scrittura (escrittura)
Usato con una certa frequenza anche nella Commedia, ricorre soprattutto nel Convivio.
Il senso proprio di " espressione linguistica scritta ", " veste linguistica ", è documentato in Cv I V 8 le scritture antiche de le comedie e tragedie latine; II XV 1 in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra (un altro caso allo stesso paragrafo); analogamente, in IV XII 10 assai lo manifesta e l'una e l'altra Ragione [il diritto canonico e il civile], se li loro cominciamenti, dico de la loro scrittura, si leggono, vale " esposizione scritta ".
Il significato di " grafia ", " insieme di caratteri scritti " si registra ancora in Cv III IX 14 molti, quando vogliono leggere, si dilungano le scritture da li occhi, perché la imagine loro vegna dentro più lievemente e più sottile.
In Pd XIX 134 e a dare ad intender quanto [Federico II re di Sicilia] è poco, / la sua scrittura [nel volume della giustizia divina, v. 113] fian lettere mozze, / che noteranno molto in parvo loco, il termine ha, a giudizio di numerosi interpreti moderni, " il significato contabile di annotazione d'una partita nel libro dei conti " (Porena); ma, come intendevano, in genere, i commentatori antichi e come intendono ancora alcuni dei moderni, potrebbe valere, più genericamente, " ciò che di lui sarà scritto " (Chimenz). La prima interpretazione sembra, comunque, meglio rispondere al seguente lettere mozze, cioè " mozzate ", " incomplete " che, come ha chiarito il Parodi (" Bull. " XXIII [1916] 63; ora in Lingua 394), sono da intendere nel senso di " abbreviature stenografiche ". Secondo la maggior parte dei commentatori, da Benvenuto e Buti fino ai moderni, la scrittura allude ai vizi, alle colpe di Federico; nel qual caso, poco sarebbe aggettivo e indicherebbe la ‛ dappocaggine ', la ‛ nullità ' del re. Il Mattalia però, riprendendo un'interpretazione già dell'Ottimo, obietta: " non v'è motivo perché il conto negativo, grande, debba essere scritto in lettere mozze, con le quali, invece, s'indicherà meglio il conto positivo, men che minimo, tanto che per segnarlo basterà uno spazio minimo, riempito con lettere mozze. Nel libro di Dio non manca certo lo spazio e l'Aquila, giusta, non può, come già per Carlo II, non rilevare quel pur pochissimo di positivo ch'è in tutti, anche nei peggiori. E perciò poco a me pare abbia valore sostantivale... solo così il gesto di scriver con lettere mozze in poco spazio esprime tutto il suo significato intenzionale: e il quanto (quanto grande) correlato a poco risulta ironico, come il molto del v. 135 ". L'interpretazione corrente ci sembra, comunque, abbastanza giustificata nelle sue ragioni dalla citata glossa del Parodi, la quale è valida anche per confutare, almeno in parte, le obbiezioni del Mattalia: " Non mi pare che sia da aggiungere alla giusta spiegazione il preteso compimento... ‛ mancando nella parte del libro da Dio assegnata a lui lo spazio ' ecc. Forse che Dio prima assegnò poco spazio e poi s'accorse dell'errore? No, si tratta di uomo così da poco, che, per quanto sian molti i suoi falli, non meritano che si perda spazio a notarli: poche abbreviature stenografiche, e sarà presto finita col fastidio di dover occuparsi della sua nullità. Lo sdegno di Dante ha trovato qui una delle più bizzarre e insieme più pungenti espressioni ".
Molto più di frequente il sostantivo ricorre nel senso di " opera scritta ", letteraria, filosofica, storica, ecc., cioè come sinonimo di ‛ libro ' o ‛ volume ': Cv I II 1 ne la presente scrittura, cioè il Convivio stesso; VII 8 le scritture latinamente scritte; II I 2 le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi, cioè la dottrina dei quattro sensi da D. applicata, in questo stesso capitolo del Convivio, non solo ai testi sacri, ma anche a opere di letteratura profana (cfr. ALLEGORIA; e, più oltre, SENSI DELLA SCRITTURA); e ancora: Cv I II 17, VII 15, IX 10, II I 5, 6 e 9, VIII 8, XIII 28, III III 8, IV V 6 e 11, XXIII 12.
In Pg VI 34 La mia scrittura è piana, il termine vale " testo scritto ", cioè " passo di un'opera ", con riferimento a Aen. VI 373-376.
Controversa l'interpretazione di Pd XXVI 17 Lo ben che fa contenta questa corte, / Alfa ed O è di quanta scrittura / mi legge Amore o lievemente o forte. Secondo i più antichi commentatori, dal Lana al Daniello, scrittura è soggetto, Amore oggetto; sicché il passo, come chiosa Benvenuto, avrebbe questo significato: " omnis scriptura facilis vel difficilis, quae tractat de amore et caritate, principaliter praecipit quod diligam Deum, qui est principium et finis omnium rerum "; il Buti, il Vellutello e il Daniello intendono il sostantivo nell'accezione specifica di " Sacra Scrittura ". Questa interpretazione è stata ripresa dal Porena e dal Mattalia. Secondo un altro gruppo d'interpreti (Venturi, Lombardi, Cesari, Tommaseo, Torraca, Vandelli, Casini-Barbi, Chimenz), Amore è soggetto, scrittura, in senso figurato, oggetto; per cui il senso del passo verrebbe a essere il seguente: " ‛ il sommo bene, Iddio, è principio e fine d'ogni movimento, grande o piccolo, che mi porta ad amare '; ma ciò D. dice sotto figura di cosa scritta e lettagli da amore; e vale: ‛ Iddio è A e Zeta di questo libro d'amore ' " (Cesari), ossia, come spiega il Tommaseo, ripreso da molti fra i più recenti interpreti, " Dio è principio e fine de' miei affetti e piccoli e grandi ". Il Sapegno registra entrambe le interpretazioni, ma propende per la seconda. Del medesimo avviso siamo anche noi, soprattutto in considerazione della piena rispondenza di scrittura, se intesa in senso figurato, alla metafora alfabetica di Alfa ed O.
Nel senso di " Scrittura Sacra ", il termine è usato il più delle volte per indicare l'insieme della Bibbia, la rivelazione divina qual è consegnata per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. In Pd XII 125 il termine indica invece la regola di s. Francesco, in quanto documento scritto degno di venerazione; l'uso del termine in quest'accezione potrebbe significare la venerazione con cui D. circondava la regola francescana, ma non però una sua collocazione al livello della S. ispirata. Da notare la chiosa di Benvenuto che, pur riportando questa interpretazione, intende " ad exponendam scripturam sacram ". In Ep XIII 63 si parla di scriptura paganorum in un parallelo tra S. Sacra e scritti pagani; in questo caso è citato Lucano (Phars. IX 580).
D. usa due volte il termine Biblia (VE I X 2) e Bibbia (Cv IV V 16), ma in entrambi i casi sembra che li consideri più come codici scritti che come l'insieme della rivelazione messa per iscritto. Per antonomasia Scrittura designa in D. la Sacra S.: Pd IV 43, XIII 128, XIX 83 (v. anche Fiore CX 1, CXXIII 2, CXXVI 5). Ma secondo l'uso ecclesiastico, D. accompagna volentieri il termine con un attributo: verace Scrittura divina (Cv IV XII 8), divine Scritture (XX 3), sacratissima Scriptura (VE I IV 2), Sacra Scriptura (Mn III IV 1), divina Scrittura (Pd XXIX 90), scrittura santa (XXXII 68); in Pd XXV 88 sono detti Le nove e le scritture antiche il Vecchio e il Nuovo Testamento. Va rilevato che nella Commedia il termine s'incontra soltanto nel Paradiso (per altre espressioni v. oltre).
In Mn III IV 8-9, citando s. Agostino (De Doctrina christiana I 36 ss.) D. afferma che bisogna prendere la S. nel senso voluto dall'autore, dal momento che titubabit fides, si Divinarum Scripturarum vacillat auctoritas. Così dicendo egli intende affermare che, per lui, Dio è non solo il primo autore della S. ma anche quello che concede la fede all'uomo.
In Pd XXIV-XXVI, dove D. sostiene un esame sulle virtù teologali, si parla con una certa ampiezza della S.: attraverso la S., lo Spirito Santo diffuse nel mondo la sapienza e la bontà; il Vecchio Testamento è come la maggiore di un sillogismo, e il Nuovo come la minore (v. PROPOSIZIONE): la conclusione è costituita dall'opera mirabile di Cristo e della Chiesa; il trionfo del cristianesimo nel mondo, quando mancava di qualsiasi mezzo terreno per imporsi, costituisce il segno più evidente della veracità della S. (Pd XXIV 91-111); la S. fonda la fede (vv. 133-138), la speranza (XXV 70-76) e la carità (XXVI 40-45) e per ciò stesso dà accesso alla beatitudine eterna e al trono di Dio, dove s'inneggia al tre volte Santo (vv. 59-69).
La Sacra Scrittura. - La cultura di D., come di ogni autore medievale, è profondamente imbevuta di motivi biblici. Racconto ed esegesi scritturale rappresentano un continuo stimolo per occasioni poetiche e soluzioni dottrinali. Esamineremo pertanto la presenza in D. del Vecchio e del Nuovo Testamento e l'intera questione dei sensi scritturali.
