Vedi SARCOFAGO dell'anno: 1966 - 1973 - 1997
SARCOFAGO (v. vol. vii, p. 2)
A) - nuovi rinvenimenti. - Dei numerosi s. interi o frammentari rinvenuti in questi ultimi anni e di cui si è avuta una tempestiva pubblicazione, molti offrono un interesse per la qualità della loro esecuzione, per il contesto monumentale in cui sono inseriti, per la problematica della decorazione. Si dà una breve rassegna dei complessi e dei monumenti più notevoli.
A Tiro nei pressi di Deb'aal sono stati rinvenuti in un ipogeo, 27 s. in piombo ed altri in calcare locale, di cui due sono decorati, solo sui lati brevi, con ghirlande tenute da due Vittorie angolari. Nel primo esemplare, la cui decorazione è modesta e grossolana, nel frontone è inserito il ritratto di una donna, di difficile definizione cronologica a causa della genericità dei tratti e dell'acconciatura. Nel secondo, invece, che presenta sui lati brevi lo stesso schema iconografico, eseguito con maggiore accuratezza, nel frontone è inserito il ritratto di un defunto di cui, in base all'iscrizione, si conosce il nome e la data della morte (136 d. C.). A causa dell'identità della decorazione, questi due s., molto probabilmente di produzione locale, devono essere quasi contemporanei; sfruttano un motivo, quello delle ghirlande, tipicamente asiatico (v. vol. vii, p. 12 ss., s. v. Sarcofago; v. oltre Commercio), già presente nella regione anatolica in età flavia. La moda dei S. a ghirlanda si sviluppa a Roma in età traianeo-adrianea con carattere dionisiaco, con lo stesso significato cioè che era già presente sulle urne urbane di età flavia, di contro ai festoni degli inizî del I sec. di probabile carattere apollineo. I due esemplari di Tiro non hanno però nulla della grazia adrianea: rozze le ghirlande, grossolana l'esecuzione delle Vittorie, inespressivo il ritratto dei defunti.
Gli altri S. rinvenuti nell'ipogeo, sono, come si è detto, in piombo, decorati a matrice con racemi vegetali stilizzati, sfingi, crateri, elementi architettonici, teste di gorgone. La loro importanza non consiste tanto nella decorazione, piuttosto monotona, quanto nel fatto di essere stati rinvenuti insieme a materiali che permettono di stabilire una precisa datazione. Essi infatti possono essere datati con sicurezza tra la metà del I sec. e il primo venticinquennio del III sec. d. C. I s. in piombo, anche se non sono peculiari della Siria, furono particolarmente in voga in questa regione (v. vol. vi, p. 176 ss., s. v. Piombo). Si riteneva prima di questa scoperta, che la loro produzione iniziasse nel II sec. d. C. Evidentemente invece essi erano usati in Siria già alla metà del secolo precedente. Nonostante le possibilità di datazione esterna offerta dai nuovi esemplari, si è potuta constatare l'impossibilità di stabilire una evoluzione cronologica sia dello stile, sia dei motivi decorativi. Si nota infatti che le decorazioni sono ripetute per lunghi tempi, senza alcuna variazione.
Il secondo notevole ritrovamento è anch'esso di Tiro. In una necropoli posta lungo una delle vie di accesso alla città, sono stati rinvenuti in questi ultimi anni in ipogei o all'esterno di essi, circa 200 s. di cui 10 sono stati recentemente pubblicati dal Chéhab. Mentre i monumenti in calcare di Deb'aal sono di produzione locale, quelli finora pubblicati di Tiro, sono in marmo, probabilmente di produzione attica. La cassa infatti è decorata su tutti e quattro i lati e il racconto dei miti rappresentati inizia sul lato breve di sinistra. I coperchi sono generalmente a klìne, su cui è distesa la coppia dei defunti, secondo una moda anch'essa attica, anche se non esclusiva di questa regione (v. oltre Commercio). Non mancano però coperchi piani a forma di parallelepipedo, finemente decorati con motivi architettonici e vegetali, o con ghirlande e bucranî, e coperchi a forma di tetto con acroteri angolari. Il ritratto dei defunti è in genere solo abbozzato, rarissimo il caso in cui esso è stato completato. Evidentemente le teste dovevano essere terminate in loco, dopo la morte dell'acquirente. La decorazione della cassa si presenta più o meno accurata a seconda della posizione del s. nella tomba. Talvolta essa è perfetta su tutti e quattro i lati. Tre esemplari presentano scene tratte dal repertorio del mito di Achille: Achille alla corte di Licomede, morte di Patroclo, morte di Ettore, riscatto di Ettore. Questi tre s., che trovano confronti con s. del Museo Capitolino e del Louvre, sono quindi strettamente legati tra di loro e rendono possibile l'ipotesi di cartoni comuni da cui le officine attiche abbiano tratto ispirazione. Ma l'interesse dei tre S. di Tiro consiste anche e soprattutto nella notevole qualità di esecuzione sia compositiva che decorativa. Il s. n. 607 che è uno dei più belli tra gli esemplari pubblicati, è datato dal Chéhab tra la fine dell'età antonina e gli inizî dell'età severiana, per il gusto marcato del movimento, per la moltiplicazione dei piani su cui sono poste le figure, per le forme piene e rilevate. Il S. n. 954, compositivamente e artisticamente perfetto, è opera di un maestro ellenizzante della fine del II sec. d. C., che sa dosare il gioco delle pieghe, il trattamento chiaroscurale dei nudi, l'uso del trapano ai fini di una composizione ricca di azione e di movimento ed in sè fortemente drammatica. Il terzo esemplare, (n. 328), in cattivo stato di conservazione, apparterrebbe già al primo ventennio del III secolo.
Due altri esemplari rinvenuti a Tiro presentano sulla fronte rispettivamente un'amazzonomachia (n. 2772) e una scena indeterminata di battaglia (n. 1279). Gli agganci iconografici delle singole figure e dei singoli gruppi con il repertorio tradizionale delle battaglie sono tali da rendere impossibile in questa sede un'analisi dettagliata. Si vuole solo aggiungere che il primo esemplare, databile per il Chéhab all'età severiana, presenta alcune sproporzioni nel rendimento delle figure, e una mancanza di accuratezza nella definizione dei dettagli. L'altro invece, più o meno contemporaneo, costituisce una splendida esemplificazione della fusione tra la vivacità delle battaglie pergamene e le tradizioni formali ellenistiche.
