Scienza greco-romana. Scetticismo e critica della conoscenza scientifica
Scetticismo e critica della conoscenza scientifica
Con le sue riflessioni sui limiti della conoscenza umana, rivolte soprattutto contro le speculazioni dei primi ‘physiológoi’ (Talete, Anassimandro e Anassimene) Senofane pone un freno alla nascente scienza greca: «Il certo nessuno mai lo ha colto né alcuno ci sarà che lo colga e relativamente agli dèi e relativamente a tutte le cose di cui parlo. Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe per averla sperimentata direttamente. Perché a tutti è dato soltanto l’opinare» (DK 21 B 34). Soltanto il dio può veramente vedere le cose quali sono nella realtà, essendo gli uomini incapaci di penetrare, al di là della superficie fenomenica, l’essenza nascosta delle cose. L’affermazione di Senofane era mossa in parte dalle grandi differenze (e reciproche incompatibilità) tra le varie speculazioni fisiche e cosmologiche dei Milesi, i quali potevano tutti essere in errore ma non potevano tutti avere ragione. È a questo punto che nasce la questione di come distinguere tra contrastanti spiegazioni teoriche della struttura delle cose: quale tipo di prova è pertinente nel giudicare queste controversie? E come deve essere valutata? Alla metà del V sec. a.C., Parmenide argomentava, su basi semantiche e metafisiche, che qualsiasi cambiamento è impossibile e che ciò che esiste esisterà per sempre e in modo inalterabile (DK 28 B 2-8); la speculazione attorno alla Natura e sulle cause del cambiamento così come era praticata dai suoi predecessori è quindi totalmente chimerica (DK 28 B 9-19). L’argomentazione di Parmenide costituisce una sfida radicale all’ideale stesso di indagine razionale del mondo fisico; il problema non è più semplicemente quello di decidere fra teorie fisiche diverse e incompatibili in base a un principio, ma piuttosto di rendere legittima dal punto di vista filosofico la nozione stessa di teoria fisica (e, più in generale, qualsiasi forma di epistḗmē). Generazioni successive di filosofi, in primo luogo Empedocle, Anassagora e Democrito, tentarono a questo fine di elaborare ciascuno una propria fisica secondo modi che evitassero le strettoie logiche di Parmenide. Empedocle negò l’esistenza di una vera generazione; tutto ciò che erroneamente è così descritto di fatto non è nient’altro che una nuova disposizione di materiali preesistenti (DK 31 B 8, 11-13, 17, 21, 23, 26). Anassagora pensava che le sostanze fossero completamente mescolate tra loro e che l’apparente cambiamento fosse soltanto l’effetto finale, nella mescolanza del tutto, di un tipo di materia predominante in rapporto al resto (DK 59 B 1-12). Democrito sosteneva che l’Universo fisico fosse composto di atomi indivisibili che agiscono l’uno sull’altro nel vuoto («ciò che non è») per produrre gli oggetti visibili della nostra esperienza ordinaria (DK 68 A 37-38).
Tali spiegazioni, al di là delle differenze, concordano nell’affermare che il mondo è in realtà molto diverso da come appare; tuttavia le sostanze, nonostante ciò che sostiene Anassagora, sembrano particolari e distinte tra loro. Allo stesso modo, esse sembrano essere ciascuna senza soluzione di continuità, mentre se Democrito avesse ragione non dovrebbe essere così e ogni cosa sarebbe colma di grandi quantità di vuoto. Come decidere qual è la teoria giusta? E com’è possibile determinare la struttura nascosta delle cose quando si suppone che il mondo sia diverso da come si presenta direttamente ai sensi? Entrambe queste domande, tra loro collegate, suscitano questioni scettiche. Anassagora sostiene che «le parvenze fenomeniche [...] sono l’aspetto visibile delle [cose] non appariscenti (ádēla)» (DK 59 B 21a), affermazione che Democrito cita approvandola. In quel modo però le apparenze possono svelare la verità nascosta delle cose? Inoltre, alla luce di tutto questo, cosa si può dire delle stesse apparenze percettive? Secondo Democrito sono non soltanto ingannevoli, ma in un certo senso illusorie: «opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto» (DK 68 B 125; cfr. DK 68 B 6-11); la verità è profondamente, forse inaccessibilmente, nascosta: «nulla conosciamo secondo verità; perché la verità è nel profondo » (DK 68 B 117). In modi diversi, tanto Platone quanto Aristotele cercarono di sviluppare una metafisica e un’epistemologia che fossero in grado di spiegare e giustificare il nostro accesso alla realtà. Per Platone, il mondo dei sensi è un pallido simulacro della vera realtà con cui è confuso da chi è filosoficamente ignorante. Ciò che esiste realmente sono le idee o forme, eterne e immutabili, modelli perfetti e ipostatizzati, in virtù delle quali, attraverso la misteriosa relazione di partecipazione (méthexis), le cose nel mondo fenomenico hanno quel limitato e labile grado di realtà che è loro proprio. Una riflessione sulla natura di concetti come quello di ‘uguale’ (íson) mostra che queste perfezioni devono esistere indipendentemente dalla nostra esperienza, per la semplice ragione che di fatto noi non abbiamo mai sperimentato nel mondo fenomenico esempi di assoluta uguaglianza (Phaedo, 74 a-75 d). Chi esercita, seguendo regole determinate, la riflessione filosofica o dialettica, può giungere oltre la mera percezione degli oggetti del mondo fisico, attraverso una contemplazione degli oggetti matematici, a una sorta di diretta conoscenza delle idee stesse, ascesa descritta attraverso le celebri immagini del Sole, della linea e della caverna (Respublica, VI-VII, 505 a-519 a). La nozione chiave è quella del dio che informa ogni cosa; una corretta valutazione dell’ordine delle cose è possibile soltanto se si comprende che ogni cosa è ordinata in vista del Bene (Phaedo, 96 a-107 a), concezione che è alla base della teleologia cosmologica di Platone (Timaeus, 27 c-92 c).
Aristotele, pur concordando sulla necessità del ricorso alla teleologia nella spiegazione fisica (soprattutto per quel che riguarda la struttura degli animali: De partibus animalium, I), respinge la metafisica trascendente delle idee platoniche, in favore della concezione empirica di una realtà intessuta di specie naturali in rapporto tra loro. Le scienze, nel loro stato perfetto, sono dunque settori compiuti della conoscenza, nei quali le relazioni causali tra generi e specie sono chiaramente esposte in forma di deduzioni sillogistiche e universali. Questo modello di conoscenza scientifica è rigorosamente sviluppato negli Analytica posteriora; a fondamento delle scienze sarebbero verità assiomatiche necessarie, anteriori ai teoremi che da esse discendono e che li spiegano (Analytica posteriora, I, 2) e, per definizione, gli assiomi non si baserebbero su verità precedenti e quindi non potrebbero essere conosciuti allo stesso modo dei teoremi. Ma allora ‘come’ possono essere conosciute queste proposizioni immediate e indimostrabili? Il tentativo di provare ogni proposizione di una scienza porta alla circolarità o a una regressione infinita, il che, in entrambi i casi, è inaccettabile (ibidem, I, 3); peraltro, gli assiomi non possono essere semplici supposizioni, poiché allora ogni susseguente struttura deduttiva non sarebbe credibile. La risposta di Aristotele a questa spinosa questione è breve e controversa. Egli afferma che una ripetuta esperienza empirica di specie naturali è in grado, se sufficientemente ricca, per l’appunto a farci ‘vedere’ quali dovrebbero essere i fatti fondamentali delle scienze empiriche (ibidem, II, 19); questa prova, però, non si applica ai principî logici fondamentali, come il principio di non-contraddizione, la cui verità necessaria può essere colta a priori (Metaphysica, IV, 3-4).
Una tale ‘ottimistica’ epistemologia risulta però vulnerabile all’assalto scettico: perché dovrebbe essere possibile, sia pure in condizioni ideali, intuire le verità fondamentali? E come sapere che ciò è di fatto accaduto? Aristotele non dà risposte dirette a queste domande e tratta dello scetticismo soltanto per respingerlo risolutamente come indegno di ogni seria considerazione (ibidem, IV, 4-5).
Accenni a questioni metodologiche relative alla natura (o meglio, alla possibilità) della scoperta scientifica erano già presenti negli scritti medici del Corpus Hippocraticum. Nel De vetere medicina si afferma che la medicina, fondamentalmente dietetica, è stata scoperta empiricamente attraverso l’osservazione dei ‘poteri’ di varie sostanze (correlate con le loro qualità sensibili empiricamente osservabili, come la dolcezza o l’acidità) di influire sulla salute di pazienti in varie condizioni (De vetere medicina, 2-3, 5-12, 16-19). La medicina non ha bisogno di ricorrere a ‘ipotesi’, quali il presupposto del ruolo fondamentale di qualità come il caldo (ibidem, 1, 13, 15), o di fare assegnamento su un’accurata comprensione della natura dell’uomo, al modo dei filosofi (ibidem, 20). Il Corpus Hippocraticum è tuttavia ricco di esempi di questa medicina ‘filosofica’: l’autore de La natura dell’uomo, per esempio, asserisce che le componenti fisiologiche fondamentali sono sangue, flegma e le due bili, mentre nel trattato Sul regime si dice che sono fuoco e acqua e qualità a essi associate; per l’autore de I venti è invece fondamentale l’aria. In tutti questi casi si può porre lo stesso tipo di domanda epistemologica che metteva a confronto i cosmologi presocratici: cosa si può dire in favore di una di queste teorie o contro le altre? Inoltre, quale compito possono svolgere queste teorie? (ibidem, 13, 15).