Vecchio Testamento. - I libri del Vecchio Testamento sono simboleggiati da D. con 24 vegliardi coronati di gigli, che precedono il carro del grifone (Pg XXIX 83-84) e che richiamano i 24 vecchi dell'Apocalisse (4, 4) contornanti il trono celeste.
In questo D. s'ispira a s. Girolamo, che nella prefazione alla sua traduzione dei Libri dei Re (Prologus galeatus) presentava in questi vecchi i 24 libri del Vecchio Testamento. Per arrivare al numero di 24 Girolamo enumerava in primo luogo il canone della Bibbia ebraica, fissato dagli scribi di Iamnia tra il 70 e il 100 d.C.; essi, in realtà, assommano a 22 libri, quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico, e cioè: la Legge, che comprende i 5 libri attribuiti a Mosè (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), gli 8 libri profetici suddivisi in 4 profeti anteriori (Giosuè, Giudici, Samuele e i Re) e 4 profeti posteriori (Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti minori considerati come un libro unico) e, infine, i 9 scritti ‛ agiografici ' (Giobbe, il Salterio, i tre libri attribuiti a Salomone: Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici; poi Daniele, i libri dei Paralipomeni, Esdra e Neemia, ed Ester). Per arrivare al numero di 24, afferma Girolamo, occorre aggiungere il libro di Rut, dagli Ebrei conteggiato insieme con i Giudici, e le Lamentazioni, che venivano accoppiate al libro di Geremia. Inoltre, sin dalle origini, la Chiesa considerò ispirati altri libri, che presso gli Ebrei riscuotevano una certa autorità come libri pii ma che la Sinagoga lasciava fuori del proprio canone, e cioè: Giuditta, Tobia, la profezia di Baruc, due libri di carattere sapienziale: la Sapienza detta di Salomone e l'Ecclesiaste, e i due primi libri dei Maccabei. Così pure, la Chiesa usava leggere i libri di Ester e di Daniele in un testo più ampio. Questi libri sono quelli denominati solitamente deuterocanonici oppure - tra i riformati - apocrifi. Anche se il numero di 24 vegliardi potrebbe far credere alla coscienza, da parte di D., del problema dei libri deuterocanonici, è certo che egli accettò il Vecchio Testamento quale veniva letto dalla Chiesa del tempo, quindi senza soffermarsi sulla distinzione tra libri proto e deuterocanonici.
Avendo a che fare con Bibbie latine, D. dovette conoscerli secondo un ordine in cui, ad esempio, Daniele era considerato come libro profetico e i libri dei Paralipomeni e di Esdra erano collocati dopo i Re, come libri storici. Quest'ordine, fissato definitivamente nel sec. XIII, corrisponde pressappoco a quello che già Cassiodoro (VI sec.) definiva " antiquus ordo romanus " e seguito, nelle sue grandi linee, nelle funzioni liturgiche. Egli suddivideva il Vecchio Testamento in: Ottateuco (la Legge e i primi libri storici: Giosuè, i Giudici e Rut), i libri storici con le vite dei ‛ santi ', i libri sapienziali con il Salterio, i libri profetici e, da ultimi, i due libri dei Maccabei.
Denominazione dei libri sacri in Dante. - D., quasi sempre, parla di Vecchio e Nuovo Testamento nel loro insieme. Egli, sulla scorta della prefazione di s. Girolamo alla sua traduzione della Vulgata, li chiama la Bibbia (Cv IV V 16). Va tuttavia rilevato che, così facendo, D. riprende un uso volgare del termine per cui ‛ Bibbia ' è considerato un singolare, mentre Girolamo lo considerava plurale, " i libri ", cioè Vecchio e Nuovo Testamento. Il più delle volte D. parla di Scrittura (Pd IV 43, XII 125, XIX 83, XXIX 90, XXXII 68, Cv IV XII 8; cfr. anche Fiore CX 1 e CXXIII 2) e le Scritture (Pd XIII 128, Cv IV XX 3) o Scriptura nella forma latina (VE I IV 2, Mn III III 14, IV 1); ancora: le vecchie e... le nuove cuoia (Pd XXIV 93), L'antica e la novella / proposizion (vv. 97-98), Le nove e le scritture antiche (XXV 88), il novo e 'l vecchio Testamento (V 76), vetus et novum Testamentum (Mn III III 12), duorum Testamentorum gremio (XIII 4), Evangelio (Pd XXIV 137).
Il termine Testamentum rende la nozione biblica di ‛ alleanza ' (ebraico berit), che sottolinea il carattere di dono gratuito, non più sentito come bilaterale, data la diversa posizione tra le due parti contraenti; la ‛ nuova alleanza ', fondata sul sacrificio di Cristo, è al tempo stesso ‛ eredità ' (testamentum) di quella. È con riferimento a questo ‛ nuovo ' testamento che l'antica ‛ alleanza ' - che precedette il Cristo - venne detta, per analogia, Vetus Testamentum.
Citazioni esplicite e allusioni palesi al Vecchio Testamento. - Nei suoi trattati, specialmente nel Convivio e nella Monarchia, ma anche in molte epistole, D. cita sovente la Scrittura. Nella Commedia, accanto alle citazioni, abbondano le allusioni. Alcune epistole, specie quelle indirizzate a uomini di Chiesa, sono disseminate più ancora di allusioni che di citazioni. È questo un procedimento comune a molti scrittori ecclesiastici medievali, e di cui D. mostra piena padronanza. In conformità con lo stesso procedimento, quando scrive a dei laici, D. si attiene preferibilmente a citazioni e allusioni classiche.
Diamo qui di seguito una lista delle citazioni esplicite di D. dal Vecchio Testamento e delle principali allusioni. I libri del Vecchio Testamento sono disposti secondo l'ordine della Vulgata, che è la Bibbia conosciuta da D.; anche per i Salmi la numerazione seguita è quella della Vulgata. Le citazioni esplicite sono contrassegnate da un asterisco (*).
Genesi: 1,2: Pd XXIX 21*; 1,9: Quaestio 76; 1,14 ss.: Mn III IV 16; 1,16: Mn III IV 2; 1,26: Cv IV XII 14, Mn I VIII 2, Ep VII 25; 1,28: If XI 106-108; 2,1: Mn I XVI 2; 2,10: Pg XXXIII 112; 2,15: If XI 106-108; 2,19-20: VE I IV 2; 3,2-3: VE I IV 2*; 3,6: Pd XXVI 115; 3,19: If XI 106-108; 4,4: Pg XIV 133; 5,5: Pd XXVI 122; 9,8-17: Pd XII 17; 11,1-9: If XXXI 76-77, Pd XXVI 124-127; 11,9: VE I VI 5; 18,20: Pg XXVI 40; 19,25: Pg XXVI 40; 25,22-25: Pd XXXII 67-70; 27,1 ss.: Mn I XIII 4; 28,12: Pd XXII 71; 29,34-35: Mn III V 1; 32,28: If IV 59; 39,6-23: If XXX 97; 49,9: Ep V 9.
Esodo: 2,14: Mn II XII 4; 3,7-8: Ep V 4; 4,21: Mn II VII 8; 7,9: Mn II VII 8; 8,18-19: Mn II IV 2; 18,17-26: Mn I XIV 9; 33,19: Pd XXVI 40-42*.
Levitico: 2,11: Mn III XIII 7; 11,43: Mn III XIII 8; 17,3-4: Mn II VII 5.
Numeri: 18,20: Mn III XIV 5; 22,28: VE I II 6, Ep XI 18.
Deuteronomio: 6,4: Mn I VIII 3; 32,5: Ep VI 4.
Giosuè: 10,12-13: Ep VII 7; 6,17-19; 7,1-26: Pg XX 109.
Giudici: 6 e 7: Pg XXIV 124; 11,1 e 12,7: Pd V 66.
Rut: 2,4: Pg XVI 141*.
I Re: 10,1: Mn III VI 1; 14,39: Ep VI 26*; 15,10: Mn II VII 8; 15,17-18: Ep VII 19*; 15,17,23,28: Mn III VI 1; 17,49: Ep VII 29.
II Re: 1,21: Pg XII 40; 6,6-7: Pg X 64; 7,6 ss.: Ep XI 9 e 12.
III Re: 1,22: Ep VI 11; 3,3-5: Pd XIII 91-93*; 3,9: Cv IV XXVII 6; 10,1: Ep XIII 3; 18,38: Ep XI 6.
IV Re: 2,23: If XXVI 34; 20,1-11: Pd XX 49.
Paralipomeni II: 20,12: Mn II VII 8.
Tobia: 3,25: Pd IV 48; 6,16: Pd IV 48.
Ester: 3 e 4: Pg XVII 26-29.
Giobbe: 11,7: Quaestio 77*.