Due S. presentano inoltre scene tratte dal mito di Ippolito e sono caratterizzati dalla contaminazione di elementi iconografici diversi, tipica per altro di tutti i numerosi monumenti funerarî su cui questo tema è trattato. Di essi il primo (n. 330), che presenta sulla fronte Ippolito con la Nutrice e sul lato posteriore la caccia al cinghiale, è molto vicino, da un punto di vista figurativo, ad un S. dell'Ermitage (Robert, Sarkophagrel., iii, p. 183, tav. xlviii, 154) e soprattutto ad un s. di Agrigento (Robert, op. cit., iii, p. 180, tav. xlvii, 152) ambedue di età antonina; il secondo (n. 447), che presenta sulla fronte i due gruppi contrapposti di Fedra circondata dalle ancelle e di Ippolito con i compagni, trova confronti iconografici stringenti con un sarcofago del museo di Costantinopoli (Robert, op. cit., iii, p. 172, tav. xliv, 144), di età antonina. Il Chéhab data l'esemplare n. 330 all'età severiana per la ricchezza di piani su cui le figure si muovono, e per il forte chiaroscuro che domina la scena; il secondo, invece, è per l'autore il S. più antico rinvenuto a Tiro, databile tra il 150 e il 170 d. C. per il suo rilievo medio, per la leggerezza con cui sono trattate le pieghe delle vesti e i nudi, per la presenza di un piano unico, e per il fondo neutro in cui sono inserite le figure.
Due s. (nn. 907, 1133) presentano inoltre sulla fronte giochi di putti frequentemente attestati sui rilievi dionisiaci. Il primo, accuratamente scolpito su tre lati, presenta tutte le caratteristiche dei S. neoattici. Le figure che si raccolgono intorno ad un cantaro posto al centro della scena, si staccano dal fondo neutro su un unico piano di posa, secondo uno schema attestato dai S. di Palazzo Mattei, di Villa Albani, del Museo del Louvre, che il Turcan ritiene eseguiti tra il 140 e 160 d. C. (Turcan, Sarcophages dionysiaques, p. 164). Nel secondo i putti hanno perduto l'aspetto infantile e sono trattati quasi a tutto tondo. Pesanti ghirlande cariche di frutti, ricche di chiaroscuro, sostenute da maschere leonine, decorano i lati brevi e il lato lungo posteriore, che presenta al centro una maschera di satiro. Il Chéhab data questo esemplare alla fine del II sec. d. C.
L'ultimo S. di Tiro (n. 605) è completamente attico per schemi iconografici e per rendimento formale; sulla fronte, inquadrata tra due pilastri angolari e due colonne mediane, sono scolpite quattro Menadi. Il movimento delle vesti, le posizioni un po' forzate, la ricchezza di chiaroscuro, determinano, secondo lo Chéhab, una datazione alla fine dell'età antonina.
Quello di Tiro è quindi un complesso monumentale non omogeneo cronologicamente e con tutta probabilità appartenente ad officine diverse. I s. pubblicati offrono la misura degli interessi della ricca clientela siriaca sia per quanto riguarda i motivi decorativi, sia per quanto riguarda il loro rendimento formale.
Sono stati pubblicati inoltre, numerosi s. provenienti dalla necropoli di Elaiussa Sebaste, che era già stata localizzata ed in parte scavata (v. vol. iii, p. 285 55., s. v. Elaiussa Sébaste). La maggior parte di questi esemplari presenta una cassa priva di decorazioni e un coperchio a doppio spiovente con acroteri angolari. Altri invece, anch'essi numerosi, hanno i quattro lati decorati con eroti o con festoni retti da bucrani, cioè con il consueto repertorio di origine asiatica. La datazione del materiale non è omogenea, dal momento che la necropoli è stata utilizzata fino all'epoca cristiana. I s. decorati, la cui esecuzione è nel complesso mediocre, sono stati datati dal Machatschek tra la metà del II sec. e gli inizî del III sec. d. C.
Accanto alla pubblicazione di s. recentemente rinvenuti bisogna segnalare la pubblicazione di quelli appartenenti a collezioni pubbliche o private, rimasti comunque inediti.
Un s. dionisiaco dell'Abbazia di Grottaferrata, è stato recentemente pubblicato da L. Guerrini, ed è comparso successivamente nel Corpus dei s. dionisiaci del Matz (n. 239). Esso presenta una scena tratta dal repertorio della lotta di Dioniso contro gli Indi, piuttosto rara sui monumenti funerarî, rispetto alla frequenza del trionfo del dio a conclusione della missione. I pochi esemplari rimasti con la trattazione dello stesso tema sono da porre, secondo il Matz, in età antonina (160-180 d. C.). In seguito il tema verrà abbandonato e non più ripreso dalle officine funerarie. L'esemplare di Grottaferrata, che il Matz data alla fine del regno di Marc'Aurelio, conserverebbe più degli altri rilievi il ricordo iconografico e stilistico dei modelli ellenistici.
Ad un s. con scene tratte dal mito di Medea, acquistato nel 1962 dal museo di Basilea, incluso nella Guida dello Schefold del 1966, M. Schmidt dedica una monografia corredata da ottime fotografie. Sul fregio del coperchio piano, parzialmente conservato, vengono rappresentati Giasone e Medea in Colchide. Sui lati corti compaiono due sfingi. Più complesso è invece il rilievo della fronte, che comprende quattro momenti: doni nuziali a Creusa, morte di Creusa, Medea esitante prima dell'uccisione dei figli, Medea che fugge da Corinto sul carro trainato dai serpenti. Un s. del Museo delle Terme (v. vol. iv, p 955, s. v. Medea) e uno del museo di Mantova (Robert, Op. cit., II, p. 210, tav. lxii, 196) presentano la stessa iconografia, ma sono più antichi dell'èsemplare di Basilea. I legami di questa composIzione con la tradizjone letteraria sono notevoli, nè manca la possibllità di ricostruire un prototipo pittorico tardo-ellenistico, da cui questo gruppo di monumenti dipende. Tra i S. con il mito di Medea (circa 12 interi) che si diffonde a partire dalla metà del II sec., quello di Basilea è tra i più tardi, ma tra i più artisticamente felici. Il tema di per sé fortemente drammatico trova perfetta corrispondenza nello stile del rilievo: capolavoro delle officine urbane, esemplificativo del barocco di età commodiana, è datato dalla Schmidt agli ultimi anni del II sec. d. C.