L’autore del De vetere medicina non si astiene del tutto dal teorizzare e sostiene, in particolare, che il compito della medicina è di discernere le vere connessioni causali tra le cose (ibidem, 20-1, 23). Questa idea sarà attaccata da Diocle, più giovane contemporaneo di Aristotele:
coloro i quali pensano che si dovrebbe sempre stabilire una causa sembrano non capire in primo luogo che non è sempre necessario farlo da un punto di vista pratico, e in secondo luogo che molte cose esistenti sono in qualche modo per loro natura affini ai principî, così che a esse non può essere data una spiegazione causale. Inoltre, a volte, essi sbagliano presupponendo ciò che è ignoto, controverso e non plausibile, pensando di aver adeguatamente spiegato la causa. Dovresti non tener conto di chi eziologizza in questa maniera e chi pensa che si dovrebbe stabilire una causa di ogni cosa; dovresti piuttosto basarti sulle cose che sono state lungamente meditate su base di esperienza (empeiría); e dovresti cercare una causa per cose contingenti quando è probabile che ciò renderà più comprensibile e più credibile ciò che dici su di esse. (Diocle, Fragments, fr. 112)
Vi sono in questo passo echi aristotelici; alcune cose sono ‘come’ i principî primi, e i principî primi aristotelici sono, per definizione, causalmente indimostrabili. Diocle non dice che essi ‘sono’ principî primi e le spiegazioni causali sono comunque di dubbia utilità oltre che epistemologicamente problematiche; gli ‘eziologi’ contribuiscono soltanto a rendere non convincenti le affermazioni dogmatiche ex cathedra. L’esperienza empirica è sufficiente a fondare un’adeguata pratica medica e le spiegazioni causali hanno per lo più soltanto un significato retorico.
Ciò comporta una radicale sfida scettica a una scienza ‘realistica’ esplicativa sul modello aristotelico. Platone aveva completamente svalutato l’esperienza in quanto conoscenza, qualitativamente inferiore, di una labile immagine della realtà. Aristotele riabilitava l’esperienza ma come parte di un progetto realistico di scienza, destinato essenzialmente a rendere palese il meccanismo nascosto delle cose. Diocle, sebbene sia disposto a parlare in determinate occasioni in termini causali, considera fondamentale l’esperienza e ciò che da essa nasce. Due frammenti di Erofilo, notevole anatomista e fisiologo alessandrino, manifestano la stessa attitudine sperimentale verso la teorizzazione causale: «se vi sia o non vi sia una causa è per natura non scopribile; ma nella mia opinione io credo di essere gelato, caldo e pieno di cibo e di bevande» (T 59 a, ed. von Staden); «alcuni, come Erofilo, accettano cause ‘sulla base di un’ipotesi’» (T 58). Le dichiarazioni causali sono tutt’al più provvisorie, e noi non abbiamo motivo di crederle oggettivamente vere. La scienza medica tratta in primo luogo delle apparenze: «per primi devono essere descritti i phainómena, anche se non sono primi» (T 50 a). I phainómena devono essere considerati in sé stessi; non sono, come accadeva per Anassagora e Democrito, una pallida immagine di una realtà non visibile.
Il rifiuto di procedere causalmente e l’insistenza sul fatto che la scienza medica non può né dovrebbe cercare di avanzare oltre la sua base empirica nella speculazione metafisica costituirono la base metodologica della scuola di medici noti come «empirici». La scuola fu fondata nel III sec. a.C. da un allievo di Erofilo e fiorì per circa cinque secoli. Le dispute tra gli empirici e i loro oppositori, i medici ‘dogmatici o ‘razionalisti’, i quali sostenevano che l’indagine della struttura ‘profonda’ delle cose è possibile e anche auspicabile, andarono di pari passo e s’intersecarono con il contemporaneo dibattito sull’epistemologia filosofica tra gli scettici della Media e della Nuova Accademia, Arcesilao e Carneade e i loro oppositori, i dogmatici, gli stoici in primo luogo. Al centro del dibattito c’era la questione se esistesse o no un criterio di verità; è possibile giustificare chi afferma di comprendere come le cose sono, o questa affermazione è per sé stessa inevitabilmente soggetta agli attacchi scettici?
Le notizie più complete di cui disponiamo sull’empirismo medico e sui suoi sviluppi, così come sull’opposizione a esso da parte dei dogmatici, si possono trovare in tre trattati di Galeno (De sectis, De subfiguratione empirica e De experientia medica). L’empirismo in medicina assunse una varietà di forme e le idee dei vari empirici mutarono in relazione agli attacchi portati dai dogmatici, ma restò costante l’opinione che l’esperienza medica fosse fondamentalmente materia di osservazione personale (autopsía), corroborata da resoconti confermati in modo attendibile, delle altrui osservazioni (historía). La conoscenza medica consisteva nella costruzione di correlazioni empiriche tra tipi di disturbi osservati (e circostanze a essi associate) ed efficacia (o no) dei rimedi provati; nessuna teoria su ‘come’ i rimedi funzionassero, nel caso in cui funzionavano, era richiesta e nemmeno possibile; dal momento che gli empirici accettavano in qualche modo di parlare di cause, lo facevano in modo non teorico, nel senso cioè secondo il quale una causa è soltanto un evento di un certo tipo regolarmente associato a un particolare tipo di evento susseguente.
Molte e profonde erano le connessioni tra empirismo medico e scetticismo; per afferrare a pieno il senso e la natura della critica scettica alla scienza occorre tener presente come fosse di fatto possibile essere scettici da un punto di vista filosofico, dubitare cioè della conoscibilità della realtà, e nello stesso tempo praticare la medicina. Più in generale, lo scetticismo non comportò, per lo più, un rifiuto completo di pratiche scientifiche; Sesto Empirico, che costituisce la nostra fonte principale del rinato e raffinato pirronismo della Tarda Antichità, era un medico, oltre che autore di numerosi trattati di medicina, che sono però andati perduti.
Il pirronismo prende nome dal suo fondatore, Pirrone di Elide, che visse all’incirca una generazione dopo Aristotele (360 ca.-270 ca.). Per quel che ci è dato saperne, dal momento che disponiamo di testimonianze frammentarie e che in ogni caso egli non lasciò opere scritte, gli interessi scettici di Pirrone erano di natura prevalentemente etica, pur basandosi il suo scetticismo etico su fondamenti epistemologici. Nulla prova, in ogni caso, che egli fosse interessato ad attaccare la scienza di per sé, anche se sembra lo abbia fatto, al-meno per la geometria, il suo discepolo Timone di Fliunte; altrettanto si può dire in generale dello scetticismo accademico di Arcesilao di Pitane (315-240 ca.) e di Carneade (214-129).
Sesto Empirico è autore di tre scritti sullo scetticismo giunti fino a noi: Schizzi pirroniani, trattazione generale di argomenti scettici; due opere che la tradizione manoscritta ha messo insieme negli undici libri dell’Adversus mathematicos, gli ultimi cinque libri (VII-XI) rappresentando il grosso di una più vasta trattazione di cui gli Schizzi pirroniani sono un riassunto; una dissertazione a parte, l’Adversus mathematicos propriamente detto (i primi sei libri della raccolta), che si occupa di sei delle sette ‘arti liberali’ (gli enkýklia mathḗmata e cioè grammatica, retorica, geometria, aritmetica, astrologia e musica). L’ultimo di questi tre scritti ha nel suo complesso lo scopo di operare una distinzione tra la pratica comunemente intesa (per esempio, nel caso della grammatica, parlare correttamente greco, o nel caso dell’aritmetica, fare di calcolo) e una determinata arte ‘professionale’. Per gran parte dell’opera gli attacchi di Sesto hanno come unico bersaglio proprio le pretese dei ‘professionisti’ di considerare arte l’ambito di loro competenza. Per esempio, pur ammettendo che c’è un corretto modo di parlare greco, egli nega che ciò possa essere determinato dalle regole formali di una scienza tecnica (Adversus mathematicos, I, 172, 176-95), così come la capacità propria di alcuni di parlare in modo persuasivo non dimostra che vi sia un’arte della retorica, cioè un corpo organizzato di conoscenze retoriche che il maestro può impartire all’allievo e che assicuri successi forensi (ibidem, II, 10-19). La maggior parte degli attacchi alle arti liberali coincide dunque con il rifiuto di riconoscere che in esse sia insita una disciplina sistematica, rifiuto che tende ad andare di pari passo con la negazione alle arti di una qualsivoglia utilità (per es., ibidem, I, 49; II, 20-42; VI, 19-37). La legittimità stessa di ciò che si suppone essere l’oggetto della scienza è impugnata; siccome non si dà un qualcosa come lettere e sillabe, numeri o toni e ritmi (ibidem, I, 99-141; IV, 10-34; VI, 38-68) non vi può essere scienza della grammatica, dell’aritmetica o della musica.