Salmi: 1,3: Mn I I 2*; 2,1-3: Mn II I 1*; 2,1-2: Mn II I 4*; 2,3: Mn II I 5*; 4, 8: Mn I XV 3*; 8, 2: Cv IV XIX 7* e II III 11*; 8,3: Ep XI 10*; 8,5-7: Cv IV XIX 7*; 8,6: Mn I IV 2*; 9,11: Pd XXV 73-74* e 98*; 10,8: Mn II IX 1*; 18,2: Cv II V 12*; 30,2-9: Pg XXX 83-84*; 31,1: Pg XXIX 3*; 31,9: Mn III XVI 9; 49,16: Mn I XIII 5*; 50,3: If I 65*, Pg V 24*, Pd XXXII 12*; 50,9: Pg XXXI 98*; 50,17: Pg XXIII 11*; 52,1: Ep V 20; 62,12: Cv IV XVI 1*; 68,10: Ep XI 9*; 71,2: Mn I XIII 7*; 77,25: Cv I I 7; 78,1: Pg XXXIII 1*; 78,10: Ep XI 4*; 91,5: Pg XXVIII 80*; 94,2: Ep V 14; 94, 5: Mn III XV 26*, Ep V 21; 99, 3: Cv III IV 8*; 103,9: Cv IV XXIII 8*; 110,10: Ep VI 9; 111,7: Mn III I 4*; 113,1: Pg II 48*, Cv II I 6, Ep XIII 21; 113,3 e 5: Pd XXII 94-95*; 118,25: Pg XIX 73*; 120,1: Pd XXV 38; 125,1: Ep VII 30; 132,1: Mn I XVI 5*; 136,1: Ep VII 4 e 30, Pd XXIII 134-135; 138,6: Quaestio 77*; 138,7-9 Ep XIII 62*.
Proverbi: 1,7: Ep VI 10; 1,8: Cv IV XXIV 14*; 1,10: Cv IV XXIV 14*, Mn III I 3;1,17: Pg XXXI 62-63*, Ep VI 21; 3,34: Cv IV XXV 2*; 4,18: Cv III XV 18* e IV VII 9*; 4,24: Cv IV XXV 2*; 5,23: Cv IV VII 13*; 8,6: Cv IV V 2*; 8,7: Mn III I 3; 8,17: Cv III XI 12*; 8,23: Cv III XIV 7; 8,27-31: Cv III XV 16*; 13,18: Cv IV XXIV 16*; 22,28: Cv IV VII 9*; 29,20: Cv IV XV 13*; 30,15: Ep XI 15.
Ecclesiaste: 3,7: Cv IV II 8*; 3,21: Cv IV XV 7*; 5,12: Cv II X 10*; 10,16-17: Cv IV VI 19* e XVI 5*.
Cantico Dei Cantici: 1,3: Mn III III 12*; 4,8: Pg XXX 11*; 6,7-8: Cv II XIV 20*;8,5: Cv II V 5*, Mn III X 8*.
Sapienza: 1,1: Pd XVIII 91* e 93*; 1,7: Ep XIII 62*; 3,11: Cv III XV 5*; 6,23: Cv IV VI 18* e XVI 1*; 7,14: Ep XIII 6*; 7,26: Cv III XV 5*.
Ecclesiastico: 1,3: Cv III VIII 2*; 3,22: Cv III VIII 2*; 11,34: Pd I 34* e XXIV 145-146*, Cv III I 1, Ep V 24; 24,14: Cv III XIV 7*; 42,16: Ep XIII 62*.
Isaia: 6,6-7: Mn III I 3; 9,12: Cv I XIII 12; 11,1: Cv IV V 6*; 11,2-3: Cv IV XXI 12; 38,3-8: Pd XX 49-51; 38,8: Ep VII 7; 40,3: Vn XXIV 4*; 40,8: Mn III III 12; 53,4: Mn II XII 5*, Ep VI 25*; 55,9: Quaestio 77*; 55,10-11: Ep V 15; 61,7: Pd XXV 91.
Geremia: 7,4: Pd XXVII I 22-23*; 23,24: Ep XIII 62*.
Lamentazioni: 1,1: Vn XXVIII 1* e XXX 1*, Ep XI 1,3 e 21*; 1,7: Ep XI 4; 1,12: Vn VII 3* e 7*; 5,2: Ep VII 30.
Ezechiele: 1,4-14: Pg XXIX 92-102; 2,1: Ep XIII 80*; 8,16: Ep XI 6; 28,12-13: Ep XIII 76*.
Daniele: 1,8-20: Pg XXII 146; 2,3: Ep XIII 81; 2,12-16: Pd IV 13-15; 2,31-33: If XIV 103-111; 7,10: Pd XXIX 133-135.
I Maccabei: 7,5 ss.: Ep XI 8.
II Maccabei: 3,7-40: Pg XX 113; 4,7-26: If XIX 85.
L'uso del Vecchio Testamento in Dante. - Come nel caso del Nuovo Testamento (v. oltre), risulta che D. aveva una certa conoscenza, e piuttosto approfondita, del Vecchio. Se alcuni libri non vengono citati è solo perché la materia non si prestava. Da un sondaggio, anche approssimativo, risulta che il testo usato da D. è quello della Vulgata, spesso nella recensione dell'università di Parigi (Ω nelle edizioni critiche della Vulgata), altre volte secondo il ‛ testo italico ' (Ψ nelle stesse). Le traduzioni sono fedeli, talvolta con lievi adattamenti al contesto, talvolta in forma latinizzante. In qualche caso è ravvisabile l'uso di un testo antico-latino, tre volte dal Salmo 94 cantato nella liturgia dell'uffizio sempre secondo il testo pregeronimiano (Invitatorio all'uffizio di notte). Ancor più di rilievo una citazione antico-latina di Isaia 55, 9 in Quaestio 77, nel bel mezzo di una serie di citazioni dalla Vulgata (il Quam distant delle edizioni dovrebb'essere, probabilmente, Quantum distant). La versione antico-latina di Isaia era conosciuta attraverso il commento di Girolamo a Isaia, ma è poco probabile che D. lo conoscesse. Il fatto va sottolineato in quanto può fornire un'indicazione sulle fonti di D.; in tal caso si dovrebbe forse tener conto di tutta la serie di citazioni contenute nel paragrafo.
La proporzione di citazioni e allusioni tra i vari libri del Vecchio Testamento è normale per un autore medievale come D.: il Salterio, sempre privilegiato da tutti, raggiunge pressappoco il numero di citazioni dal Vangelo di Matteo. Normale ugualmente è la maggior frequenza di allusioni alla Genesi e il maggior impiego di Isaia in confronto agli altri libri dello stesso gruppo. L'uso dei libri sapienziali, anch'esso non ha in sé nulla di straordinario; altrettanto si dica per i Proverbi che, in D. come in tutti gli altri, è il libro più usato. La frequenza d'impiego di Vecchio e Nuovo Testamento - dato questo comune agli autori suoi contemporanei - è pressoché uguale: 229 volte il Vecchio Testamento (di cui 111 le citazioni) e 200 volte il Nuovo Testamento (di cui 97 le citazioni; v. oltre).
Passando a esaminare le diverse opere di D. noteremo che il Pentateuco è oggetto di abbondanti allusioni nella Commedia (18) e nella Monarchia (16); i libri storici sono usati 14 volte nella Commedia e 9 nelle epistole; i Salmi 16 volte nella Commedia, 9 nel Convivio, 13 nella Monarchia e 12 nelle epistole. Un dato che risalta immediatamente è lo spazio relativamente ampio che il Convivio concede ai libri sapienziali, in confronto alle scarse citazioni dagli altri libri (eccetto i Salmi che ai sapienziali sono vicini). Nella Monarchia, al contrario, oltre a una serie di allusioni al Pentateuco (delle quali 5 all'Esodo e 3 al Levitico, il che testimonia di una certa cultura biblica personale), vanno notate soprattutto le 12 citazioni dai Salmi. Le epistole presentano una migliore ripartizione nell'uso del Vecchio Testamento, con preponderanza dei Salmi e dei Profeti, anche questo segno di una certa cultura biblica. A un'analisi più accurata ci si avvede che D. conosceva anzitutto quei personaggi che svolsero un loro ruolo nel Vecchio Testamento. Dei testi, quelli che conosce a fondo sono - per quel tanto che le sue opere lasciano trasparire - soltanto i Salmi e alcune profezie abbastanza note per l'uso liturgico. Il Convivio è il solo che dimostri una più approfondita conoscenza dei libri sapienziali, citati con ampiezza e in luoghi poco o nulla impiegati nella liturgia. Se ci limitiamo all'uso del Vecchio Testamento, va detto che il Convivio è la sola opera in cui si avverte l'esigenza di una conoscenza più personale del Vecchio Testamento.
L'autorità del Vecchio Testamento. - Anche se, almeno in via teorica, D. riconosce una pari autorità ai due Testamenti, in pratica la sua conoscenza del Nuovo Testamento risulta assai più approfondita che non quella del Vecchio. Al di fuori del Salterio egli conosce di quest'ultimo soprattutto alcuni episodi tra i più frequentemente citati e impiegati nella liturgia, e dei quali non è escluso che vide qualche rappresentazione figurativa nelle chiese. I suoi studi esercitarono probabilmente scarsa influenza sulle sue conoscenze veterotestamentarie; all'epoca, del resto, si studiava più su Summae ed estratti che non direttamente sul testo della Bibbia. È anche dubbio che D. abbia letto almeno una volta la Bibbia per intero, cosa peraltro ben più difficile allora che adesso. I passi scritturali sono usati più come illustrazione che come fonte dottrinale. Quasi mai capita d'incontrare un ragionamento che parta da un testo biblico oppure un'esegesi in qualche misura approfondita. Tutto ciò andava al di là delle preoccupazioni di D. e della maggior parte dei suoi stessi contemporanei. D. considera la Bibbia, sia Vecchio che Nuovo Testamento, come parola di Dio e perciò dotata di autorità decisiva. Ma quello che gli manca è il senso di uno sviluppo della rivelazione: per lui l'autorità dei vari libri è più o meno la stessa.