Un s. con la strage dei Niobidi, acquistato nel 1921 dal museo di Providence, proveniente con sicurezza da Roma, è stato contemporaneamente pubblicato dal Sichtermann e dalla Renger. Sul fregio del coperchio piano sono rappresentati gli dèi che assistono alla scena della punizione dei figli di Niobe. Sulla fronte, conservata per due terzi, è invece rappresentata nel suo momento culminante, l'uccisione dei Niobidi, secondo uno schema iconografico comune ai S. del Laterano (Robert, op. cit., iii, 3, p. 381, tav. c, 315), di Wilton House (Robert, op. cit., iii, 3, p. 383, tav ci-cii, 317) e soprattutto di Venezia (Robert, op. cit., iii, 3, p. 383, tav. c, 316) che è identico ad eccezione di varianti di piccola entità al rilievo di Providence. Questo gruppo è caratterizzato dalla presenza dei cavalli su cui i giovinetti tentano di sfuggire alle frecce di Apollo e di Artemide (v. vol. v, p. 525, s. v. Niobidi) e segue da vicino il racconto di Ovidio (Met., vi, 145-310). La composizione su tutti questi esemplari si articola attraverso gruppi di due o tre personaggi, di cui Sichtermann cerca di seguire la tradizione iconografica, particolarmente complessa, data la diffusione di questo mito fin dall'età arcaica. Sicura è però l'esistenza di un prototipo comune, di età tardo-ellenistica, probabilmente pittorico. La differenza tra i quattro rilievi non consiste tanto nell'iconografia, sulla cui base si possono individuare due varianti dell'originale che vengono riprese l'una dai S. del Laterano e di Wilton House e l'altra da quelli di Venezia e di Providence, quanto nel rendimento dello spazio. Sulla base dell'analisi compositiva ed iconografica, il Sichtermann e la Renger giungono alla conclusione che l'esemplare di Providence, poichè presuppone l'esperienza degli altri tre s., è ad essi successivo (è datato al 180 d. C. dalla Renger, al 190 d. C. dal Sichtermann). Questa datazione è per altro confermata dall'analisi stilistica. La scena che è resa concitata e drammatica dall'uso di forti contrasti chiaroscurali, dal trattamento a tutto tondo di alcuni particolari dei personaggi in primo piano e dalla forte torsione delle figure che ermergono o si immergono nel fondo, risponde al gusto del periodo tardo-antonino, delle cui maestranze costituisce una delle opere più siguificative.
Monumenti considerati. - Ipogeo di Deb'aal:J. Hajjar, Un hipogée romain à Deb'aal dans la region de Tyr, in Bulletin du Musée de Beyrouth, 18, 1965, p. 61 ss. S. di Tiro: M. H. Chéhab, Sarcophages à relief de Tyr, ibid., 21, 1968, p. 1 ss. S. di Elaiussa Sebaste: A. Machatschek, Die Nekropoien und Grabmàier im Gebiet von Elaiussa Sebaste und Korykos in Rauhen Kilikien, Vienna 1967. S. di Medea del museo di Basilea: Der Basler Medeasarkophag. Ein Meisterwerk spätantoninischer Kunst, Tubinga 1968. S. di Grottaferrata: L. Guerrini, Un sarcofago dionisiaco del Museo di Grottaferrata, in Studi Miscellanei, 12, 1967, p. 3 ss. S. dei Niobidi: H. Sichtermann, Der Niobiden - Sarkophag in Providence, in Jahrbuch, 63, 1968, p. 180 ss.; M. O. Renger, The Providence Niobid Sarcophagus, in Am. Journ. Arch., 73, 1969, p. 179 ss.
Sarcofagi greci. - Non ci sono state novità di rilievo negli studî di questi ultimi anni sui s. greci, né ritrovamenti di particolare interesse. Si vuol segnalare soltanto la pubblicazione, da parte di F. G. Lo Porto, dei s. di atleti tarantini, databili in base al corredo funebre al VI-IV sec. a. C. Lo scavo di questi monumenti risale spesso a molti anni or sono. Solo alcuni di essi, che nulla aggiungono alle caratteristiche già note della serie, sono di recente rinvenimento.
Pur trattandosi di materiali nella maggior parte dei casi già noti, l'interesse della pubblicazione consiste nella completezza della raccolta e nella relazione tra il corredo funebre in generale e i s. di tipo greco con casse in carparo, quasi sempre prive di decorazione e con coperchio a doppio spiovente e acroterî angolari, di cui l'esemplare più famoso, caratterizzato da una elegante decorazione pittorica, è il s. della tomba C databile al 480 a. C. (v. vol. vii, p. 6o8, s. v. Taranto). Bisogna inoltre segnalare la pubblicazione da parte di P. Demargne del cosiddetto s. delle Danzatrici di Xanthos, di cui l'autore aveva dato già notizia (v. vol. vii, p. 1230, s. v. Xanthos) e due nuove edizione del sarcofago di Alessandro, una curata da K. Schefold, e l'altra da V. v. Gräve (Istanbuler Forsch., 28, Berlino 1970).
Sarcofagi di età romana. - Dei due momenti che caratterizzano le ricerche e gli studî più recenti sui S. di età romana, l'uno più strettamente filologico si interessa al lavoro di raccolta sistematica dei materiali, l'altro, sulla base di una documentazione ormai acquisita, cerca di impostare un discorso critico-esegetico più ampio. Alla prima esigenza risponde la pubblicazione del Corpus dei s. con Muse di M. Wegner, e il Corpus dei s. dionisiaci di F. Matz; alla seconda il saggio di R. Turcan sui s. di carattere dionisiaco. Poiché quest'ultimo lavoro è stato pubblicato prima del Corpus del Matz e poiché è anch'esso una sorta di silloge di s. dionisiaci limitatamente alla città di Roma, occupa un posto del tutto particolare tra le pubblicazioni di carattere critico-esegetico, di cui si darà in seguito una breve rassegna.