Naturalmente, quando Sesto dice che non vi sono sillabe o parole, non vuol dire che non c’è lingua, che parlare o scrivere è impossibile, ma piuttosto che tali cose non sono secondo i principî dei grammatici. Lo stesso vale anche per i numeri e per i toni, in quanto le speculazioni teoriche di platonici e pitagorici sono infondate e incoerenti. Egli non mette in discussione la pratica empiricamente riuscita; di fatto, essa è parte integrante della «quadripartita osservanza di vita» in base alla quale lo scettico cerca di vivere (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 23-4). Ciò contro cui egli ha da obiettare sono le pretese dei cosiddetti professionisti di spiegare le loro competenze in termini di grandi costruzioni teoriche, e di rendere così palese la natura nascosta delle cose. Lo scettico è interessato a ciò che appare, i phainómena – che sono il suo ‘criterio’ (ibidem, I, 21-24) – ma non prende posizione sulla questione di cosa vi stia dietro e li spieghi. Per lo scettico, che concorda con Erofilo, i phainómena sono tutto ciò su cui si può lavorare e non sono, come per Anassagora, una «pallida idea degli ádēla». ‘Dogma’ centrale della metodologia scettica è che non esiste una via per scoprire gli ádēla, almeno nel senso sostanziale: la scoperta degli ádēla è proprio al centro del progetto di una scienza costruita ‘realisticamente’. Sesto distingue tre modi in cui qualcosa può essere ádēlon, o non-evidente (ibidem, II, 97-99; Adversus mathematicos, VIII, 145-147). Può essere del-tutto-non-evidente (che il numero di stelle sia pari o dispari); può essere per-il-momento-non-evidente («come ora a me la città di Atene»); o può essere per-natura-non-evidente («come i pori intellegibili [invisibili] dei corpi»). Per comune accordo, le cose del-tutto-non-evidenti sono al di là della percezione umana. Quelle per-il-momento-non-evidenti possono essere rese evidenti da un appropriato ri-collocarsi dell’osservatore; inoltre, l’esistenza di qualcosa di questo genere si può inferire sulla base di segni commemorativi o rammemorativi. Così, il fumo è un segno del (per-il-momento-non-evidente) fuoco e si fonda su esempi passati della correlazione (da cui ‘rammemorativo’), ed è materia di semplice esperienza. Lo scettico, da buon empirico, è ben felice di assecondare questi segni: «noi non contrastiamo alla vita, ma la difendiamo, assentendo, senza dogmatismo, a quanto è da essa confermato » (Pyrrhoneion hypotyposeon, II, 102). Ciò che egli rifiuta è l’opinione secondo la quale noi avremmo i mezzi per constatare cose naturalmente non evidenti. I dogmatici cercano di farlo sulla base di «segni indicativi», segni che ci condurrebbero a inferire, da qualcosa di evidente, lo stato di qualcosa che non soltanto non è temporaneamente alla portata dell’osservazione diretta (come il fuoco), ma che ‘mai’ si troverà a essere osservabile. Un caso tipico di questo segno-inferente è quello con cui gli stoici tentavano di stabilire l’esistenza di pori invisibili (alla lettera noätoí, pensabili, intellegibili) nella pelle: (a) se sulla superficie della pelle appare umidità, significa che la pelle è perforata da pori invisibili; ma (b) ciò avviene; dunque (c) così è (ibidem, II, 140; Adversus mathematicos, VIII, 146, 306; Diogene Laerzio Vitae philosophorum, IX, 89). I sensi non percepiranno mai i pori ma percepiranno il sudore, il quale è spiegabile soltanto ipotizzando che i pori esistano; quindi, essi devono esistere.
Queste inferenze, che producono conclusioni non evidenti sulla base di premesse evidenti, sono chiamate dagli stoici apódeixis, ‘prove’; e formano la pietra angolare del tentativo stoico di penetrare la natura nascosta delle cose. Sesto dedica ampio spazio a confutarle (Pyrrhoneion hypotyposeon, II, 144-192; Adversus mathematicos, VIII, 300-480). Ma per quel che ci riguarda, le argomentazioni scettiche decisive mirano a mostrare che in queste inferenze («se c’è sudore ci sono pori», ecc.) le premesse condizionali non sono mai conoscibili a priori. Nel caso di (a), per esempio, si è autorizzati a supporre che vi siano pori soltanto qualora si sappia che il sudore è un tipo di ‘emanazione’ (argomento suggerito anche da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, IX, 89). Descrivere così la cosa è però evitare di affrontare la questione, a favore dell’argomento dei pori; il sudore, infatti, potrebbe essere anche condensazione dell’aria circostante. Naturalmente, si possono osservare e portare ulteriori correlazioni che suggeriscono che il sudore ha origini interne (per es., che si suda di più dopo aver consumato liquidi); questi suggerimenti, però, non equivalgono a certezze a priori, in quanto ci saranno sempre altri modi di spiegare il fenomeno, e anche se siamo propensi a credere che il sudore abbia origini interne, ciò coinvolgerà di necessità i pori soltanto se siamo già convinti della proposizione che i liquidi non possono passare attraverso corpi completamente solidi (Adversus mathematicos, VIII, 309).
Le discussioni riguardano qui le pretese dei dogmatici di progredire, attraverso sicuri modi di inferenza, dai fenomeni alla comprensione del cuore nascosto della realtà, della natura delle cose. Al contrario, motivo ricorrente dello scettico è che non è possibile conoscere questa natura; possiamo dire come le cose sembrano essere, ma il giudizio su come per loro natura (o in realtà) esse siano deve essere ‘sospeso’. È questa la conclusione di ciascuno dei dieci fondamentali modi (trópoi) dello scetticismo, cioè degli argomenti generali in base ai quali gli scettici ritengono di legittimare la sospensione del giudizio (epochḗ) su tutte le questioni non fenomeniche (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 78, 87, 99, 117, 123, 128, 134, 140, 144, 163). Così, dal momento che la scienza cerca proprio d’investigare su queste cose, bisogna escluderla dal novero delle imprese utili e valide. Nelle sue accurate note programmatiche all’inizio degli Schizzi pirroniani, Sesto ammette che lo scettico assente «alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili [...]; così, per esempio, sentendo caldo o freddo, non direbbe “credo di non sentir caldo o freddo”, ma diciamo che non dogmatizza nel significato che altri danno alla parola dogma, cioè assentire a qualcuna delle cose che sono non-evidenti e formano oggetto di ricerca per parte delle scienze (a nessuna cosa oscura assente il pirroniano)» (ibidem, I, 13). Vi è dunque, almeno apparentemente, una connessione diretta tra ciò che i pirroniani fondamentalmente rifiutano e la pretesa delle scienze. Questo atteggiamento è chiaramente espresso da Enesidemo, il rifondatore del pirronismo nel I sec. a.C.
L’opera di Enesidemo è nota soprattutto attraverso Sesto, il quale, nonostante si sia spesso ipotizzata una dipendenza del suo scetticismo da Enesidemo (in particolare per i dieci modi canonici) lo cita piuttosto di rado (e mai allorché espone i dieci modi – in Schizzi pirroniani, I – che in ogni caso tradiscono i segni di aggiunte scettiche più tarde) e, quando ciò avviene, in una luce spesso confusamente dogmatica. L’altra fonte su Enesidemo è il riassunto delle sue opinioni e dei suoi Discorsi pirroniani in otto libri, nel catalogo della Bibliotheca di Fozio (IX sec.).
Tuttavia Sesto (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 180-5) ascrive direttamente a lui «otto modi contro gli eziologi» (menzionati anche da Fozio: Bibliotheca 212, 170 b 17-22). Eziologia è l’operazione di fornire spiegazioni causali alle cose e naturalmente ciò coinvolge cause nascoste, ragioni e spiegazioni profonde. I modi antieziologici di Enesidemo cercano, in termini generali, di screditare ogni impresa di questo genere: il primo modo è «quello per il quale il genere della spiegazione della causa aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese (epimartýrēsis) per parte delle cose che cadono sotto i sensi» (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 181). È qui preso di mira il segno-inferente indicativo di ‘fatti’ naturalmente non evidenti, come l’inferenza dal sudore dei pori invisibili. Dal momento che la realtà nascosta che noi inferiamo è per ipotesi non osservabile, non abbiamo altri mezzi per provare la validità delle nostre inferenze. Questa obiezione è seria soltanto qualora s’ipotizzi che esiste più di una ‘spiegazione’ coerente per un particolare insieme di fenomeni, supposizione respinta dagli atomisti nel caso del loro atomismo (che essi ritenevano essere la sola ipotesi in grado di salvare le apparenze di movimento e pluralità dall’assalto parmenideo) e implicitamente dagli stoici in casi come l’inferenza sudore-pori. Se vi è una sola possibile spiegazione compatibile con i fenomeni, i dogmatici possono davvero affermare che in quei fenomeni è implicita la loro particolare rappresentazione della struttura di base del mondo, come a volte tanto gli stoici quanto gli epicurei facevano. A questo tipo di argomentazione Enesidemo contrappone il secondo modo, «quello per il quale, essendo largamente consentito di spiegare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola» (ibidem, I, 181). I dogmatici possono pretendere che la loro spiegazione sia l’unica possibile e di qui che sia implicita nei fenomeni, ma si ingannano. Quando per lo stesso fenomeno possono essere fornite più spiegazioni distinte e incompatibili, i dogmatici semplicemente ignorano del tutto quelle diverse dalle loro.
La convinzione che i teorici siano in perpetuo e irrisolvibile disaccordo è fondamentale per lo scetticismo. Poiché dovunque tra filosofi e scienziati sorgono dispute (e poiché non ci può essere un modo di risolverle in base ai principî né si possono evitare: la questione del ‘criterio’, ibidem, II, 14- 79; Adversus mathematicos, VII), gli scettici sono costretti a sospendere il giudizio su tutto quanto vada al di là dei fenomeni. I primi due modi di Enesidemo sono complementari. Il primo asserisce che non si può semplicemente strappare il velo al fenomeno per esaminare la realtà sottostante; i fenomeni di per sé non possono neppure rendere plausibile ogni congettura sullo stato di cose ‘categorialmente’ diverse, gli oggetti reali sottostanti. D’altra parte, la moltiplicazione di teorie concorrenti cui fa riferimento il secondo modo esclude la possibilità che una singola teoria prevalga semplicemente per difetto. Nel caso del primo modo, i dogmatici avrebbero potuto replicare che eventuali sviluppi tecnologici potrebbero rendere accessibili alla nostra percezione stati normalmente nascosti; dopo tutto, il microscopio ci ha permesso di confermare l’inferenza stoica sudore-pori. Gli antichi non avevano esperienza di strumenti in grado di accrescere la percezione, e, d’altro lato, la nozione di ‘accresciuta percezione’ è di per sé vulnerabile agli attacchi scettici; come possiamo allora sapere che è stata aumentata e non piuttosto semplicemente distorta? In ogni caso, questa possibilità non sarebbe sufficiente; ciò che il primo modo attacca è, infatti, la nostra capacità di fare ‘ora’ queste inferenze senza conferma empirica e se fossero confermate empiricamente, infatti, non ci sarebbe bisogno di ricorrere a qualche inferenza. I dogmatici potevano inoltre sostenere che se anche l’esperienza sensoriale non può sempre confermare o smentire direttamente teorie sulla realtà che sfugge alla presa dei sensi, il successo presunto di una teoria può nondimeno renderla probabile. La replica degli scettici, non diversamente da quella del medico empirico, è che ‘tutto’ quel che conta qui è il successo, e questo può essere raggiunto senza ricorrere ad alcuna sottostante struttura teorica. Tutto quel che serve sono connessioni empiricamente convalidate tra eventi antecedenti e susseguenti, eventi che per loro natura saranno fenomenici. Il passaggio attraverso la teoria è soltanto una perdita di tempo e incoraggia la convinzione – che altro non è che una mera fantasia – secondo la quale possiamo conoscere le cose che non possiamo conoscere.