Quanto al rapporto tra i due Testamenti, D. sa bene, come insegna la Chiesa, che il Vecchio Testamento è una preparazione del Nuovo e che i santi del primo prefigurano il Cristo venturo, eppure egli trae scarsissimo profitto da tale constatazione. Egli certo non aderiva alle teorie di Gioacchino da Fiore (nei cui confronti, peraltro, mostra una decisa ammirazione) sui rapporti tra i due Testamenti, che sarebbero la preparazione di un terzo: il tempo dello Spirito. D. resta nell'alveo della tradizione patristica e degli scrittori ecclesiastici del suo tempo: il Vecchio Testamento prefigura sì il Nuovo, ma non per questo è divenuto caduco in virtù del Nuovo. D'altra parte D. riconosce che l'autorità civile, negli atti di governo, può far ricorso tanto all'antica quanto alla nuova Legge. È quanto afferma a più riprese nella Monarchia: una dottrina, questa, propria del suo tempo, un tempo tutto cristiano in cui non esisteva, come accade oggi, un problema di separazione di poteri.
Nuovo Testamento. - I libri del Nuovo Testamento sono rappresentati da D. in Pg XXIX 92-143, come parte della processione mistica che si snoda sotto i suoi occhi, e precisamente la parte più nobile, posta attorno al carro del grifone. Il carro è attorniato dai quattro evangelisti (quattro animali, vv. 92-105), la cui descrizione è basata sul libro di Ezechiele e sull'Apocalisse. Dietro il carro vengono due vecchi: l'uno rappresenta gli Atti nella persona del loro autore Luca, l'altro è l'apostolo Paolo che impersona il corpus delle lettere paoline. Poi vengono quattro in umile paruta, cioè le lettere cattoliche attribuite a Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda, e infine l'Apocalisse (un vecchio solo / ... dormendo, con la faccia arguta, vv. 143-144). D. conosce e venera questi libri, come testimoniano le numerosissime citazioni e allusioni.
Citazioni esplicite e allusioni palesi al Nuovo Testamento. - Diamo qui di seguito una lista delle citazioni esplicite e delle principali e più evidenti allusioni al Nuovo Testamento, disponendole secondo l'ordine dei libri della Vulgata. Le citazioni esplicite sono contrassegnate da un asterisco (*):
Vangelo di Matteo: 2,11: Mn III VII 1; 3,3: Vn XXIV 4*; 3,4: Pg XXII 151-152; 3,15: Ep VII 14*; 4,6: Cv II V 4; 4,11: Cv II V 4; 5,3: Pg XII 110*; 5,5: Pg XIX 50*; 5,6: Pg XXII 4-6*, XXIV 151-154*, Ep V 3; 5,7: Pg XV 38*; 5,8: Pg XXVII 8*; 5,9: Pg XVII 68-69*; 5,22: VE I XII 5; 5,44: Pg XIII 36*; 5,45: Ep XIII 82*; 6,9 ss.: Pg XI 1 ss.*; 7,15: Pd XXVII 55 *; 7,15-16: Cv IV XVI 10*; 7,21 ss.: Pd XIX 106-108; 10,8: Cv IV XXVII 8*; 10,34-35: Mn III IX 18*; 11,3: Ep VII 7*; 11,11: Pg XXII 153; 11,12: Pd XX 94*; 12,42: Pd XIX 109; 13,57: Cv I IV 11; 14,25 ss.: Pd XXIV 39; 14,28: Mn III IX 12*; 15,2-3: Mn III III 15*; 15,14: Cv I XI 4*; 16,15-16: Mn III IX 10*; 16,18: Mn III X 7, XIII 3*; 16,19: Pg IX 117, Pd XXXII 125-126, Mn III VIII 1-10*; 16,21-23: Mn III IX 10*; 16,24: Pd XIV 106; 17,1: Cv II I 5; 17,1-8: Pg XXXII 73-81, Pd XXV 33, Ep XIII 80; 17,3 ss.: Mn III IX 11*;18,18: Mn III VIII 1*; 18,19-20: Mn II IX 5; 19,21: Pd XII 74-75; 21,9: Pg XXIX 51, XXX 19*, Pd VIII 29; 21,12 ss.: Pd XVIII 122; 21,16: Ep XI 10*; 21,41: Ep V 6*; 22,21: Pg VI 93, Cv IV IX 15*, Ep V 27; 22,30: Pg XIX 137*; 25,14 ss.: Mn I I 3; 25,31-46: Pd XIX 110-111; 25,34: Pg XXVII 58*; 26,33-35: Mn III IX 13*; 26,48: Pg XXI 84; 26,50: Pg XX 87; 26,53: Cv II V 4; 26,73: If X 25*; 27,5: Ep VII 24; 27,46: Pg XXIII 74; 27,51 ss.: Pd VII 48; 28,2-3: Cv IV XXII 15*; 28,20: Mn III III 13*.
Vangelo di Marco: 1,8: Ep XI 15; 6,21 ss.: Pd XVIII 134-135; 6,48: Ep XI 12; 11,10: Vn XXIII 7*; 12,31: Pg XVII 58; 14,29 ss.: Mn III IX 13-14; 15,34: Pg XXIII 73-74; 16,1: Cv IV XXII 14; 16,6-7: Cv IV XXII 16*; 16,15: Pd XXIX 109-111.
Vangelo di Luca: 1,26-27: Pg X 34, Cv II V 4; 1,28: Pg X 40, Pd III 121-122, XVI 34, XXXII 95; 1,28: Pg XXIX 85*; 1,34: Pg XXV 128*;1,38: Pg X 44*;1,39: Pg XVIII 100*;1,42: Pg XXIX 85-87; 2,1: Cv IV V 8, Mn II VIII 14*, II XI 6 ss., Ep VII 14; 2,9 ss.: Pg XX 140; 2,14: Pg XX 136, Pd I 1-4, Vn XXIII 7, Mn I IV 3*, Ep XI 26; 2,48: Pg XV 89-92*; 6,38: Mn II III 5*; 7,13: Ep XI 13; 10,4: Mn III X 14; 10,41-42: Cv IV XVII 10*; 11,17: Mn I V 8*; 11,27: If VIII 45*; 16,9: Cv IV XI 12*; 16,22: Pd XIX 110-111; 21,28: Ep V 15; 22,7: Mn III IX 3*; 22,14: Mn III IX 4*; 22,33: Mn III IX 14; 22,35-36: Mn III IX 5; 22,38: Mn III IX 1*, 8*; 23,11: Mn II XI 6; 23,44: Cv IV XXIII 11; 23,45: Pd XXIX 99; 24,15: Pg XXI 7-9; 24,36: Mn I IV 4*.
Vangelo di Giovanni: 1,1-2: Cv III XIV 7; 1,3-4: Mn II II 4*; 1,9: Cv II V 3*; 1,29: Pg XVI 18-19*, Pd XVII 33, Ep VII 10*; 2,3: Pg XIII 29*; 2,14 ss.: Ep XI 6; 4,1-15: Pg XXI 1-3; 6,9-13: Cv I XIII 12; 8,21: Quaestio 77*; 9,38: Ep XI 10; 10,14: Ep V 17; 11,47: If XXIII 122; 11,47-53: If XXIII 115-117; 11,51: Mn II XI 6; 13,6: Mn III IX 15*; 13,8: Mn III IX 15*;13,15: Mn III XIII 4*;13,25: Pd XXV 112-113; 14,6: Cv II VIII 14; 14,27: Cv II XIV 19*; 15,19: Ep III 8*; 16,16: Pg XXIII 10-12*; 17,3: Ep XIII 89*; 17,4: Mn III XIV 3*; 18,10: Mn III IX 16; 18,13-14: If XXIII 121; 18,36: Mn III XIV 5*; 19,11: Ep V 28; 19,23-24: Mn I XVI 3, III X 6;19,25: Pd XI 71;19,26-27: Pd XXV 114, XXXII 127-129; 19,30: Mn II XI 3*; 19,34: Pd XIII 40-42, Mn III X 6; 20,4: Pd XXIV 126; 20,5-6: Mn III IX 16; 20,15: Pd XII 71; 20,23: Mn III VIII 2; 21,7: Mn III IX 16*; 21,15-17: Ep XI 3; 21,19: If XIX 93*; Mn III XV 4*; 21,21: Mn III IX 16*; 21,23: Pd XXV 121 ss.
Atti degli Apostoli: 1,1: Mn III IX 19*; 1,26: If XIX 96, Mn II VII 9; 5,1 ss.: Pg XX 112; 8,9-20: If XIX 1; 9,5: Ep V 14*; 9,12: Pd XXVI 12; 9,15: If II 28; 10,34: Cv IV XX 3; 22,6: Pd XXX 49*; 25,10: Mn III XII 5*; 27,24: Mn III XII 5*; 28,19: Mn III XII 5*.
Lettere di s. Paolo: Lettera Ai Romani 1,20: Mn II II 8*, Ep V 23*; 1,25: Ep XIII 90*; 2,4: Ep XI 7; 2,28-29: Cv IV XXVIII 10*; 5,12: Mn II XI 2*; 7,23: Ep VI 22; 11,33: Cv IV XXI 6*, Mn II VIII 10*, Quaestio 77*; 12,3: Cv IV XIII 9*; 13,2: Ep V 14*, VII 27*.
