanici.
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