L’uso di Enesidemo del termine tecnico epimartýrēsis conferma o, quantomeno, suggerisce che il suo attacco era diretto in particolare contro gli atomisti. L’epimartýrēsis epicurea consiste nel corroborare deboli o equivoci dati sensoriali sulla base di dati meno ambigui e più certi. Se una torre quadrata a distanza può apparire rotonda e se a distanza io vedo una cosa che sembra rotonda, devo accostarmi di più per poter stabilire se sia realmente rotonda o quadrata. Anche in normali casi di percezione, gli scettici sfideranno la validità di questo modo di procedere. Nel caso di entità teoriche di fondo le cose sono ovviamente più complicate; non si dà, infatti, alcun affinamento delle circostanze percettive che possa dare conferma. Non è chiaro se gli epicurei estendessero la teoria dell’epimartýrēsis fino ad applicarla a casi di conferma della sottostruttura teorica; l’estensione può essere dello stesso Enesidemo. Anche così, però, gli epicurei continuano a essere in grandi difficoltà; se allargano il campo dell’epimartýrēsis fino a includere la conferma di oggetti intrinsecamente non evidenti, attirano la critica del primo modo, mentre se non lo fanno è difficile vedere come possano continuare a sostenere la plausibilità delle loro opinioni sulla natura delle cose, data la tesi del secondo modo secondo cui la prova empirica determina implicitamente la scelta teorica: vi sono, infatti, sempre molti, distinti e incompatibili modi teorici di renderne conto (qui Enesidemo rende palese ciò che, in un certo senso, era stato ovvio fin dalla primissima disputa teorica presocratica). Quale che sia l’esatta natura delle opinioni degli atomisti, i primi due modi rappresentano una sfida significativa a ogni teoria realistica di entità e strutture di base.
Quanto al terzo modo, Sesto dice poco: «quello per il quale di fatti che accadono (ginoménōn) con un ordine, [i dogmatici] adducono cause che non ammettono ordine alcuno» (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 182). Gli atomisti (in realtà i meccanicisti in genere) avevano enormi difficoltà a spiegare la continuità di processi fisici naturali, in particolare la riproduzione animale, in base a una fisica fondata sull’interazione materiale casuale. Assegnare una causa atomica a ogni singolo evento che compone il processo sarebbe dal punto di vista esplicativo insufficiente, dal momento che ciò che richiede di essere spiegato è proprio la regolarità dell’intera struttura. È spesso evidente che la scienza meccanicista di tipo epicureo potrebbe ‘spiegare’ soltanto le parti, lasciando la regolarità del tutto completamente scoperta, insufficienza (fondamentalmente l’incapacità di spiegare l’emergere di forme sulla base di una sottostruttura intrinsecamente priva di forma) da cui prese impeto l’antica teleologia in tutte le sue varie manifestazioni. Il punto si può generalizzare fino a coprire processi di ogni tipo; anche se vi è una spiegazione per p e una spiegazione per q, non ne consegue che la loro congiunzione spieghi la congiunzione di p e q. Io vado al mercato per comprare il grano, tu per vendere maiali, ma questi fatti non spiegano il nostro trovarci contemporaneamente là, così che io posso prendere il denaro che tu mi devi (Aristotele, Physica, II, 5, 196 b 35-197 a 5; v. Metaphysica, VI, 3). Questa mancanza di spiegazione può andare molto bene nel caso di vere coincidenze (e la coincidenza è proprio questo), ma la Natura nel suo insieme non può, almeno per un dogmatico, essere semplicemente questione di caso.
Il quarto modo è «quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili, [i dogmatici] credono di aver percepito anche come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto» (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 182). Una volta di più Enesidemo sembra prendere particolarmente di mira gli atomisti, perché sono impegnati a considerare ogni evento osservabile come conseguenza visibile, fenomenica di eventi atomici non percepibili, reazione e intreccio di atomi. La loro ontologia esplicativa è deliberatamente parsimoniosa e si riduce alle proprietà basilari di peso, solidità, resistenza e agli attributi strutturali conferiti dalle particolari morfologie degli atomi. Gli atomisti ammetteranno che alcune proprietà visibili (per es. il colore) sono esclusivamente sensibili senza che si diano corrispondenti microscopici, ma anche così resistenza, solidità e peso sono proprietà perfettamente ordinarie e quotidiane. Ancora una volta sembra non esserci una ragione a priori per cui le reali proprietà degli atomi non siano completamente diverse da ciò che cade sotto la nostra percezione. Gli atomisti avrebbero potuto replicare che noi non possiamo concepire proprietà assolutamente diverse da quelle che sperimentiamo e che dunque non è possibile costruire teorie sulla base di esse; questo singolo fatto (se è un fatto) non può giustificare che venga ascritto all’universo nascosto ogni particolare insieme di queste proprietà in quanto forse, semplicemente, noi non possiamo conoscere come sono esattamente le cose di laggiù. E se l’epicureo replica che la sua teoria è, almeno empiricamente, adeguata, lo scettico invocherà semplicemente il secondo modo; anche se così fosse (il che in ogni caso è altamente improbabile), si tratta soltanto di una teoria tra le tante.
Questa proliferazione di concorrenti considerazioni dogmatiche è alla base anche del quinto modo, «quello per cui tutti, per così dire, spiegano le cause seguendo certe loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata» (I, 183). Gli epicurei postulano minime particelle indivisibili (gli atomi) e l’esistenza di uno spazio assolutamente vuoto; gli stoici e i peripatetici ritengono fondamentali i quattro elementi primi, o le loro proprietà costitutive, e pensano che lo spazio e la materia in esso contenuti siano continui e densi; i platonici e i pitagorici generano il mondo da numeri, linee e piani, il limite e l’illimitato. Tutti producono eziologie in accordo con i loro presupposti senza che esista un metodo imparziale, universalmente accettato, per giudicare tra esse; sono dunque semplicemente incompatibili e i sostenitori delle varie teorie concorrenti parlano tra loro senza capirsi. Il quinto modo, allora, integra i primi due, i quali stabiliscono che spiegazioni diverse per gli stessi fenomeni sono possibili, notando che le varie scuole scelgono arbitrariamente la spiegazione la quale meglio si adatta ai loro ‘pregiudizi’ teorici. Il sesto contiene un’affermazione empirica analoga sulla mancanza di pratica scientifica: «spesso [i dogmatici] accolgono quello che si spiega con le loro proprie ipotesi, e tralasciano quello che è contrario e ha la medesima forza di persuasione» (I, 183). I dogmatici ignorano le anomalie e trattano soltanto quei fatti di cui le loro teorie possono dar conto; poiché, tuttavia, un solo esempio dissenziente falsifica una generalizzazione, se vi sono fenomeni che non si adattano e che gli atomisti semplicemente non possono spiegare, ciò significa che l’atomismo, almeno come ipotesi universale, è falso.
I dogmatici sono dunque parziali quanto alle loro teorie e trascurano i punti deboli. Peggiore è la situazione descritta nel settimo modo, «quello per cui spesso [i dogmatici] adducono delle cause che contrastano, non soltanto con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi» (I, 184). A chi Enesidemo faccia qui riferimento non è chiaro, ma subito viene in mente la dottrina epicurea della deviazione, che è suggerita da un fenomeno non macroscopico e che è in conflitto con il principio che nulla accade senza una causa. Infine, l’ottavo modo è «quello per cui spesso essendo ugualmente incerto e quello che sembra apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell’indagine, sulla base di nozioni incerte [i dogmatici] costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte» (I, 184). Quello che «sembra apparire in un dato modo» sono descrizioni di fenomeni già implicitamente orientati in favore di una particolare spiegazione; un caso paradigmatico sarebbe l’inferenza sudore-pori, già trattata.
I modi anticausali di Enesidemo sono manifestamente diversi per scopo e forza. Il primo, il secondo e forse il quarto contengono affermazioni assolutamente generali sull’inafferrabilità teorica del tipo di ‘verità’ eziologica che la scienza professa di trattare; se sono validi, nessuna scienza realistica dei fondamenti non evidenti delle cose è possibile. Viceversa, gli altri modi puntano a difetti contingenti nella pratica effettiva degli scienziati, difetti che, in linea di principio, potrebbero essere eliminati; presi insieme, e questa è esplicitamente l’intenzione di Sesto (I, 185), formano un potente e coerente insieme di obiezioni di fondo alla pratica scientifica dogmatica. Il quinto modo causale di Enesidemo richiama il quarto modo dell’elenco attribuito (da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, IX, 88-89) a un certo Agrippa, il modo di ipotesi. I modi agrippei (riportati più completamente, senza attribuzione, da Sesto: Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 164-177) rappresentano un tentativo di fornire come il distillato dell’essenza scettica. Il primo (I, 165) punta all’onnipresente e irrisolvibile conflitto tra diverse posizioni dogmatiche, un luogo comune scettico che trova il suo posto anche nei modi causali. Il terzo, ‘relazione’, asserisce che il nostro unico accesso alle cose è inevitabilmente e ineliminabilmente ‘colorato’ sulla base dei nostri punti di vista soggettivi, e quindi non possiamo mai spostarci da come le cose ci sembrano a come esse realmente sono (I, 167; questa è la base dei dieci modi originali di scetticismo: I, 36-163). Il secondo, quarto e quinto modo hanno carattere formale, e dovrebbero essere considerati come un tutto unico. Insieme essi sostengono che qualsiasi tentativo di trovare una giustificazione definitiva per ogni posizione o comporterà un regresso all’infinito (il secondo modo: I, 166) oppure poggerà su una semplice e infondata asserzione o ipotesi (il quarto modo: I, 168) o, infine, comporterà un ragionamento circolare (il quinto modo: I, 169); dunque in nessun caso la giustificazione sarà definitiva. Questi modi richiamano le strettoie aristoteliche sulla dimostrazione (Analytica posteriora, I, 3) e implicitamente negano la sua ottimistica fiducia epistemologica nel fatto che possa darsi una via intuitiva autonoma verso le vere basi scientifiche (ibidem, II, 19). La crescita della scienza è tagliata alle radici.