I Lettera Ai Corinzi: 3,11: Mn III X 7*; 9,24: Cv IV XXII 6*; 15,10: Ep XI 9*.
II Lettera Ai Corinzi: 6,2: Ep V 2*; 12,3-4: Pg XVI 41-42, Ep XIII 79*; 12,11: Ep XI 19.
Lettera Ai Galati: 4,4: Mn I XVI 2.
Lettera Agli Efesini: 1,5-8: Mn III XIII 6*; 4,10: Ep XIII 76*; 4,17: Ep V 29*.
Lettera Ai Filippesi: 1,23: Mn III XIII 6*.
Lettera Ai Colossesi: 3,20: Cv IV XXIV 17*.
I Lettera Ai Tessalonicesi: 5,8: Mn III I 3.
II Lettera A Timoteo: 4,8: Mn II X 8*.
Lettera Agli Ebrei: 1,1: Cv II V 1*; 11,1: Pd XXIV 64-65*; 11,6: Mn II VII 5*.
Lettere cattoliche: Lettera di Giacomo: 1,5: Pd XXV 29 e 77, Mn I I 6*; 1,17: Cv IV XX 6*; 5,7: Cv IV II 10*.
I Lettera di Pietro: 2,17: Ep V 30.
Apocalisse: 1,8: Pd XXVI 17, Ep XIII 90; 4,8: Pg XXIX 104-105; 7,9: Pd XXV 94-95; 12,7 ss.: If VII 11-12; 17,1-8: Pg XXXII 143; 17,3: If XIX 106-111; 19,9: Pd XXIV 1-2; 20,14: If I 117.
L'uso del Nuovo Testamento in Dante. - Se analizziamo i dati riportati - forzatamente incompleti a paragone delle allusioni implicite ricorrenti nella Commedia - si vede subito che D. fa molto più ricorso ai Vangeli che agli altri libri del Nuovo Testamento. Dall'elenco delle frequenze dei rimandi accertati al Nuovo Testamento risulta infatti: Matteo 70 rimandi (36 citazioni, 34 allusioni), Giovanni 48 (19 cit., 29 all.), Luca 42 (19 cit., 23 all.), Marco 10 (3 cit., 7 all.), Atti 13 (6 cit., 7 all.), Lettere di s. Paolo 31 (25 cit., 6 all.), di cui 13 all'Epistola ai Romani (11 cit., 2 all.), Lettere cattoliche 6 (3 cit., 3 all.), Apocalisse 9 (solo allusioni).
Come si vede i rimandi ai Vangeli sono 170, mentre sono solo 59 quelli agli altri libri del Nuovo Testamento. Noteremo ancora che, a parte i Vangeli, D. si serve soprattutto di s. Paolo, mentre l'Apocalisse non è mai citata esplicitamente. Le citazioni sono tratte di preferenza dai libri letti più spesso nella liturgia, quali Matteo, Giovanni, l'esordio di Luca e l'Epistola ai Romani (153 rimandi contro 66). Più che i miracoli e le parabole, D. riporta le parole del Signore e degli Apostoli. L'esiguo numero di allusioni all'Apocalisse conferma questa constatazione. Peraltro, questo esiguo numero non può non meravigliare nell'autore della Commedia: immagini e descrizioni dell'altro mondo D. poté trovarle altrove o, perlomeno, non le trasse direttamente dal Nuovo Testamento. In esso, infatti, cercò più che altro elementi dottrinali.
Taluni gruppi di citazioni potrebbero derivare da usi di scuola o da fonti teologiche a lui accessibili. Tali, ad esempio, le sette citazioni di Mn III IX e X tratte da Luc. 22 o, ancora, le tre citazioni di Mn III XIII 5 tratte dalla fine degli Atti, la terza delle quali contiene una glossa certamente anteriore.
Da un esame delle singole opere dantesche risulta che il numero delle citazioni e delle allusioni al Nuovo Testamento è piuttosto incostante. Nell'Inferno abbiamo solo 12 rimandi (3 citazioni e 9 allusioni, delle quali 3 tratte dall'Apocalisse), mentre nel Purgatorio salgono a 47, 18 delle quali - cosa rara nella Commedia - sono citazioni. Nel Paradiso il numero delle citazioni scende a 5 mentre le allusioni raggiungono il numero di 33. A voler trarre delle conclusioni da questi dati, sembra che per D. la S. sia più che altro un libro di meditazione per la vita terrena, considerata come periodo di transizione e di penitenza. Nella Vita Nuova, De vulg. Eloq. e Quaestio, il Nuovo Testamento compare assai raramente (rispettivamente 3, 1 e 2 volte), in quanto non si prestava la materia. Nel Convivio citazioni e allusioni si trovano soprattutto nel IV trattato (Cv I: 1 cit., 2 all.; Cv II: 3 cit., 5 all.; Cv III: 1 all.; Cv IV: 14 cit., 4 all.). Lo stesso accade nellaMonarchia, dove il III libro contiene molti più richiami al Nuovo Testamento dei due precedenti (Mn I: 5 cit., 2 all.; Mn II: 10 cit., 5 all.; Mn III: 31 cit., 10 all.). Questi due casi sono spiegabili, in parte, con il contenuto dei trattati. Nelle epistole il Nuovo Testamento è usato solo in Ep III (1 cit.), V (6 cit., 6 all.), VI (1 all.), VII (4 cit., 2 all.), XI (2 cit., 9 all.), e XIII (5 cit., 2 all.). L'uso delle lettere paoline è relativamente frequente: su 38 richiami al Nuovo Testamento nelle epistole, le lettere paoline - che in tutta l'opera dantesca vengono richiamate 31 volte - sono citate 12 volte.
Considerando i soli trattati e le epistole, D. ci appare uomo capace di scegliere con maestria i testi adatti al proprio argomento e ai suoi lettori, ma non diversamente da tanti uomini di scuola e da tanti cancellieri ecclesiastici; la Commedia, invece, ci mostra un D. che vive realmente e pienamente la vita della Chiesa, e per il quale la S. rappresenta la fonte spirituale e dottrinale per eccellenza. Pertanto, tranne qualche eccezione, siamo inclini a credere che la conoscenza del Nuovo Testamento deriva a D. soprattutto dall'uso liturgico praticato dalla Chiesa del tempo.
Versione del Nuovo Testamento usata da Dante. - Quando D. cita il Nuovo Testamento in latino si avvale della traduzione - in gran parte di s. Girolamo - detta Vulgata, che all'epoca era di uso corrente. Talvolta egli introduce qualche minima variante nei testi, ma senza mutarne il senso, secondo un procedimento abituale negli ambienti universitari del tempo. Con ogni probabilità D. conobbe e usò entrambi i tipi della Vulgata allora correnti: quello detto dell'università di Parigi e il ‛ testo italico '. Una certa preferenza si nota per il ‛ testo parigino '.
È poco probabile che D. usasse una traduzione italiana, già esistente, della Bibbia. Traduzioni del genere cominciavano solo allora ad apparire. In VE I X 2, si parla di una traduzione in lingua d'oil, il che sembra indicare che ancora non ne dovevano esistere in italiano. Da notare, peraltro, che i cori che D. ascolta nel Purgatorio e nel Paradiso sono il più delle volte in latino se si tratta di un testo biblico o liturgico, mentre se si tratta di adattamenti sono riportati in volgare. È probabile, quindi, che fu D. stesso a tradurre i vari passi biblici da lui citati, operando gli opportuni adattamenti richiesti dalla sua lingua. Le poche varianti che si riscontrano nei passi biblici tradotti più di una volta nelle sue opere, confermano tale constatazione. Un più approfondito studio delle prime traduzioni italiane della Bibbia potrebbe comunque riservare altre sorprese. Ad esempio, la citazione assai libera di Luc. 21,28 di Ep V 15, potrebb'essere senz'altro un adattamento personale di D., ma potrebbe anche costituire l'indizio dell'uso di una qualche fonte volgare. Le varianti individuabili nei passi biblici tradotti possono infatti provenire indifferentemente tanto da D. quanto dall'uso di una fonte.
Autorità del Nuovo Testamento. - D. afferma più volte che Dio è l'autore principale della S.; chi altera la verità insegnata dalla S. non pecca contro Mosè, David, Giobbe, Matteo o Paolo, ma pecca contro lo Spirito Santo che parla in loro: Nam quanquam scribae divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est (Mn III IV 11; la stessa affermazione è in XV 9 e Pd XXIX 41). L'autorità della S. viene quindi da Dio. In essa egli manifesta giudizi che sono inaccessibili alla ragione umana (Mn II VII 4). La S. precede la Chiesa e quindi, per essa, è anche regola di verità (III III 12).
In tutti questi passi D. parla di ambedue i Testamenti, ma lo stesso dirà anche di un solo libro del Nuovo Testamento (cfr. soprattutto Pd XXIV 93 e 135 ss., XXIX 41, 90 ss. e 114). La S. contiene la legge divina (Mn III XIII 4) e per questo è guida sicura per il cristiano (Pd V 76, XXV 88 ss.). D., almeno in teoria, accomuna i due Testamenti a un medesimo livello d'ispirazione, ma senza conferire, ad esempio, un valore eccezionale alle parole di Gesù. In questo egli si rivela un tipico rappresentante del cattolicesimo medievale, per cui la S. più che fonte di vita cristiana (per questa ci si rivolgeva soprattutto alla Chiesa come istituzione) era considerata un'autorità per la fede.