Il Corpus del Wegner è costituito da 237 s., con la rappresentazione delle nove Muse accompagnate frequentemente da Apollo e da Atena. L'autore ha incluso nella raccolta anche i rilievi con la mitica gara delle Muse con le Sirene, e rilievi in cui esse assistono, accanto ad Apollo, alla punizione di Marsia. Un settore della raccolta è dedicato ai s. in cui il rapporto con le Muse è più indiretto, essendosi esse trasformate in generiche figure femminili, ed i defunti in figure altrettanto generiche di sapienti. L'esemplare più significativo di questo gruppo è il s. cosiddetto di Plotino del Museo Lateranense n. 116. Si assiste infatti, a partire dalla metà circa del III sec. d. C. alla diffusione dell'iconografia del saggio, all'identificazione cioè del definito con la Musa che della Sapienza è il simbolo. Oltre al valore intrinseco dei singoli monumenti, l'importanza di questi s. nella loro totalità consiste nella connessione delle Muse con i valori culturali. Questo spiega da una parte la continuità della loro presenza nella tradizione antica, dall'altra il successo dei s. con Muse che coincide in età romana con il diffondersi del neoplatonismo, della filosofia cioè che ripropone la necessità del culto della Bellezza e della Verità al fine di rendere la vita terrena ed ultraterrena felice. La cultura si presenta quindi come la soluzione pagana ed aristocratica dei problemi escatologici ed esistenziali, di fronte al diffondersi del Cristianesimo, che non rifiuterà di appropriarsi anche dell'iconografia del saggio (Cristo docente, Apostoli) che era stata in origine creata come risposta alternativa alla nuova religione (v. vol. vi, p. 979, s. v. Romana, Arte).
Al Catalogo ordinato secondo un criterio topografico-alfabetico, il Wegner fa seguire una serie di ricerche sia di carattere filologico, quali la definizione dei nomi, degli attributi e delle funzioni delle Muse in età romana, sia di carattere iconografico al fine di stabilire da una parte gli schemi più attestati nella decorazione funeraria, dall'altra i prototipi greco-ellenistici dai quali le maestranze tardo-romane trassero ispirazione. Conclude il lavoro uno studio di carattere storico-artistico, in cui si propone un'organica successione cronologica dei s. esaminati, sia attraverso il confronto di questi ultimi con i monumenti ufficiali ben datati, sia, qualora manchi materiale di confronto, ricavando la datazione dall'analisi stilistica dei rilievi.
L'opera del Wegner ed alcuni contributi sullo stesso tema successivi alla pubblicazione del Corpus, se non esauriscono la problematica insita in ogni classe di s., hanno impostato o risolto numerosi problemi, soprattutto sul piano filologico ed iconografico. Sono oramai sicuri, ad esempio, sulla base delle fonti letterarie e delle tradizioni iconografiche, la denominazione, gli attributi, le sfere di competenza di ogni Musa in età imperiale, di contro agli errori della precedente tradizione esegetica. Se il Wegner in un articolo precedente (v. vol. v, p. 293, s. v. Muse) era giunto alla conclusione che neppure per l'epoca tardoimperiale era possibile conoscere il nome esatto di ogni Musa, respingendo la convenzione di adottare le denominazioni delle cosiddette Muse di Ercolano, di Pompei, che dopo lo studio del Bie erano entrate nella nomenclatura archeologica, oggi è possibile affermare che sui s. la Musa con lyra è Tersicore (poesia conviviale), quella con cetra è Erato (poesia cerimoniale), quella con dittico è Clio (storia), quella con rotolo è Calliope (poesia epica). D'altro canto queste quattro Muse, che ricevono più tardi delle altre la definizione delle funzioni, hanno sui rilievi anche una scarsa stabilità di schemi figurativi, e presentano un'abbondanza di contaminazioni di prototipi diversi. È certo però che il processo di canonizzazione dei tipi iconografici e delle funzioni, da cui dipendono gli attributi, può dirsi esaurito nel corso del III sec. d. C. Si sono inoltre individuati per ogni Musa almeno due o più schemi iconografici che le officine funerarie adoperano nella definizione dei cartoni e si sono precisati i modelli tardoellenistici da cui alcuni tipi presenti sui monumenti funerari derivano nonostante le contaminazioni di schemi diversi e le deformazioni avvenute nel corso dei secoli. La cosiddetta Polimnia dei Conservatori (v. vol. v, p. 291, fig. 402, s. v. Muse) e la cosiddetta Musa di Venezia (L. Alscher, Griechische Plastik, iv, Hellenismus, Berlino 1957, p. 117 ss., fig. 50), sarebbero i primi due prototipi statuarî di origine microasiatica, databili al 160-150 a. C. (D. Pinkwart, Das Relief des Archelaos von Priene, Kallmunz 1965) riconoscibili sui monumenti funerarî: la prima è presente su quasi tutti i s., come Polimnia, anche se enormemente deformata a causa della difficoltà di rappresentare frontalmente una statua creata per una visione di profilo; la seconda è attestata soprattutto, ma non unicamente, sui s. asiatici, come Tersicore o come Erato.
Il tipo di Erato più frequente sui monumenti funerarî, nascerebbe dallo sdoppiamento di un tipo di Apollo, noto attraverso molte repliche statuarie di cui la più antica è quella di Delo (F. Mayence-G. Leroux, in Bull. Corr. Hell., 31, 1907, p. 390 ss., tav. 16, figg. 1-2) che si presenta come ripresa classicistica di un tipo di citaredo con chitone e manto sulle spalle, in posizione di riposo, del IV sec. a. C., operata da un artista tra il 150-130 a. C.
Calliope resta costantemente legata al tipo della cosiddetta Piccola Ercolanese (R. Kabus Jahn, Studien zu Frauenfiguren des vierten Jahrhunderts vor Christus, Darmstadt 1963, p. 93 ss.) le cui origini prassiteliche difficilmente vengono snaturate fino agli esemplari più tardi. La Musa di Pergamo (R. Horn, Stelende weibliche Gewandstatuen in der hellenistischen Plastik, Monaco 1931, p. 76) determinerebbe invece la rappresentazione di un altro tipo di Tersicore sui sarcofagi.