Sesto non si accontenta di addurre argomenti generali contro la possibilità di qualsivoglia dogmatismo. Egli s’impegna nella confutazione puntuale e precisa di singoli aspetti della costruzione dogmatica, così come combatte i capisaldi concettuali che una tale impresa comporta. Esempio di questa critica generale sono gli svariati argomenti che adduce contro la validità del concetto di causa, senza il quale, a suo vedere, la scienza dogmatica verserebbe in gravissima difficoltà (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 13-29; Adversus mathematicos, IX, 195-267). L’attacco di Sesto alla coerenza del rapporto causa-effetto muove, abbastanza tipicamente, dalle discordanze esistenti nel dogmatismo stesso sulla natura delle cause: alcuni (per es., i platonici) sostengono che le cause sono incorporee, mentre altri affermano che sono corpi (gli stoici, gli epicurei, ecc.: Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 13-14); inoltre, i dogmatici non concordano su quanti tipi di cause esistano e su come classificarle e se precedano o non invece coincidano con i loro effetti (III, 15-16). Se da un lato sembra ragionevole ammettere l’esistenza di cause, tra le altre cose che rendono conto della regolarità dei processi fisici (III, 17-19), dall’altro lato, diversi argomenti inducono a dubitare della loro concepibilità. Per esempio, cause ed effetti sono collegati, ma, per definizione, sono collegati in quanto concepiti insieme; se così è, non possiamo conoscere la causa indipendentemente dall’effetto o dagli effetti che essa produce, il che cade sotto il quinto modo di ragionamento circolare di Agrippa:
Perciò è verosimile che la causa esista. È anche però verosimile il dire che non esiste qualche cosa che sia causa di qualche cosa. Il che apparirà dalle poche argomentazioni, fra le tante, che noi al presente esporremo per dimostrarlo. Così, per esempio, è impossibile concepire la causa prima di aver compreso l’effetto, come suo effetto. Allora, infatti, noi conosciamo che è causa dell’effetto, quando comprendiamo questo come effetto. Ma nemmeno l’effetto della causa, come effetto di questa, noi possiamo comprendere, se non abbiamo compreso la causa dell’effetto, come causa di questo. Allora, infatti, ci par di conoscere, anche, che è effetto di questa, quando abbiamo compreso la causa di esso, come causa di esso. Ora, se, per conoscere la causa, bisogna aver conosciuto, prima, l’effetto, e per conoscere l’effetto, bisogna, come ho detto, conoscere prima la causa, l’imbarazzo del diallele, in cui si cade, mostra che ambedue sono inconcepibili, non potendosi concepire né la causa, come causa, né l’effetto, come effetto; ché, avendo ambedue bisogno l’uno della conferma dell’altro, non sapremo da quale delle due nozioni cominciare. Perciò nemmeno potremo dimostrare che esiste qualche cosa, che sia causa di qualche cosa. (III, 20-22)
Inoltre, chi propone una certa causa lo fa o ex cathedra (e in questo caso si cade sotto il modo ipotetico) o adduce ulteriori cause per spiegarla (in questo caso egli rischia la regressione o la circolarità: III, 23-24). Infine, se la causa non precede il suo effetto, non può causarlo, ma se lo precede non può (come deve) essere collegata a esso; quindi deve allo stesso tempo precedere e non precedere il suo effetto, e dunque, il concetto di causa è in sé contraddittorio (III, 25-28; v. Adversus mathematicos, IX, 232-236, argomenti che in origine dobbiamo a Erofilo; v. Galeno, De causis procatarcticis, CVI, 197-204).
In Adversus mathematicos (IX, 237-251) Sesto adduce vari argomenti per stabilire la contraddittorietà della distinzione tra agente e paziente; in primo luogo egli sostiene che data una certa causa essa non è mai sufficiente da sola a produrre i suoi effetti, ma richiede la cooperazione della materia passiva (tẽs paschoúsēs hýlēs). Il fuoco, per esempio, non brucia perennemente, «ma certe cose le brucia e certe altre non le brucia» e quindi non è una causa reale o sufficiente della combustione (ibidem, IX, 237-243). Tuttavia gli stoici sostengono che almeno alcune delle loro cause (le cosiddette ‘cause sinettiche’, Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 15) sono sia necessarie che sufficienti ai loro effetti. Considerazioni di questo genere suggerirono al medico Erasistrato di rifiutare il titolo di ‘causa’ alle condizioni di predisposizione precedenti l’infermità proprio sulla base del fatto che quelle condizioni non erano invariabilmente correlate alla successiva malattia, opinione che Galeno stigmatizza come confusa e teoricamente pericolosa (Le cause antecedenti, I, 10; II, 11; VI, 47-48; VIII, 107-113; XIII, 167; XIV, 174-176). L’argomento di Sesto stabilisce che bisogna fare attenzione quando si usano termini come ‘necessario’ e ‘sufficiente’ nell’analisi causale.
Sbarazzarsi della coerenza del discorso causale minerà ipso facto ogni scienza esplicativa costruita secondo un modello realistico, ma Sesto dispiega anche una lista di argomenti specifici contro le scienze e i loro concetti costitutivi; per esempio, prende di mira la nozione fisica di corpo (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 30-55; Adversus mathematicos, IX, 359-440), inizialmente sulla base del fatto che il corpo è definito come qualcosa capace di interazione causale quando la nozione di causalità è stata screditata. Si volge poi a un’altra famosa definizione di ‘corpo’ come «ciò ch’è provvisto di tre dimensioni, e, insieme, di resistenza» (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 39; Adversus mathematicos, IX, 367) e procede argomentando che il concetto di tridimensionalità è contraddittorio perché nulla può esistere senza tutte e tre le dimensioni, e tuttavia i matematici (ha in mente Platone e i pitagorici) costruiscono corpi da piani, linee e in definitiva da punti (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 39-42; v. sotto, par. 6, la critica di Aristotele alla trattazione platonica della matematica e della geometria in Metaphysica, XIII).
Sesto passa poi ad attaccare la nozione teorica di ‘contatto’; se due superfici sono completamente in contatto, tra di esse non dovrebbe esserci nulla e così vi sarà un unico corpo. Noi possiamo distinguerle come due corpi soltanto se il contatto è imperfetto, ma allora già abbiamo bisogno del concetto di profondità e dunque non stiamo più trattando soltanto di entità puramente bidimensionali (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 42-43; v. Adversus mathematicos, IX, 258- 265). I suoi argomenti non sono, certo, conclusivi, tuttavia costituiscono una sfida seria per chiunque confidi troppo nella coerenza di concetti matematici e geometrici di base, e chiedono un rinnovato sforzo per porre la matematica e la geometria su fondamenti certi. Inoltre, pongono la questione di quanto chiaramente la nozione matematica e quella fisica di corpo siano separate, perché se anche il concetto matematico di dimensionalità può essere reso coerente, tutt’altra questione è vedere come questa dimensionalità possa essere investita di solidità e resistenza.
Gli argomenti di Sesto sono specificamente diretti contro le questioni teoriche relative al corpo così come era concepito dai filosofi. Lo scettico sestiano non dubita, in generale, di avere un corpo, così come non dubita di muoversi, sulla base degli argomenti mossi contro il concetto teorico di movimento (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 63-81; Adversus mathematicos, X, 37-168; lo stesso vale per la sua ‘abolizione’ di generazione e corruzione: Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 109- 114; Adversus mathematicos, X, 310-350). Ciò nono stante, questi argomenti sono interessanti e coinvolgono le più astratte nozioni dei dogmatici, in particolare quelle di spazio e di tempo. Già a partire da Zenone erano sorte difficoltà sulla coerenza teorica del concetto di moto e Sesto dispiega molto efficacemente una serie di dilemmi; così, lo spazio o è continuo o è atomico; se è continuo, allora le considerazioni di Zenone mostreranno che il movimento è impossibile, perché richiede l’attuazione di un numero infinito di azioni in un tempo finito (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 76-78; v. Adversus mathematicos, X, 111, 122-130). La nozione atomista secondo la quale lo spazio e i suoi occupanti sono divisi in quantità minime indivisibili fa sorgere a sua volta una difficoltà:
Si dia, infatti, una distanza composta da nove luoghi indivisibili messi in fila, e si muovano lungo questa distanza due corpi da ciascuna delle due estremità, e si muovano con velocità eguale. Pertanto, poiché il loro movimento ha eguale velocità, sarà indispensabile che ciascuno di questi due corpi passi lungo quattro luoghi indivisibili. Ma, non appena perviene al quinto luogo – che è in mezzo tre e quattro – o ciascuno dei due corpi si fermerà o uno dei due precorrerà l’altro in modo da attraversare cinque luoghi indivisibili mentre l’altro ne percorrerà soltanto quattro, oppure, infine, ciascuno dei due si fermerà, né uno di essi precorrerà l’altro, ma entrambi insieme accorreranno in un sol tempo e ciascuno dei due occuperà la metà del quinto luogo indivisibile. (Adversus mathematicos, X, 144-145)
Problematica è anche la nozione filosofica di luogo. Dobbiamo identificarla con il vuoto degli atomisti? Ma il vuoto non è. Inoltre, quando è occupato rimane o si distrugge? Se rimane, due cose occuperanno lo stesso spazio. Ma come si può distruggere qualcosa che non è (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 124-135)? Inoltre, l’idea aristotelica che il luogo di una cosa è la superficie interna di ciò che la circonda (Physica, IV, 4) è ugualmente problematica: dove, allora, è l’Universo come un tutto (Adversus mathematicos, X, 31-35; Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 131)? E cosa dire di qualcuno che cammina verso la poppa di una nave alla stessa velocità in cui la nave avanza? Il suo luogo (l’aria circostante – presupponendo che sia ferma) non cambia, eppure egli è in movimento (Adversus mathematicos, X, 65-67). Se cerchiamo di caratterizzare i luoghi indipendentemente dai corpi che li occupano così da evitare questa obiezione, i luoghi avranno essi stessi luoghi e così via all’infinito (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 132-133; Adversus mathematicos, X, 24-29).