La S. nella vita cristiana. - D., comunque, si lamenta più volte della perdita d'influenza del Vangelo sulla vita cristiana del suo tempo. Non a caso ricorda quei predicatori che per cupidigia, ma ancor più per vanità e frivolezza, ne hanno abbandonato l'insegnamento (Pd IX 133, XXIX 96). Un modo di entrare più facilmente in possesso della dottrina scritturale è comunque offerto al cristiano dalla dottrina dei sensi della S. (v. oltre), di cui D. stesso dà un esempio esponendo il senso morale del racconto della trasfigurazione (Cv II I 5). Ma dove D. mostra chiaramente come la S. deve illuminare la vita cristiana, è nella Commedia: qui la S. è restituita al suo vero significato, qual era letta ed esposta nella liturgia del tempo e qual era intimamente vissuta da ogni cristiano desideroso di vivere e comprendere il valore della propria fede.
Bibl. - J. Bernardi, D. e la Bibbia, in D. e il suo secolo, a c. di G. Ghivizzani, Firenze 1865, 571-589; C. Cavedoni, Raffronto tra gli autori biblici e sacri e la D.C., città di Castello 1896; E. Moore, Studies in D., serie prima, Oxford 1896; L. Negri, D. e il testo della ‛ Vulgata ', in " Giorn. stor. " LXXXV (1925) 288-307; E. Rostagno, D. e il testo della Vulgata', in " Studi d. " X (1925) 122-127; G. Marzot, Il linguaggio biblico nella D.C., Pisa 1956; F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962²; H. De Lubac, Exégèse mediévale, Parigi 1963, 319-326; L. Ricci Battaglia, Dall'Antico Testamento alla " Commedia ", in " Rivista di Letteratura Religiosa " VII (1971) 252-277.
Sensi della scrittura. - Nell'opera di D. le espressioni allegoria (v.), senso morale (v.) e senso litterale (v.) tornano più di quaranta volte; altrove D. invita il lettore (cfr. If IX 61 ss.) a oltrepassare il significato comune delle parole per ricercare ciò che sta dietro l'immagine; ancora più spesso, nel citare il Vecchio o il Nuovo Testamento (specie nel Convivio), è D. stesso a far da guida nell'applicazione allegorica che egli compie del passo biblico.
Ciò costituisce un problema letterario e storico la cui chiave è non solo utile, ma necessaria alla giusta interpretazione dell'intera opera dantesca, sia in prosa che in poesia. A tale scopo nel primo paragrafo presenteremo il pensiero di D. e le espressioni usate per parlare dei sensi della S.; nel secondo cercheremo le fonti del suo pensiero e i modi in cui ne rimase influenzato; nel terzo, infine, tenteremo di far vedere come l'allegorismo di D. poeta e l'uso allegorico che egli fa della S. costituiscono nel loro insieme un unico problema di ordine psicologico, letterario e storico.
1. Nella Commedia D. invita a più riprese il lettore a penetrare con attenzione il senso nascosto: O voi ch'avete li 'ntelletti sani, / mirate la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani (If IX 61-63); Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché 'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggero (Pg VIII 19-21); Così parlar convieni al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno (Pd IV 40-42). Come si vede, dottrina, vero e lume (Pg XXXIII 75) sono coperti di un rivestimento che, per così dire, ha una funzione analoga a quella delle parabole evangeliche: quelli che non comprenderanno saranno forse scusati di una simile durezza d'intelletto e di cuore, in ragione delle ombre e del velo; ma quelli che entreranno nel mistero godranno di una luce ben più viva che non se avessero ricevuto la verità in termini chiari e perciò forzatamente inadeguati.
Sicché, per gettare maggior luce sul senso profondo degli scritti di D., converrà esaminare alcuni passi della S. da lui citati e il modo in cui li comprende e li utilizza. Tralasceremo Ps. 113,3 di Pd XXII 94-96, in quanto il miracolo del Giordano gli serve solo come termine di paragone per un ragionamento a fortiori. In Cv III XI 12, Prov. 8,17 corrobora e sostiene un ragionamento, così com'è solito fare anche Tommaso: si tratta dell'‛ argomento di scrittura ' degli scolastici, un'affermazione cioè basata su un'‛ autorità ' precedente e che orienta l'‛ argomento di ragione ', che è l'esame critico del dato tradizionale. In Cv III XV 16, l'uso di Prov. 8, 27-30 è già più significativo, in quanto l'elogio che il Sapiente (l'autore dei Proverbi, che va sotto il nome di Salomone) compie della Sapienza divina, era stato letto dai cristiani dei primi secoli come un abbozzo o una descrizione velata del Logos creatore. L'impiego di questo testo veterotestamentario in senso cristianizzato (la Sapienza non è più un semplice attributo divino, ma diventa ‛ persona ' sussistente) se di per sé non desta meraviglia, conferma però la familiarità di D. con la lettura cristiana della Bibbia.
Ma due passi soprattutto ci consentono di meglio cogliere la dialettica di D.: Cv II XIV 20 (dov'è citato Cant. 6,7-8) e Cv II V 5 (dov'è citato Cant. 8,5). Si tratta, si badi bene, non della Commedia ma del Convivio, non di un poema sostenuto dall'allegoria ma di un'opera filosofica.
Il Cantico dei Cantici (un ebraismo che significa ‛ il canto per eccellenza ') si presenta come una raccolta di poemi amorosi, erotici anzi, introdotta nel canone delle S. ispirate soltanto in funzione del suo valore figurale. La Vergine d'Israele (il popolo eletto) fu ricercata dall'Eterno con un fervore e una perseveranza infinitamente più grandi di quelle che lei mette nel corrispondergli, anche negli slanci più sinceri.
Questa linea interpretativa corrisponde pressappoco a quella dei rabbini che avevano ammesso il Cantico nel canone, tuttavia gli antichi cristiani non rimasero indietro: la fidanzata divenne (senso allegorico) la Chiesa, e la separazione che la fa gemere, talora (senso tropologico) sta a indicare il momento in cui Gesù si cela per metterci alla prova, lasciandoci a pregare nella scarna condizione della nuda fede, talora (senso anagogico) sta a indicare la vita di quaggiù che ritarda la definitiva unione, quell'unione perfetta in cielo alla quale la sposa anela.
In Cv II V 5, D. prosegue l'esposizione, iniziata nei capitoli precedenti, della prima strofa della canzone Voi che 'ntendendo; in esso D. torna sulla natura e il ruolo delle creature angeliche e di Gabriele in particolare. Questi puri spiriti sono quasi innumerabili perché questo insegna la Chiesa, essa che è sposa e secretaria di questo nostro Salvatore, e di cui Salomone afferma (Cant. 8,5): " Chi è questa che ascende del diserto, piena di quelle cose che dilettano, appoggiata sopra l'amico suo? ". D. prosegue: è la Chiesa, quindi, che suddivide queste creature spirituali in tre gerarchie di tre ordini ognuna.
Qual è la portata della citazione in questo contesto? Da un punto di vista letterario, e più precisamente retorico, si tratta di un inciso illustrativo dove, per rafforzare l'autorità della tradizione ecclesiastica che riconosce (tiene e afferma) nove ordini angelici, D. sottolinea l'unione della Chiesa-sposa col salvatore, signore degli angeli; un'idea, peraltro, espressa in maniera felice. Da un punto di vista teologico, D. riprende il classico tema del matrimonio di Cristo con la Chiesa, di cui abbondano sia la liturgia che le quaestiones quodlibetales.
Se dall'uso pratico dell'allegoria biblica passiamo all'esposizione teorica, è a Cv II I che dobbiamo ricorrere. In esso è contenuta l'esposizione più completa e più chiara del pensiero di D. sul senso - o meglio - sui sensi delle Scritture. D., sul punto di commentare la prima canzone, intende definire la dialettica in virtù della quale, soltanto, sarà possibile trarre nutrimento da quella (che più profittabile sia questo mio cibo, § 1). Egli rimanda a quanto aveva scritto in Cv I I 18 (con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata).
In altre parole, oltre l'espressione comprensibile a tutti, l'opera poetica è suscettibile di un significato nascosto. Le scritture infatti, continua D., possono e debbono venir interpretate a quattro livelli:
a) secondo il senso letterale che non va al di là delle favole dei poeti (Orfeo che affascina gli animali).
b) secondo il senso allegorico, che scopre invece la veritade ascosa sotto bella menzogna (II I 3): la lira o cetra di Orfeo è l'umana voce del sapiente che rende miti e dolci i cuori crudeli. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato (Cv II I 4). Qui, è bene notarlo, siamo intorno al 1305, quando D. ha ancora tempo per evolversi, come poi evolverà; quella che ci dà qui è la chiave del suo lavoro e il senso del Convivio.
c) secondo il terzo senso, il morale, che ha una funzione edificante in quanto istruisce sulla maniera di vivere (per via di esempio e di applicazione ai casi analoghi, diremmo noi).
d) infine secondo il senso superiore o sovrasenso, detto ‛ anagogico ', il quale considera le realtà terrene come segni delle superne cose de l'etternal gloria: se storicamente è certo che la Giudea fu liberata da Babilonia, tuttavia quello che spiritualmente s'intende è che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.