Si è dimostrata infine la caratteristica dei s. asiatici di seguire più fedelmente i modelli e di non alterare la loro sostanza classica e naturalistica, laddove nell'ambiente romano si determina dal III sec. d. C. in poi un processo alogico ed espressionistico che comporta, ad esempio, lo spostamento degli attributi dall'altezza della vita all'altezza del capo, al fine di dare ad essi un valore simbolico, quindi antinaturalistico.
Molto più complessa si presenta invece l'analisi della pubblicazione sui s. dionisiaci, data la quantità degli esemplari conservati, determinata dal successo della misteriosofia bacchica in età imperiale. Rispetto infatti alle scarse rappresentazioni dei misteri eleusini o isiaci, la diffusione dei miti dionisiaci nella decorazione funeraria, può essere paragonata solo a quella dei s. cristiani. Di notevole entità è inoltre la molteplicità di aspetti in cui si era cristallizzata la iconografia di Dioniso, che è l'unica divinità di cui si raccontano le imprese fin dalla nascita. Si comprende perciò da una parte la lunga elaborazione del iv volume del Corpus, a cui già il Robert aveva cominciato a lavorare, e a cui il Matz ha dedicato circa 20 anni di ricerche, senza che ancora sia stata pubblicata la quarta ed ultima parte, dall'altra la ricchezza e l'esuberanza del saggio del Turcan.
Il Matz nella sua prefazione al Corpus dei s. dionisiaci, sottolinea più volte gli agganci metodologici che nel suo lavoro ha voluto stabilire con la tradizione di studi sull'arte funeraria, segnata dall'opera di Robert e del Rodenwaldt, volta alla interpretazione delle rappresentazioni e al chiarimento delle loro tradizioni. La prima parte del Corpus è dedicata al catalogo dei tipi di thiasos che compaiono sui monumenti funerarî. Si tratta di 121 schemi iconografici che comprendono figure isolate di Menadi, di Satiri e di Pan, o gruppi di due o più personaggi. Per ogni tipo l'autore fa la storia della tradizione che, se non prescinde dalle fonti letterarie ed epigrafiche, per altro scarse a causa del carattere misterico del dionisismo, si basa soprattutto sulle testimonianze figurative. Particolarmente ricco di confronti iconografici è lo schema tipologico di Dioniso (Th. 116) e quello del carro dei centauri (Th. 119). Anche se in ambedue i casi i prototipi risalgono al tardo periodo classico, è nell'età tardo-ellenistica che vanno individuati i monumenti che furono alla base delle creazioni imperiali. Nel Catalogo vero e proprio, da cui sono esclusi i s. con eroti bacchici (ad eccezione di quelli su cui compare Dioniso) affidati dal Robert al Corpus dei s. con Stagioni, l'autore segue un criterio tipologico e non topografico. Quest'ultimo, infatti, avrebbe compromesso, a causa della quantità degli esemplari (384) la chiarezza dell'esposizione, ed avrebbe impedito i confronti iconografici e stilistici che sono possibili solo all'interno dei singoli gruppi e delle singole classi. La trattazione del gruppo dei s. attici è premessa all'analisi di tutte le altre classi, dal momento che essi hanno influenzato direttamente ed in modo determinante, secondo il Matz, i monumenti funerarî romani, soprattutto agli inizî della produzione. Presentano inoltre un notevole interesse dal punto di vista iconografico e stilistico, dal momento che sono caratterizzati dall'adozione diretta di schemi legati al repertorio delle officine neoattiche del I sec. d. C. (Th. 1-20). La serie più antica (serie A) mescola indiscriminatamente cicli diversi, secondo il gusto eclettico tipico del neoatticismo. Questa tendenza alla contaminazione, evidente sui s., aveva avuto i suoi precedenti immediati non tanto nella scultura quanto nei modelli compositivi della ceramica aretina. La novità di questi S. non consiste quindi nel repertorio iconografico, ma nel risultato delle diverse combinazioni, cioè nella rappresentazione nel suo complesso. Si tratta fondamentalmente di rilievi con eroti, con ghirlande o con scene di sacrificio, in cui non compare mai Dioniso. Questo stesso tipo di decorazione caratterizza i primi s. dionisiaci di Roma, databili con sicurezza all'età adrianea (n. 26). La loro diffusione e la loro realizzazione può essere stata determinata, secondo il Matz, anche dal trasferimento nella capitale di maestranze artiche, la cui presenza in Roma è d'altro canto dimostrata dal fregio con eroti del tempio di Venus Genetrix, di età traianea. I primi esemplari attici sono legati inoltre alla comparsa della dottrina dionisiaca con valore funerario in età imperiale. La presenza di Dioniso nel culto dei morti si era manifestata in Grecia e nel mondo orientale fin dall'età classica, ma è solo in età romana che essa diventa un fenomeno sociale di notevole portata, il cui significato sul piano religioso non ha paragoni nelle età precedenti. Le cause di questo successo possono essere in parte spiegate, secondo il Matz, con la nuova struttura sociale creata sotto il principato di Traiano, con il classicismo del tempo, con le possibilità offerte da una nuova situazione storica alla religione per soddisfare le tendenze alla trascendenza tipiche di quest'epoca.
Per quanto riguarda i s. romani, il Matz, distingue in primo luogo due gruppi, costituiti l'uno dai rilievi con ghirlande che sono direttamente derivati dai monumenti attici (tipica è la frequente assenza del dio) e l'altro dai s. a vasca con protomi leonine angolari. La rimanente documentazione è divisa, a seconda dei temi attestati sui rilievi, in s. con la rappresentazione del culto e delle feste dionisiache e s. con scene tratte dal repertorio del mito: nascita ed infanzia di Dioniso, Dioniso ed Arianna, Penteo, Licurgo, battaglia e trionfo sugli Indi. Il Catalogo dei s. appartenenti ad ogni classe e ad ogni gruppo è preceduto da una premessa in cui vengono chiariti i problemi iconografici, compositivi, stilistici, cronologici che interessano i rilievi presi in esame. Un posto particolare, per quanto riguarda i s. romani, occupa il problema della diffusione del mito di Arianna. Il Matz sostiene, dopo un'attenta analisi delle fonti letterarie e di tutti i monumenti di età romana che presentano le scene del ritrovamento della donna addormentata da parte di Dioniso, che l'iconografia di Arianna, peraltro comune ai s. di Endimione e Marte e Rhea Silvia, non può essere pensata se non in relazione con il tardo ellenismo, nè può essere analizzata isolatamente, ma in connessione con lo schema figurativo di Dioniso. È necessario quindi presupporre un modello unico, ben localizzabile nel tempo su cui doveva essere rappresentata la scena nella sua integrità.