Infine, fra i concetti fisici generali è attaccato quello di tempo (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 136-150; Adversus mathematicos, X, 169-247 e VI, 66); il tempo è diviso in passato, presente e futuro, ma se supponiamo che il presente sia l’immediato limite puntuale tra passato e futuro, nulla potrebbe cambiare perché i cambiamenti avvengono nel presente e nulla può aver luogo in un istante (argomento che richiama il paradosso della freccia di Zenone e che Sesto attribuisce a Timone, che fu il primo seguace di Pirrone); mentre se il presente è uno spazio di tempo, devono esserci molti distinti presenti, alcuni passati altri futuri, il che è contraddittorio (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 143-144; Adversus mathematicos, X, 193-200).
Naturalmente, questi argomenti non sono conclusivi e in un certo senso non intendono esserlo; infatti, il fine dello scetticismo è la sospensione del giudizio. Se Sesto riuscisse a convincere che non c’è corpo né movimento, o che luogo e tempo sono pure fantasie della nostra immaginazione, avrebbe fallito nel suo compito. Egli cerca invece di minare ogni credenza, positiva e negativa, come qualcosa di non evidente; e i concetti tecnici degli scienziati sono, come si è visto, paradigmatici di queste credenze.
La stessa cosa vale per le critiche di Sesto, in Adversus mathematicos (III, 1-17), contro l’uso di ipotesi da parte dei geometri:
I geometri, accorgendosi di essere assaliti da un gran numero di aporie, credono di aver trovato un rifugio privo di rischi e di incertezze nel fatto che essi pongono come postulati dei principî della geometria solamente ‘ipotesi’; perciò può essere bene che anche noi consideriamo il ragionamento intorno all’ipotesi come inizio della nostra polemica contro di loro. Infatti anche Timone, nei suoi scritti contro i fisici, stabilì che si deve anzitutto ricercare questo, cioè se si può assumere qualcosa in base a una ipotesi. (III, 1-2)
Il tema delle ipotesi geometriche è complesso e controverso. Platone biasima i geometri, che trattano delle pure ipotesi come se fossero principî assiomatici, obiettando che non usano le deduzioni per stabilire le ipotesi, ma «passano a trattare tutto il resto deducendo così di conseguenza quella conclusione in virtù della quale avevano preso le mosse». Viceversa, secondo Platone, la ragione tratta le ipotesi «per quello che sono, supposizioni, che sono come gradini e pezze d’appoggio per elevarsi fino al principio del tutto, a ciò che è al di là delle ipotesi» (Respublica, VI, 509 d-511 c), in modo tale che l’intero argomento cessi di dipendere, quanto alla sua veridicità, dal mero presupposto della verità delle sue premesse. I particolari di questo procedimento (dialettico) sono oscuri ed è arduo vedere come un procedimento del genere possa servire a liberare lo stato ipotetico delle ipotesi, mutandole in assiomi.
Il punto di vista di Timone può essere stato questo: i teoremi sono validi tanto quanto gli assiomi su cui si basano, dunque non possono fornire nessuna conferma indipendente della verità degli assiomi e quindi non possono dimostrare di ‘essere’ assiomi. Dopo tutto, come Aristotele faceva notare, la conclusione di un presupposto assurdo è assurda; Sesto nota che se noi ipotizziamo che 3=4, possiamo inferire che 6=8, ma a che scopo? (Adversus mathematicos, III, 11; cfr. Aristotele, Ethica Eudemea, II, 6, 1222 b 31-37). I geometri si comportano come se deducessero certe verità da fondamenti sicuri attraverso argomenti deduttivi evidentemente validi; per questa ragione, almeno fin dagli Analytica posteriora di Aristotele, la geometria era trattata come paradigma di scienza esatta che produce vera comprensione. Tuttavia, se i geometri non sono in grado di giustificare i loro presupposti originari, se non possono dimostrare perché questi dovrebbero essere considerati assiomi, la geometria è costruita sulla sabbia.
In Adversus mathematicos (III, 6-17) Sesto argomenta che, prima facie, un’ipotesi non è più degna di credito dell’ipotesi contraria; se lo fosse, non sarebbe un’ipotesi bensì un fatto evidente di per sé, non vi sarebbe cioè bisogno di ulteriore conferma, ma poiché il metodo accetta la necessità di conferma, inizialmente una qualunque ipotesi non è più accettabile di una qualunque incompatibile alternativa. In secondo luogo, si potrebbe argomentare che, se una proposizione q di per sé evidente (o indipendentemente confermata) è conseguenza di un’ipotesi p, la verità di q è prova della verità di p; fatto logico elementare è però che da falsità possono derivare verità e di conseguenza q è del tutto inefficace a convalidare p. Il bersaglio ultimo sembra essere anche in questo caso la ‘confusa’ concezione platonica di una dialettica ascendente determinante la verità (Respublica, VI). La nozione di conferma avrebbe bisogno di ulteriore trattazione e il modo in cui Sesto la tratta è in un certo senso inadeguato e indica una debolezza di fondo nella posizione dei geometri, tranne quando essi possono fornire un argomento dicendo che ‘soltanto’ presupponendo un certo p, un determinato q può essere vero in conseguenza. La strategia argomentativa qui riflette dunque quella dei modi anticausali di Enesidemo (v. sopra, par. 4). Più avanti (Adversus mathematicos, III, 37-64; IX, 368-417), Sesto moltiplica le sue argomentazioni contro la concepibilità di «lunghezza senza ampiezza» (per es., le linee) e dei punti geometrici (III, 22-28), concetti essenziali a ogni seria geometria. Queste entità postulate in realtà non possono esistere – dal momento che non può esistere nulla in un’unica dimensione o meno – e non possono quindi avere alcun ruolo nella spiegazione. Inoltre noi non possiamo dire che le cose che trattiamo come superfici e linee sono realmente, le une e le altre, tridimensionali: «Se, infatti, il corpo è la lunghezza, questa dovrà dividersi su tre dimensioni; ciascuna delle quali, essendo corpo, di nuovo si dividerà in altre tre dimensioni, le quali saranno corpi, e anch’esse si divideranno, similmente, in altre dimensioni, e così all’infinito» (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 44; v. Adversus mathematicos, II, 22-56; IX, 435).
Contro l’affermazione di Aristotele che noi possiamo concepire la lunghezza di un muro senza considerare la sua altezza (o larghezza) (Aristotelis fragmenta selecta, ed. Ross 1955, fr. 29), Sesto replica che noi non lo concepiamo ‘del tutto’ senza altezza, ma soltanto senza un’altezza particolare, e che fondare la nozione teorica astratta di unidimensionalità non serve (Adversus mathematicos, IX, 412-413; III, 57-59). In realtà Aristotele si era posto il problema e aveva concluso che, anche se è impossibile formare un’immagine di lunghezza senza larghezza, noi possiamo arrivare alla lunghezza per astrazione semplicemente cessando di tener conto della larghezza; quindi dalla nostra esperienza ordinaria possiamo astrarre il concetto di lunghezza priva di larghezza (Metaphysica, XIII, 3). Sempre contro i fondamenti della scienza dogmatica sono le argomentazioni concernenti le relazioni tra la parte e il tutto e riguardanti il numero (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 216-217; Adversus mathematicos, IV, 21-34 e X, 248-309):
Se esiste un tutto, o è qualcosa di diverso dalle sue parti, o le stesse sue parti sono il tutto. Se è qualche cosa di diverso dalle parti, il tutto appare essere niente. Non v’è dubbio, almeno, che, tolte via le parti, non rimane nulla che permetta di concepire il tutto come qualche cosa di diverso da queste. Se le stesse parti sono il tutto, sarà esso soltanto un appellativo vuoto, ma non avrà sussistenza, a quella guisa che nemmeno l’intervallo è qualche cosa fuori delle cose intervallate, né la travatura fuori delle travi insieme riunite. E allora il tutto non esiste. (Pyrrhoneion hypotyposeon, III, 98-99; vedi Adversus mathematicos, IX, 338-340; I, 134)
Sesto afferma che trattare il tutto semplicemente come somma delle sue parti riduce la nozione a una ovvietà. I filosofi moderni ricorrono qui all’‘è’ costitutivo, in quanto le travi ‘costituiscono’ la travatura, ma non devono essere strettamente identiche a essa perché le travi, ma non la travatura, sopravviveranno al suo smantellamento. Anche se nella sua caratterizzazione entreranno fatti relazionali, ciò non fa della nozione di travatura un concetto puramente relazionale (come nel primo esempio di Sesto, sull’intervallo), allo stesso modo in cui una serie (completa) di parti del motore non è necessariamente un motore.