Spesso il problema è stato mal posto, anche dagli stessi moderni e dagli storici, per il fatto che una metafora (Gesù agnello di Dio, Ioann. 1,29) rientra evidentemente nell'ambito del senso letterale o storico, come tutto ciò che è retorico o fa comunque parte del modo letterario di esprimersi. Anche se la parabola - soprattutto nel linguaggio profetico e apocalittico - tende ad avere dei tratti allegorizzanti, non c'è bisogno di esegesi allegorica per la lettura di Ioann. 10,11 dove Gesù è chiamato pastore di pecore; è la stessa lettera di Giovanni a esigere tale trasposizione. Non c'è dubbio, tuttavia, che l'antichità cristiana - già prima di Origene, probabilmente in seguito all'insegnamento orale di Gesù e, in ogni caso, di s. Paolo - lesse la Bibbia ebraica o greca cercando di andare oltre il senso che avevano di mira il salmista o il profeta.
Non sarà male porre a confronto Cv II I (v. per questo anche LITTERALE) con l'epistola a Cangrande, dove l'autore spiega al suo protettore la pluralità di sensi della Commedia. Egli oppone il senso qui habetur per litteram al senso qui habetur per significata per litteram e che egli chiama allegoricus sive moralis sive anagogicus (Ep XIII 20). Al § 22 è usato il plurale sensus mistici, i quali possono dirsi tutti insieme allegorici cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab " alleon " [così, per ‛ alloion '] graece, quod in latinum dicitur " alienum ", sive " diversum ". Il passo, pur contenendo alcune sfumature nei confronti di Cv II I, ha il vantaggio di chiarire, se non di risolvere, l'abituale ambiguità di vocabolario in questo campo. Gli autori medievali, infatti, parlavano con apparente disinvoltura di sensi mistici, sensi allegorici e sensi spirituali, laddove noi distingueremmo tra senso allegorico propriamente detto o figurale, senso morale o tropologico e senso anagogico o riguardante le realtà escatologiche.
2. Il sistema di D. è classico per la sua epoca; egli ha così il merito della coerenza. Quali le fonti? Quelle lontane sono patristiche: Agostino e Cassiano avevano ampiamente esposto la teoria del quadruplice senso della Bibbia, e tutti gli scrittori ecclesiastici e i teologi posteriori non avevano fatto che proseguire sulla loro traccia. Tuttavia, il critico e lo storico della letteratura non può non rilevare che un'altra suddivisione, non più quadruplice ma triplice, si era conservata lungo l'alto e il basso Medioevo, e ciò sulla scia di Girolamo che l'aveva derivata da Origene: historialiter, moraliter, spiritualiter, secondo la formula di Beatus di Liebana, oppure, secondo l'enumerazione di Ugo di San Vittore: historia, allegoria, tropologia.
La scelta di D. fu dunque deliberata, e questo val la pena sottolinearlo, considerato l'assai forte influsso che lo scrittore vittorino ebbe sul pensiero del poeta. Resta peraltro assai facile identificare la fonte diretta da cui D. derivò la propria preferenza per la formula a quattro termini. Data l'incontestabilità dell'influenza tomista per altre opere o passi danteschi, possiamo a priori prendere in considerazione la Summa theologiae. Alle soglie stesse del suo edificio dogmatico (intorno al 1268), con l'intento di darne la chiave, Tommaso si spiega con chiarezza in materia di esegesi dei libri sacri e di dialettica del teologo. Afferma infatti (Sum. theol. I I 1): " Auctor sacrae scripturae est Deus in cuius potestate est ut non solum voces ad significandum accommodet (quod etiam homo facere potest) sed etiam res ipsas. Et ideo cum in omnibus scientiis voces significant, hoc habet proprium ista scientia quod ipsae res significatae per voces etiam significant aliquid. Illa ergo prima significatio qua voces significant res pertinet ad primum sensum qui est sensus historicus vel litteralis. Illa vero significatio qua res significatae per voces iterum res alias significant dicitur sensus spiritualis qui super litteralem fundatur et eum supponit... Secundum ergo quod ea quae veteris legis significant ea quae sunt novae legis est sensus allegoricus. Secundum vero quod ea quae Christum significant sunt signa eorum quae nos agere debemus, est sensus moralis; prout vero significant ea quae sunt in aeterna gloria est sensus anagogicus ".
D. resta intimamente debitore della corrente teologica latino-medievale. Ma per lui il problema dei sensi delle S. è un problema attuale, non già un dato del passato. Prova ne sia che le sue citazioni bibliche presuppongono sempre quest'esegesi ben determinata, quasi sempre al di là del senso ovvio delle formule e ricca delle conclusioni teologiche di cui, allora, quei testi venivano caricati.
C'è davvero bisogno di trovare un fondamento a questa dialettica? Per lo spirito di D., e per quello dei contemporanei suoi pari, a legittimare questo procedimento è sufficiente che la Chiesa, in particolare la liturgia, vi faccia ricorso; basta, ad esempio, che la Sapienza, che è un attributo divino, parli come se fosse essa stessa Dio creatore, perché venga scoperto un senso nuovo per il passo di Prov. 24. In questo senso allegorico i credenti, e D. con loro, scoprono un insegnamento che trova il suo prolungamento in quegli altri passi scritturali dove si parla della divinità del Logos o dell'unione di Cristo con il suo corpo mistico.
Date queste circostanze psicologiche e storiche, questo contesto dottrinale e questa struttura mentale, era fatale, normale direi, che D. generalizzasse spontaneamente l'allegorismo. Oggettivamente, la base di una trasposizione del genere non è altro che l'analogia, non nel senso tecnico in cui i teologi parlano di analogia della fede, ma nel senso banale di figure geometriche simili e di equivalenza di rapporti. Quando D. parla di ragionate similitudini (Cv II XV 1), specifica dettagliatamente le tre simiglianze (moto, luce, relazione o perfezione) che i cieli hanno con le scienze.
Nella voce sul senso letterale (v. LITTERALE) abbiamo citato il distico latino in cui questa quadruplice linea interpretativa delle S. - classica nel Medioevo - viene riassunta. Però sorge un problema erudito estremamente importante e assai poco conosciuto, e che bisogna chiarire se vogliamo procedere con metodo.
Rari sono i medievisti che si sono interessati all'educazione nel basso Medioevo, ma ancora più rari quelli (Engels, Quain, Huyghens, Jean Leclercq) che hanno compiuto ricerche su come gli autori classici pagani venivano insegnati ai fanciulli del XII e XIII secolo. La formazione letteraria dei chierici era evidentemente impensabile senza la frequentazione e l'utilizzazione degli autori classici pagani. Orbene, l'Umanesimo cristiano, soprattutto nel XII e XIII secolo, poggiava su due principi strettamente complementari: da un lato, l'ottimismo nei confronti degli autori profani (tutto quanto fu detto di vero, di buono o semplicemente di bello [cfr. Phil. 4,8] anche da parte dei pagani, appartiene ai cristiani; si trattava in questo caso di una nuova spoliatio Aegyptiorum, cfr. Exod. 11,2 e 12,35; si parlava anche di captiva gentilis, cfr. Deut. 21, 10-13), dall'altro lato, la necessità di fornire un'interpretazione allegorica - cioè una trasposizione cristiana o, quanto meno, moralmente accettabile - di quei testi. A tal fine le scuole applicavano ai classici gli stessi procedimenti allegorici impiegati per la lettura del Vecchio Testamento.
La riscoperta di questo metodo pedagogico ha reso caduche, da questo punto di vista, opere assai meritevoli per la loro epoca, come quella di G. Curcio (Q. Orazio Flacco studiato in Italia dal sec. XII al XVIII, Catania 1913); Orazio infatti, al tempo in cui D. era scolaro, era presentato altrettanto spesso come moralista (ethicus) che come pagano (ethnicus). Gli uomini di scuola avevano tanto radicalmente " convertito " al cristianesimo gli autori greci o romani (l'espressione è di Rabano Mauro) che molti, in buona fede, credettero al battesimo e alla professione cristiana di Ovidio, così come D. lo crederà di Stazio (per non parlare del ruolo di Virgilio nell'Inferno e nel Purgatorio!).
Insomma, esisteva uno stretto parallelismo tra il modo di cristianizzare il Vecchio Testamento per strapparlo ai Giudei, e il modo di moralizzare i classici, spogliandoli delle loro indegne favole, per farne gli ausiliari della lingua e del pensiero cristiano. Pensiero profano e dottrina rivelata erano chiamati a un reciproco aiuto. Il fatto va sottolineato proprio perché questo atteggiamento psicologico costituirà uno dei tratti più rilevanti dell'Umanesimo rinascimentale. Il Redig de Campos (cfr. Les chambres de Raphael, Roma 1954) ha dimostrato in modo definitivo che i due affreschi della Stanza della Segnatura sono cosa ben diversa dalla Scuola d'Atene e dal Trionfo dell'Eucaristia, come si era soliti chiamarli.
Questo è il modo per riuscire a cogliere le fonti, generali o specifiche, da cui D. trasse il fondamento del quadruplice senso delle S., la cui dialettica lo indusse ad applicarne le regole alla propria opera poetica.