Accanto alla completezza della raccolta, alla facilità di consultazione, alla soluzione di numerosi problemi iconografici, fisiologici, cronologici, all'abbondanza di materiale fotografico, si vuole sottolineare la coerenza metodologica con cui il Matz ha affrontato questa ricerca. Egli ha isolato, in primo luogo, gli schemi iconografici dei personaggi singoli e dei gruppi di più figure attestati sui rilievi dionisiaci, non trascurando tutte le possibili varianti. Ha ricostruito per ogni tipo, quando ciò era possibile, i modelli tardo-ellenistici e soprattutto neoattici da cui le officine funerarie di età romana trassero ispirazione. Ha individuato sui S. sia le possibilità di combinazione degli schemi, sia le alterazioni e contaminazioni a cui essi furono sottoposti. Questo metodo di lavoro, accanto al valore intrinseco dato dalla completezza del repertorio tipologico e dalla storia della sua tradizione, permette di stabilire per ogni gruppo di s. alcune costanti iconografiche che, ripetendosi identiche su due o più esemplari, caratterizzano il modo di comporre di alcune officine, delle quali il Matz identifica gli interessi figurativi e le costanti stilistiche. Ogni innovazione iconografica, come lo spostamento e l'inversione di una figura, il ribaltamento speculare di un gruppo, nel momento in cui crea nuove possibilità di soluzioni quali l'inserzione di nuovi personaggi e la eliminazione di altri, determina anche la frattura rispetto alla precedente tradizione che si concretizza sul piano cronologico nella possibilità di stabilire una successione nel tempo dei rilievi appartenenti ad una classe. Partendo infatti, sempre nell'ambito dello stesso gruppo, da s. la cui datazione è sicura, gli altri monumenti possono essere talvolta collocati gli uni accanto agli altri, secondo un criterio che si basa sui risultati della ricerca iconografica, ma trova conferma nell'analisi stilistica. Lo scetticismo manifestato dall'autore sulle possibilità di datare i s., viene in parte superato proprio per mezzo dell'analisi interna delle figurazioni.
Completamente diversi sono i fini che il Turcan nel suo saggio sui s. dionisiaci si è proposto di raggiungere. L'autore rifiuta programmaticamente la sistematicità del lavoro di raccolta filologica, non accetta l'archeologia descrittiva che giudica limitata, anche se necessaria. Di fronte a ricerche che tentano di ricostruire la tradizione iconografica al fine di intendere il senso e la forma dei prototipi, il Turcan reagisce interessandosi solo ed unicamente ai monumenti funerarî nel loro contenuto reale e storico. Se nella prefazione del Corpus dei s. dionisiaci il Matz si richiamava all'opera del Robert e del Rodenwaldt ed avvertiva il lettore di non cercare nel suo lavoro nessuna "bella" digressione sulla religione bacchica, il Turcan invece trova i suoi agganci metodologici nell'opera del Cumont, dello Hanfmann, nel filone dell'antiquaria, tipico della cultura francese.
Il saggio si articola in tre capitoli. Nel primo l'autore cerca di porre i fondamenti della cronologia dei monumenti dionisiaci presi in esame, sia secondo criteri estrinseci dati dal contesto archeologico, che però nel caso particolare dei S. offre poche possibilità di datazione, sia secondo criteri intrinseci (grandezza e formato della cassa e del coperchio, iscrizioni, ritratti, ecc.). Nel II capitolo il Turcan studia lo stile dei rilievi ed esamina la distribuzione nell'ambiente urbano delle officine funerarie: qualora uno stesso motivo iconografico e stilistico si ripeta identico su uno o più esemplari è possibile per l'autore proporre un raggruppamento. Il III capitolo è dedicato sia allo studio dei temi e delle variazioni del mito (infanzia di Bacco, metamorfosi del corteo, ciclo di Arianna), sia all'analisi di alcuni momenti della misteriosofia bacchica in Roma. Accanto alla varietà e alla molteplicità di spunti che l'opera del Turcan offre, si possono individuare alcuni momenti che interessano direttamente la comprensione dei s. dionisiaci. L'autore tenta ad esempio, in maniera talvolta persuasiva, uno studio del formato delle casse al fine sia di stabilire, attraverso le variazioni di dimensioni, una loro evoluzione cronologica, sia di distinguere officine e maestranze. Agli inizî della produzione funeraria i rilievi si presenterebbero bassi ed allungati; la loro altezza aumenterebbe nel corso dell'età antonina fino all'età severiana: questo cambiamento di dimensioni risponderebbe soprattutto alla volontà di disporre i personaggi su più piani. Più tardi infine, pur rimanendo invariata la grandezza della cassa, lo sfondo verrebbe eliminato e le figure occuperebbero in altezza tutto il rilievo. Di notevole interesse è inoltre la documentazione dei modi di diffusione e di sviluppo a Roma del repertorio dionisiaco, che inizia con il tema della ghirlanda, di sicura origine microasiatica, ma rapidamente romanizzatosi. La comparsa dei S. bacchici coincide, secondo l'autore, con l'accoglienza ufficiale da parte di Traiano e di Adriano del dionisismo, seguita alla diffidenza che gli imperatori giulioclaudi avevano manifestato per questo culto: da Traiano in poi queste rappresentazioni entrano anche nel repertorio dell'arte ufficiale. Il momento creativo sul piano iconografico è per il Turcan proprio quello iniziale, in cui si reinventano aspetti marginali del mito, contaminandoli con altre rappresentazioni appartenenti a tradizioni figurative del tutto diverse. Ciò che conta sono le cause in base alle quali si manifesta questa intensa capacità creativa. Si prenda ad esempio il tema di Arianna scoperta da Dioniso che compare sui s. a partire dal 160-70 d. C. Per il Turcan non è la sostanza idillico-elegiaca, che aveva determinato il successo di questa rappresentazione su numerosi monumenti privati di età romana, quella che determina l'assunzione di questo aspetto del mito sui s., ma il valore escatologico ed esoterico che essa aveva assunto agli occhi della ristretta élite degli iniziati. Questa individualità creativa che il Turcan nota su ogni rilievo del secondo e del terzo venticinquennio del II sec. d. C., termina con gli ultimi anni del II sec., quando cioè il s. cessa di essere un privilegio aristocratico e diviene un fatto popolare. Il repertorio nell'età di Marco Aurelio e dei Severi trova la sua espressione nel barocco dei cortei dionisiaci, mentre dalla metà del III sec. si affermano una serie di scene realistiche ispirate alla vita popolare: amorini vendemmiatori, temi campestri, ecc.