È chiaro qui allora in che senso il tutto è qualcosa di più che (semplicemente) la somma delle sue parti, anche se chiedendosi cosa in un tutto non sia esaurito dalle sue parti non si sarebbe (ovviamente) in grado di trovare altre ‘parti’ che rendono il tutto un tutto. Ciò che lo rende tale sono elementi delle singole categorie (relazioni funzionali, posizioni, ecc.). L’affermazione che il tutto è la somma delle sue parti non è dunque semplice ovvietà e non andrebbe interpretata come semplice asserzione d’identità. Per tutte queste ragioni le preoccupazioni di Sesto non sono banali; occuparsene comporta tutta una seria e profonda riflessione filosofica sulla natura di tutto, parti e relazione costitutiva. I concetti di parte e di tutto si riferiscono anche ai numeri; si suppone che i numeri interi maggiori di 1 siano, in un certo senso, ‘composti’ di unità, ma questa supposizione genera note difficoltà (Aristotele, Metaphysica, XIII, 3). In Schizzi pirroniani (II, 216-217; III, 87; Adversus mathematicos, IX, 303), Sesto nota che 9 è una parte di 10, ma lo sono anche 8, 7, ecc.; 10 è dunque fatto di 9+8+7…+1=45, e se 10 è una parte di sé stesso possiamo anche aggiungerlo e quindi 10=55, il che è assurdo. Scomponendo poi 9 allo stesso modo, e poi 8 e così via, possiamo rendere il 10 ancora più difficile da calcolare. 10 non può allora consistere della somma delle sue parti, il che è di nuovo assurdo. L’argomento ovviamente è fallace e prova soltanto che 10 non consiste della somma di tutti i suoi possibili sottoinsiemi, ma ciò è indiscutibile sia per gli oggetti ordinari sia per i numeri. In ogni porzione che si somma all’oggetto originale è importante che ogni singola parte sia contata una e una sola volta, verità che in un certo senso può essere ovvia ma che non è priva di importanza e dalla quale, quando è persa di vista, consegue inevitabilmente il paradosso, come l’argomento di Sesto dimostra.
La questione se l’astrologia e altre forme di divinazione fossero una vera scienza o semplice superstizione fu al centro di un acceso dibattito durante l’Antichità. Gli stoici (fatta eccezione per Panezio) accettavano la divinazione (Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, VII, 149) in base alla credenza che l’Universo è causalmente deterministico e sotto il controllo di una divinità razionale benevola, e che per gli esseri umani conoscere il futuro sarebbe benefico (Cicerone, De natura deorum, I, 161-168; De divinatione, I, 82-83; v. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 75-137). Entrambe le credenze sono suscettibili di essere messe alla prova; gli argomenti stoici in favore dell’organizzazione teleologica del mondo di fatto non convinsero gli epicurei (De natura deorum, I, 18-56), mentre Dicearco rifiutava l’idea che la prescienza fosse benefica (De divinatione, II, 105; v. Favorino in Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIV, 1, 36). Inoltre, gli stoici facevano appello ai ‘successi’ della pratica divinatoria come prova della divina provvidenza dell’Universo (Adversus mathematicos, IX, 132), argomento che funziona, però, all’inverso per chi non si lascia impressionare dai ‘successi’ come Cicerone nel Libro II del De divinatione.
Gran parte della discussione sviluppata da Cicerone in quest’opera affronta proprio la questione se i successi degli indovini siano autentici successi profetici e dimostra una comprensione abbastanza acuta di ciò che tale successo dovrebbe comportare. Non è sufficiente indovinare soltanto di tanto in tanto in quanto gli indovini devono dimostrare che i loro pronostici hanno regolarmente la meglio sul caso, cosa che Cicerone nega che avvenga; i ‘successi’ che non si possono attribuire soltanto alla fortuna potranno essere giustificati con l’inganno, la mancanza di chiarezza, l’ambiguità nei responsi oracolari (De divinatione, II, 52-53, 66, 69, 115-118, 121).
Queste questioni rientrano in un dibattito generale sullo status di certe scienze pratiche, in particolare di quelle che non producono risultati certi; possono queste pratiche (che oggi definiremmo ‘stocastiche’) essere scientifiche in senso proprio? I sostenitori della divinazione sostengono che le loro arti non si trovano in condizioni peggiori di quelle della medicina, dell’agricoltura o della navigazione (I, 24- 25) e l’esplicita assimilazione della divinazione alla medicina costruita secondo linee empiriche pone un problema interessante a ogni tentativo scettico di rigettarne la pratica. Il pirronismo di Sesto, come si è visto prima, è tutto sommato ben disposto ad accettare «l’insegnamento delle arti», cioè considerando le arti prese empiricamente, come parte della «quadripartita osservanza di vita» (Pyrrhoneion hypotyposeon, I, 23-24). Gli scettici, allora, dovrebbero attaccare la divinazione (se proprio devono farlo) o sulla base della sua inefficacia empirica o per la pretesa teorica che certe sue branche potrebbero avere. Di fatto, questo è esattamente quel che fanno.
I sostenitori dell’astrologia a volte affermano, a favore di essa, che tra eventi celesti ed eventi terrestri esistono connessioni osservabili, anche se inesplicabili. Favorino, lo scettico accademico del I sec. d.C., obietta che il semplice fatto che alcuni fenomeni terrestri (per es., le maree) sono apparentemente influenzati dai corpi celesti non serve a mostrare che altre attività non correlate (per es., la perorazione nei tribunali) lo siano (Noctes Atticae, XIV, 1, 2); anche se lo fossero, la vita umana è troppo breve per raccogliere sufficienti informazioni su cui basare queste correlazioni puramente empiriche. Egli nota poi che le posizioni visibili dei corpi celesti differiscono a seconda della diversa posizione da cui li si osserva sulla superficie terrestre. Se, inoltre, nel trarre oroscopi il luogo di nascita è importante quanto il tempo, sarà impossibile raccogliere tutti i dati significativi, soprattutto dal momento che gli astrologi insistono sul fatto che ogni oroscopo individuale è diverso dall’altro. In ogni caso, i membri di una stessa famiglia, anche se nati in tempi diversi, condividono caratteri e storie, mentre persone di ambienti e di età completamente disparati a volte si trovano a morire nello stesso disastro. Infine, spesso accade che dei gemelli subiscano destini del tutto diversi; allora, come possono gli astrologi determinare gli oroscopi individuali con accuratezza tale che tenga conto di tutto questo (ibidem, I, 8-28)?
Nel Libro V dell’opera Adversus mathematicos, Sesto di - spiega argomentazioni simili per minare la pretesa dei Caldei di aver stabilito una scienza profetica basata sull’osservazione degli astri. Inizia sottolineando che suo bersaglio è l’astrologia e non la matematica in generale, e neppure l’astronomia matematica (che in realtà può essere utile: V, 1-2; v. par. 8). I Caldei invocano l’idea stoica di simpatia cosmica per confermare l’affermazione che «i sette astri maggiori [cioè il Sole, la Luna e gli altri pianeti noti] sono in correlazione con le cause efficienti di ciascun avvenimento della vita » (V, 5). Sesto passa poi a riassumere il loro sistema di oroscopi (V, 6-42). L’eclittica è divisa in dodici segni base, quelli contraddistinti dalle costellazioni dello Zodiaco; il segno che sta sorgendo al momento della nascita regola la vita dell’individuo, ma significative sono anche le posizioni degli altri corpi celesti in quel momento, così come le relazioni tra parti dei segni e parti del corpo umano. La ‘scienza’ richiede un’accurata misura del tempo e difatti mentre a un astrologo era assegnato il compito di osservare da un appropriato punto favorevole il segno nascente, un altro gli segnalava con un gong l’esatto momento della nascita.
La confutazione di Sesto inizia in modo tipico, notando che le idee di simpatia cosmica e di fato che sorreggono il sistema dei Caldei sono in realtà controverse; alcuni affermano che gli eventi accadono o (a) di necessità o (b) per caso o (c) per azione umana. Nel primo caso, la profezia è inutile (perché non ci si può far nulla), gli eventi casuali, invece, non possono, per definizione, essere pronosticati. Infine, l’azione richiede libertà da cause esterne, ma nulla che non sia causato può essere pronosticato (V, 43-48). Nessuna di queste considerazioni è conclusiva; per quel che riguarda (a), i risultati possono essere necessari, ma non indipendentemente dal pronostico e dai suoi effetti sull’azione umana; in risposta a (b), gli stoici definiscono caso «una causa oscura all’umano intendimento» (Stoicorum veterum fragmenta, II, 965-971); nulla impedisce che una cosa sia allo stesso tempo determinata e frutto del caso inteso in questo senso. Inoltre, non vi è un legame logico tra pronostico e spiegazione causale (anche se di spiegazioni ve ne può essere una contingente ben fondata) e lo scettico dunque non può scartare a priori la possibilità di pronosticare eventi non causati.
Questi argomenti sono i «tiri effettuati da lontano» dalla maggioranza degli ‘antiastrologi’, soprattutto accademici ed epicurei. Sesto, da parte sua, preferisce un approccio più diretto, dal momento che «dopo aver rimosso i principî e i cosiddetti elementi di quest’attività, ci troveremo ad aver già eliminato, insieme con essi anche tutto quello che resta delle rimanenti dottrine» (Adversus mathematicos, V, 49). Questi ‘principî’ sono i metodi per stabilire oroscopi. Sesto afferma che dal momento che lo stato esatto dei cieli al momento della nascita è praticamente indeterminabile, precisi pronostici astrologici sono per principio impossibili. In primo luogo, gli astrologi non concordano sul fatto se evento cruciale sia il concepimento o la nascita. È impossibile fissare il momento del concepimento; d’altro lato, la nascita è un processo, e allora cosa si deve prendere come momento del suo effettuarsi? Inoltre, alcune nascite avvengono più velocemente di altre. Se anche fosse stato possibile accertare con esattezza il momento della nascita potrebbe non essere stato comunicato istantaneamente all’astrologo; se anche lo fosse stato, la precisione, in linea di massima, sarebbe stata possibile soltanto di notte. Inoltre, le classificazioni degli astrologi dei segni e dei loro limiti sono imprecise, e un’accurata misura del tempo è impossibile. A loro volta, i punti di osservazione possono mutare lievemente nel tempo rendendo impossibile mantenere la costanza attraverso i lunghissimi periodi richiesti per raccogliere le necessarie correlazioni empiriche. Ancora, i poteri percettivi individuali variano, e d’altra parte fenomeni come la rifrazione possono dar luogo a false letture. Infine, il cielo appare diverso se osservato da posizioni diverse (V, 50-84).