3. A questo punto, nuovo problema: quale uso fece D. del diritto che egli rivendica all'allegorismo? Anzitutto, e nessun dantologo potrà contestarlo, è questa la prospettiva in cui fu scritta la Commedia. Il commentatore che si attenesse all'esame grammaticale e stilistico, all'analisi delle immagini o alla ricerca delle fonti farebbe sì opera necessaria, ma verrebbe meno all'essenziale. Anche quel moralista che, partendo dalle pene descritte nell'Inferno e nel Purgatorio, volesse trarre una semplice ‛ conclusione morale ' o volesse esporre la concezione morale di D., senza però procedere a un'analisi sulla linea e secondo i metodi propri del senso ‛ tropologico ', quel moralista approderebbe forse a gravi incongruenze. La Commedia è sorta dalla mente e dal cuore di un ‛ teologo ' che il nostro secolo qualificherebbe ‛ impegnato ', e theologus D. ha coscienza di esserlo. Né si venga a obiettare con l'espressione di Cv II I 4 altrimenti che li poeti: essa riguarda nient'altro che il commento alla prima canzone. Certo, non si può negare che spesso, anche in un'opera altamente dogmatica come la Commedia, D. si lascia andare ai modi poetici dell'allegoria: ma la diversa natura di ognuna delle opere esige che l'interprete non creda applicabili indistintamente alla Monarchia, al Convivio e alla Commedia i postulati validi per una sola di esse.
L'allegorismo della Commedia, la necessità di decifrarne i simboli, sono di un ordine tutt'affatto diverso dal compito di chi ne interpreta o ne esplicita le allusioni storiche più o meno chiare. Malgrado il numero e la vastità delle Lecturae Dantis, uno sforzo - enorme - in questa direzione è senza dubbio ancora da compiere. Uno sforzo che, d'altra parte, dovrebbe evitare di presentare D. come un esoterico qualunque dalle intenzioni profane: le leggi dell'entmythologiesierung di D. non sono tali e quali quelle del quadruplice senso; esse devono venir adattate con elasticità alle esigenze della poesia.
Da questo punto di vista il Convivio rappresentò una svolta formidabile nell'evoluzione del pensiero dantesco. E se consideriamo che più volte, e con molta chiarezza, D. ha esposto i criteri del proprio allegorismo, sarebbero imperdonabili quegli esegeti e quegli storici del suo pensiero che non comprendessero origine e direzione di tale linea evolutiva.
Scritta in una prospettiva lirica, se non addirittura passionale (Cv II XII 1 e 8), la prima canzone del Convivio a poco a poco (niente si sa, ma è lecito ritenere che ciò avvenne piuttosto per progressiva maturazione, anche se i trenta mesi del § 7 vengono riferiti allo studio e non all'iniziale illuminazione) diviene il punto focale da cui prorompe fulmineo l'abbaglio luminoso intellegibile: ogni parola amorosa è sublimata, ogni pensiero si fa etereo; Beatrice da dama bella, onesta e saggia, diviene un'Idea. Le parole che la cantavano assumono una pienezza che non conviene ad altri che all'amore per la Sapienza (XV 10, XII 2). Sul piano intellettuale, l'allegorismo biblico avviò la mente di D. verso il simbolismo, proprio come, su un piano diverso, l'amore per Beatrice schiuse il suo cuore all'amore per la Sapienza. D. considerò o no le realtà spirituali come proiettate nel vuoto infinito delle realtà materiali (sublimazione dell'eros)? Egli, da platonico, ritenne le seconde come ombre delle prime, oppure riconobbe a entrambe un proprio valore? Non si può non ammettere che l'analogia ricercata sul piano letterario esprime una struttura profonda del cuore umano.
Certo, lo sappiamo bene, quando un autore parla di sé e della propria opera non ci si può fidare pienamente, specie se è un poeta; c'è sempre spazio per il sospetto della messinscena, della sistematizzazione a posteriori. Ed è perciò degno di rilievo che, dopo aver operato il proprio mutamento spirituale e dopo aver stabilmente inserito nella propria struttura mentale l'allegorismo, D. lasci incompiuto il Convivio e si lanci nell'opera enorme della Commedia.
Bibl. - Per il § I sono da vedere, oltre le bibliografie generali su D. e le voci ALLEGORIA e BIBBIA: C. Cavedoni, Raffronto tra gli autori biblici e sacri e la D.C., città di Castello 1896; G. Poletto, La Santa S. nelle opere e nel pensiero di D.A., Siena 1909; J. Gribomont, Le lien des deux Testaments selon la théologie de s. Thomas, in " Ephemerides Theologicae Lovanienses " XXII (1946) 70-89; L. Pietrobono, L'Epistola a Can Grande, in Nuovi saggi danteschi, Torino 1954, 199-244; C. Larcher, L'actualité chrétienne de l'Ancien Testament d'après le Nouveau Testament, Parigi 1962; A.M. Pellicani, D. vero. Nel poema della Grazia l'apologia della Ragione, Padova 1964 (spec. la parte I: La simbologia dantesca); P. Synave-P. Benoit, Traité de la prophétie (S. Thomae Aquinatis Summa Theologiae II II 171-178), Parigi 1969²; A. Becker, Poésie et mystique. Le thème claudélien des ‛ sens spirituels ', in " Revue des Sciences Religieuses " XLIII (1969) 118-148.
Per il § II nella Patrologia Latina si possono trovare quegli autori (scuola di Chartres ma anche Abelardo) che avevano tentato d'interpretare i poeti e i filosofi pagani oltrepassando quello che chiamavano il loro integumentum o involucrum; si trattava, cioè, di togliere a Platone, Ovidio e persino a Boezio, il ‛ manto ' favoloso sotto cui era celata, agli occhi dell'uomo comune, la lezione filosofica. Da vedere in particolare: E. Bossard, Alani de Insulis cum D. Dantis Aligherii Commoedia collatus, Angers 1885; infatti Alano di Lilla (v.), se non fu tra le maggiori fonti di D., fu però, assieme all'interpretazione medievale dell'Eneide, un suo precursore e costituì il prototipo della forma letteraria creata con la Commedia (v. Commentum Bernardi Silvestris super sex libros Aeneidos, ediz. G. Riedel, Greifswald 1924). Per l'esegesi biblica, va ricordato che un'antica forma di commento alla Bibbia consisté nel trarre dai padri greci e latini una spiegazione continua della S. secondo il senso letterale e i sensi mistici. D. conobbe e utilizzò la Glosa ordinaria, trascritta sui margini di un gran numero di manoscritti della Vulgata, mentre la Glosa interlinearis veniva riportata sopra le parole. Anselmo di Laon (m. 1117) e la sua scuola diedero a questi estratti un assetto sistematico (numerose le edizioni, ad es. quella in sei volumi: Bibliorum Sacrorum... cum glossa ordinaria et Nicolai Lyrani expositionibus, Lione 1545). Su manoscritti ed edizioni di Alano e Bernardo Silvestre, cfr. M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, III, Monaco 1931, 794-804, 205-209; É. Gilson, La cosmogonie de Bernardus Silvestris, in " Archives d'Histoire Doctr. et Littér. du Moyen Age " III (1928) 5-24; G. Paré, A. Brunet, P. Tremblay, La Renaissance du XIIe siècle. Les écoles et l'enseignement, Parigi-Ottawa 1933; B. Smalley, The Study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 1952², traduz. ital. Bologna 1972; ID., Glossa ordinaria. Quelques prédécesseurs d'Anselme de Laon, in " Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale " IX (1937) 365-400; C. Spicq, Esquisse d'une histoire de l'exégèse latine au Moyen Age, Parigi 1944; J. Engels, Études sur l'Ovide moralisé, Groninga 1945; E.A. Quain, The Mediaeval Accessus ad Auctores, in " Traditio " III (1945) 215-264; R.B.C. Huyghens, Conrad de Hirsau, Accessus ad Auctores, Bruxelles 1954; ID., Dialogus super Auctores, ibid. 1955; J. Leclercq, L'amour des lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen Age, Parigi 1957; R. Palgen, D. und Origenes, " Anzeiger der Osterreichischen Akademie der Wissenschaften " XCVI (1959) 213-227; V. Cilento, Medio Evo monastico e scolastico, Milano-Napoli 1961 (specialmente c. XIII: Platone medievale e monastico). Infine, un'immensa bibliografia, aggiornata al 1963, si trova nel fondamentale H. De Lubac, Exégèse mediévale, 4 voll., Parigi 1959-1964 (in particolare II IX § 3, dov'è preso in esame D.); G. Penco, " Christus Orpheus ". Echi di un tema letterario negli scrittori monastici, in " Aevum " XLI (1967) 516 ss.
Per il § III e l'unità del problema allegorismo poetico-allegorismo scritturale, cfr. L. Valli, Il linguaggio secreto di D. e dei ‛ fedeli d'amore ', Roma 1928; T.L. Rizzo, Valore dell'allegoria dantesca, in " Atti Accad. Peloritana " XLI (1938-1939); M. Barbi, Allegoria e lettera della D.C., in Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 115-140; U. Bosco, Tendenza al concreto e allegorismo nell'espressione poetica medievale, in Atti Congresso Internaz. della poesia e della lingua italiana, Palermo 1951, 3-14 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 13-27).