Per essere com'è nelle intenzioni dell'autore un'opera di sintesi su un certo tipo di produzione funeraria l'opera del Turcan, anche se in sè conchiusa, trova un suo completamento nel corpus del Matz, che l'autore non conosceva.
Si vuol segnalare infine la pubblicazione di alcuni saggi ed articoli che interessano per la comprensione di alcuni momenti dell'arte funeraria di età imperiale. Essi pongono in evidenza l'urgenza di una revisione critica di un materiale per sua natura estremamente complesso, il cui studio e la cui conoscenza implica l'esaurimento di una problematica che è interna ed esterna al documento stesso.
Sono apparsi in primo luogo alcuni saggi su monumenti funerari molto noti, come ad esempio sul sarcofago di Acilia nel Museo Naz. Romano (v. vol. vi, p. 978, fig. 1074, s. v. Romana, Arte), a cui l'Andreae ha dedicato un recente studio. L'interpretazione della rappresentazione e la datazione di questo esemplare sono state oggetto di numerose discussioni, né ancora si è raggiunto un accordo sul significato della scena e sulla cronologia che oscilla tra gli anni 240 e gli anni 270 d. C., pur essendo il S. di Acilia un capolavoro dell'arte tardo-romana ed un caposaldo per la ricostruzione della cultura artistica di un determinato periodo storico. L'Andreae sostiene in primo luogo che il Genio del Senato, identificabile nel personaggio barbato con una benda tra i capelli, non si rivolge con il gesto della mano sinistra al personaggio con testa ritratto infantile che è alla sua sinistra, ma al defunto stesso, invitandolo ad avanzare. Lo Andreae ha ripreso infatti uno studio dell'Himmelmann-Wildschùtz che ha interpretato la scena di un S. del Museo Torlonia n. 395 e di un S. del museo di Napoli come la rappresentazione della processione che accompagnava il console in Senato il giorno in cui assumeva la carica, attestata per altro anche dalle fonti letterarie (N. Himmelmann-Wildschütz, in Festschrift für F. Matz, Magonza 1962, p. 110 ss.). Su questi due esemplari compare alla sinistra del defunto un personaggio, probabilmente un cavaliere, che è caratterizzato dalla stessa posizione e dallo stesso gesto del Genio del Senato sul s. di Acilia. Quest'ultimo quindi non documenterebbe una designatio principis della figura con testa ritratto infantile, come finora si era supposto, ma rientrerebbe, insieme ai due esemplari citati, nella classe dei s. consolari, la cui tipologia deriverebbe direttamente dai rilievi pubblici ufficiali. Invalidata l'antica interpretazione, che già altri studiosi avevano respinto, non è più necessario riconoscere sulla base delle iconografie ufficiali l'imperatore per i cui genitori il s. era stato eseguito. Perderebbero valore quindi anche le datazioni fondate esclusivamente sulla identificazione del ritratto imperiale (Gordiano III, Ostiliano, Nigriniano). Il fanciullo in questione potrebbe essere, secondo l'autore, il figlio, morto prematuramente, dei defunti rappresentati al centro della composizione secondo lo schema della dextrarum iunctio (cfr. S. Torlonia). L'Andreae propone inoltre una datazione del s. al 270 d. C. in base a considerazioni di ordine iconografico oltre che stilistico. Il S. di Acilia, in cui le funzioni private e pubbliche del defunto sono riunite in una scena unica, presupporrebbe un superamento dello schema del S. di Napoli in cui le due funzioni vengono rappresentate mediante la giustapposizione di 4 scene. Essendo il S. di Napoli del 260 d. C. circa, il s. di Acilia dovrebbe essere posteriore ad esso di qualche anno. Se nel saggio dell'Andreae appare convincente l'interpretazione della scena come processus consularis, la datazione proposta deve essere riesaminata, dal momento che la cronologia avanzata dal Bianchi Bandinelli (238 d. C.) non era giustificata soltanto dall'identificazione della testa-ritratto con Gordiano III, ma anche e soprattutto da un esame storico-artistico molto più convincente dei contributi dell'Andreae.
Per rimanere nello stesso tema si vuole segnalare uno studio dello Strocka sul s. consolare di Napoli già citato. L'autore concorda con l'Andreae per quanto riguarda la presenza della processione consolare sia sul rilievo di Acilia, sia su quello di Napoli, datato agli anni della rinascenza gallienica (260 d. C.).
Per quanto riguarda altri studi sui s. molti noti, bisogna segnalare che lo Jucker ha riconosciuto in un ritratto frammentario del museo di Cleveland la testa perduta dal personaggio centrale del S. di Balbino nel Museo delle Catacombe di Pretestato (M. Gütschow, Das Museum der Prätextat - Katacombe, in Mem. Pont. Acc., 4, 2, 1938, p. 29 ss.), e che l'Uggeri ha identificato la figura del defunto sulla fronte del s. dell'Annona nel Museo Naz. Romano (v. vol. vi, p. 983, fig. 1079, s. v. Romana, Arte) con Flavio Arabiano, prefetto dell'Annona nell'anno della riforma annonaria aureliana (274 d. C.), in base al rapporto tra l'iconografia del rilievo ed un passo della Vita Aureliani. Ne deriverebbe una ulteriore conferma della datazione del s. al 275 d. C. circa.