La maggior parte di questi argomenti tende a mostrare che è empiricamente impossibile raccogliere dati sufficientemente accurati per costruire un’astrologia empirica. Sesto non condivide la preoccupazione accademica di Cicerone di mostrare che le pratiche degli indovini non danno risultati significativi; egli invece attacca le basi dell’arte per mostrare che, indipendentemente dal fatto che vi siano indovini che hanno successo, non può esservi scienza di queste cose stabilita nel modo in cui essi intendono; anche se vi fosse una divinazione empiricamente riuscita, questa professione non costituirebbe una scienza pratica strutturata nel senso dei dogmatici. Sesto invoca comunque la prova empirica per mostrare come gli astrologi, a meno che riescano a calcolare parametri individuali straordinariamente precisi, verranno smentiti dai fatti reali (allude all’argomento dei gemelli accennato poco sopra: Adversus mathematicos, V, 88-93). Gli astrologi sono allora prigionieri di un dilemma: o la loro ‘arte’ tratta di unità di tempo e di arco minutamente precise, nel qual caso essa è decisamente introvabile, o si accontenta di pronostici generali basati su intervalli di tempo accertabili ma molto estesi, nel qual caso è empiricamente falsa: «non è conforme a ragione il fatto che la vita sia disposta secondo i movimenti degli astri, ma se pur questo fosse conforme a ragione, per noi sarebbe una cosa del tutto incomprensibile» (V, 95).
Sesto conclude con ulteriori riflessioni sulla difficoltà di stabilire le precise correlazioni richieste; gli stessi astrologi sono soliti sostenere che la loro è una scienza empirica, costruita sulla base di una lunga conferma di correlazioni tra ordinamenti celesti e vite individuali. Queste correlazioni devono però essere verificate più volte prima di raggiungere credibilità empirica (è chiaro che qui si riferisce alla metodologia dei medici empirici). Tuttavia, i cieli ripetono le loro esatte configurazioni soltanto dopo ogni «grande anno» (9977 anni) e quindi i Caldei non hanno avuto il tempo sufficiente a verificare tutte le loro ipotesi (V, 103-105). L’astrologia, costruita come scienza puramente empirica, è effettivamente non controllabile.
Il modo in cui Sesto tratta l’astrologia, oltre a essere un tipico esempio di come gli scettici accaparrassero argomenti da altre fonti a scopo dialettico (in questo caso soprattutto dagli accademici e dagli epicurei), offre anche un modello del modo scettico di affrontare le scienze. Per gli scettici le pratiche ‘scientifiche’ sono potenzialmente del tutto accettabili se producono risultati utili su base empirica (naturalmente potrebbero non raggiungere il criterio empirico di utilità, come Sesto afferma che avvenga nel caso degli astrologi). Ma non appena tentano di spiegare con una qualche teoria causale i loro successi, in realtà non appena tentano di codificare la ‘scienza’ in termini strutturali generali, vanno al di là di quanto possa essere giustificato dal solo riferimento al fenomeno e si smarriscono irrimediabilmente nel campo del non evidente e del non accertabile. Queste deviazioni sono prive di qualsiasi valore. I fenomeni non sono, con buona pace di Anassagora e di Democrito, «una pallida idea degli ádēla»: sono soltanto e semplicemente fenomeni.
La questione se la scienza dovesse soltanto occuparsi delle correlazioni tra fenomeni o anche cercare di spiegare quelle correlazioni in quanto espressione di una sottostruttura nascosta, questione che – come si è avuto modo di considerare – definisce essenzialmente l’antico dibattito tra scienza e scetticismo, era di particolare rilievo nel caso dell’astronomia. Sesto non aveva nulla contro l’astronomia matematica strettamente calcolatoria «che è stata praticata da Eudosso, da Ipparco» e ammette che la pratica astronomica è utile per la previsione meteorologica e agricola (Adversus mathematicos, V, 1-2). Eudosso di Cnido e Ipparco non cercano però di sviluppare considerazioni fisiche sulla struttura dell’Universo, in quanto i loro sistemi di sfere concentriche e di epicicli ed eccentrici sono intesi soltanto a fornire un modello matematico predittivo dei movimenti dei corpi celesti; tuttavia, altri tentano di fare proprio questo. Aristotele (Metaphysica, XII, 8) aggiunge sfere rotanti in senso inverso per dare al sistema matematico di Eudosso una realizzazione fisica; mentre questo tentativo è chiaramente più difficile nel caso della struttura di Ipparco di epicicli e deferenti, Tolomeo, l’autore (con la Syntaxis) del più sofisticato ed empiricamente adeguato sviluppo matematico del sistema di Ipparco, tenta nel suo Ipotesi planetarie di raggiungere questo risultato. Teone di Smirne, nella Esposizione delle conoscenze matematiche utili per leggere Platone (Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium), argomenta su linee ‘realistiche’ che i pianeti devono in verità essere inclusi in sfere fisiche di etere incorruttibile, altrimenti il loro movimento sarebbe inspiegabile dal punto di vista fisico. Tolomeo, nelle Ipotesi planetarie (II, 6), cerca di ridurre l’apparato fisico al minimo, ma anche in questo caso gli epicicli sono pensati fisicamente; infatti i pianeti poggiano su piccole ruote che ruotano all’interno del bordo di ruote più grandi.
Inoltre, di nuovo per ragioni di realizzabilità fisica, Tolomeo è costretto a supporre che ogni sistema planetario sia indipendente dall’altro e dunque che ogni pianeta si muova indipendentemente; il tutto mantiene la sua struttura globale per coordinazione, come in uno stormo di uccelli, così che la necessità delle controrivoluzioni aristoteliche è eliminata (De hypothesibus planetarum, II, 7-8). Inoltre, sebbene il modello matematico della Syntaxis sia elaborato senza considerarne la realizzabilità fisica, Tolomeo adduce argomenti realistici contro le ipotesi di eliocentrismo elaborate nel III sec. a.C. da Aristarco di Samo e Seleuco (anche se soltanto il secondo probabilmente sostiene l’eliocentrismo come una questione di fatto fisico). Se la Terra si muove, come l’eliocentrismo afferma, allora deve muoversi molto rapidamente di un moto che dovrebbe essere individuabile in forma di corrente d’aria costante da est, e i proiettili dovrebbero muoversi molto più rapidamente verso ovest che verso est, ma non si osserva alcuno di questi effetti (Syntaxis mathematica, I, 7). Perfino Tolomeo, il quale è a volte erroneamente visto come uno strumentalista ante litteram, come qualcuno cioè che credeva che l’unica funzione di una teoria scientifica fosse quella di fornire un accurato algoritmo predittivo, del tutto indipendentemente dalla struttura fisica, si occupò quindi della questione di come l’Universo potesse in realtà essere strutturato, e non soltanto di «salvare le apparenze». La connessione della critica scettica con la questione realismo e antirealismo (o strumentalismo) nella scienza è chiara; infatti, tanto più una scienza cerca di andare oltre una semplice sistemazione del fenomeno verso il tentativo di vedere cosa realmente esista nel mondo, tanto più entra in collisione con le considerazioni scettiche esaminate nel corso di questo capitolo.
Il dibattito è ancora vivo alla fine dell’Antichità; infatti, nel V sec., il neoplatonico Proclo procede a mostrare, nel suo Astronomicarum positionum hypotyposis (I, 1-6), che i modelli di Aristarco, Ipparco, Tolomeo e altri non concordano con le effettive meccaniche celesti, anche se possono funzionare (sebbene imperfetti) come utili euristiche. Se gli epicicli e gli eccentrici avessero realtà fisica, sfiderebbero le leggi della sua fisica, che è in gran parte di derivazione aristotelica; la giusta, ‘non strumentale’, risposta alla questione del perché i cieli si muovano come si muovono deve partire da una comprensione della loro natura platonica di corpi animati (ibidem, VII, 50). Infine, il grande neoplatonico cristiano Giovanni Filopono (m. 576 ca.) rifiuta anch’egli, in quanto li considera inadeguati, i modelli degli astronomi matematici; egli suppone che i corpi celesti originariamente siano stati dotati da Dio di un certo impeto esauribile, o forza motoria, e che Dio determini le traiettorie successive, deridendo i tentativi di Tolomeo e di altri di descrivere i moti celesti in termini di sovrapposizione di figure geometriche:
chi può dirci la causa di questo [la precessione degli equinozi]? Nessuno sarà in grado di spiegare il numero degli astri, la loro posizione e disposizione, i loro diversi colori; noi conosciamo le cause di pochissime cose evidenti, e se non è possibile descrivere le cause naturali di cose evidenti, non possiamo pretendere di spiegare la causa di quelle nascoste. (Filopono, De opificio mundi, III, 4)
Annas 1985: Annas, Julia - Barnes, Jonathan, The modes of scepticism. Ancient texts and modern interpretations, Oxford-New York, Cambridge University Press, 1985.
Barnes 1990: Barnes, Jonathan, The toils of scepticism, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1990.
Brochard 1923: Brochard, Victor, Les sceptiques grecs, Paris, Imprimerie nationale, 1923 (1. ed.: 1887).
Dal Pra 1950: Dal Pra, Mario, Lo scetticismo greco, Milano, Bocca, 1950 (2. ed. riv. e aggiornata: Roma-Bari, Laterza, 1975).
Giannantoni 1981: Lo scetticismo antico, a cura di Gabriele Giannantoni, Napoli, Bibliopolis, 1981, 2 v.
Hankinson 1995: Hankinson, R.J., The sceptics, London-New York, Routledge, 1995.