Sono stati pubblicati inoltre una serie di saggi di carattere strettamente, ma non unicamente, iconografico su alcune rappresentazioni attestate sui s. e sul loro significato simbolico. La monografia del Sichtermann sui s. con il mito di Endimione desta interesse non soltanto sul piano della documentazione che nel caso specifico era ferma al Corpus del Robert, ma anche perchè offre un contributo per la comprensione della perdita del significato del mito stesso nella produzione funeraria tardoimperiale. Sulla base infatti di tre s. del III e IV sec. d. C., sui quali dell'iconografia del mito di Endimione rimane soltanto una generica figura maschile sdraiata, il Sichtermann dimostra la graduale deformazione dei prototipi cui corrisponde il dissolvimento del significato originario della scena, senza per altro che esso sia sostituito da un nuovo simbolismo. Accanto a questo lavoro, in cui è evidente la polemica contro il Cumont, lo Schefold e il L'Orange, si possono porre un articolo dello Schauenburg sulla lupa come motivo sepolcrale e un articolo del Brandenburg sul simbolismo dei rilievi funerarî con divinità marine. Quest'ultimo è ricco di spunti non soltanto per quanto riguarda la classe presa in esame, ma anche per la interpretazione di numerose altre rappresentazioni funerarie. L'autore prende posizione contro la vecchia esegesi che aveva interpretato i cortei marini sui s. come simbolo del viaggio del defunto verso l'Isola dei Beati e quindi di eroizzazione e di apoteosi. L'analisi delle fonti letterarie classiche e di età romana, a cui già il Rumpf aveva fatto riferimento, conferma la difficoltà di accettare questa interpretazione. I rilievi funerarî su cui questo motivo è presente e la contemporanea diffusione dello stesso tema nell'arte privata, attestano il successo di un genere legato a tradizioni iconografiche classiche ed ellenistiche, che si imponeva per la sua forza decorativa. La sua assunzione nel simbolismo funerario potrebbe per l'autore essere stata determinata sia dal desiderio di un ornamento gradevole, sia dall'aver voluto suggerire, attraverso la scena, la gioia della morte in quanto fine di ogni sofferenza. L'autore aggiunge che frequentemente le figurazioni funerarie (per esempio quelle mitiche) non possono essere interpretate come simboli dell'Oltretomba o dell'apoteosi del morto, ma possono essere giustificate dal desiderio dei parenti di onorare e lodare i defunti per mezzo della loro identificazione con gli eroi del mito; il che comporta anche l'augurio di una sopravvivenza come eroi dopo la morte.
Si vuole concludere questa rassegna con un articolo dell'Andreae sul rapporto tra imitazione ed originalità nei monumenti funerarî romani. L'autore coglie nel famoso s. di Battaglia del Museo Naz. Romano (v. vol. vi, p. 975, fig. 1071, s. v. Romana, Arte) in cui il prototipo ellenistico (con tutta probabilità una pittura pergamena) si risolve nel rilievo romano con la lotta tra Romani e barbari, il momento in cui l'arte funeraria si libera dai suoi legami di dipendenza dal mondo classico e crea sulla base di una visione ideologica originale un suo linguaggio. Le officine funerarie dopo aver tratto i modelli decorativi, agli inizî della produzione, dalle are sepolcrali, poi dai S. tardoclassici ed ellenistici, ed infine dai cicli pittorici, creano opera d'arte capace di essere espressione di una fase stilistica e storica nel momento in cui riescono ad impadronirsi dei prototipi e a "svilupparli" dall'interno, come accade nel s. della Battaglia tra Romani e barbari citato e nel s. Ludovisi del Museo Naz. Romano (v. vol. v, p. 797, fig. 961, s. v. Ostiliano). Non priva di interesse è inoltre la ricostruzione del modo di lavorare delle botteghe romane che si sarebbero servite di una quadrettatura tracciata con l'aiuto di una corda sulla superficie da decorare. L'autore semplifica questa teoria seguendo le linee direttrici su cui si muovono i personaggi dei due rilievi con battaglia citati. Esse costituiscono l'ossatura della composizione e costringono lo spettatore a concentrare la sua attenzione sulla cuspide centrale in cui è inserito il generale o l'imperatore. L'Andreae infine ritiene, contro l'opinione del Rodenwaldt comunemente accettata, che il sarcofago Mattei II è anteriore al sarcofago Mattei I. (G. Rodenwaldt, in Jahrbuch, 51, 1936, p. 82 ss.) che, posto tradizionalmente al 220 d. C., non potrebbe essere datato, come aveva già sostenuto il Roeschke, a prima della fine dell'età gallienica. Nel Mattei I infatti la forma simbolica della composizione è, per l'autore, molto più accentuata rispetto al realismo e ad un residuo di rapporti spaziali delle figure presenti nel rilievo Mattei II, la cui datazione è fissata, sulla base del ritratto, alla metà del III secolo.
Tutte queste recenti pubblicazioni sottolineano le oggettive difficoltà in cui si muove oggi lo studio dell'arte funeraria. Pur essendo infatti oramai chiara l'assimilazione di determinate iconografie dal patrimonio artistico greco o ellenistico, la ricerca dei prototipi è priva di risultati concreti, sia per la perdita quasi totale della statuaria e della pittura greca, sia per la tendenza alla contaminazione e all'eclettismo stilistico e figurativo che contraddistingue l'arte romana. Si conoscono, quindi, di una elaborazione formale durata per secoli, solo i termini estremi che nel caso dei monumenti sepolcrali sono anche carichi di significati sconosciuti agli originali. Il tentativo operato dalle officine funerarie di rendere attuali, sul piano del contenuto, iconografie di cui probabilmente le stesse maestranze ignoravano le origini, si risolve in un fatto formale e sostanziale ad un tempo e costituisce uno dei motivi di interesse dell'arte funeraria in quanto partecipe degli stessi problemi dell'arte romana. Sembra quindi sterile la polemica tra coloro che negano l'originalità dell'arte funeraria romana, magari proprio sul piano dei significati e coloro che sostengono la sua creatività, fermandosi molto spesso al significato simbolico e religioso. Se il richiamo ad esaminare i monumenti senza oltrepassarne i limiti è una reazione di stampo positivistico ad una sorta di romanticismo esoterico che contraddistingue una certa tradizione di studi sui s., è anche vero che non ci si deve precludere, proprio per rimanere nella problematica di questa documentazione, la comprensione delle esigenze storiche, artistiche, religiose, economiche che sono alla base della creazione dei monumenti funerarî. È innegabile che sui s. si passi dalla libertà spaziale e figurativa dei rilievi più antichi ad una ripetizione sempre più mediocre degli stessi temi, che non dipende soltanto e semplicisticamente dallo scadimento tecnico delle maestranze, incapaci di ricopiare i modelli classici da cui quella libertà spaziale e decorativa spesso dipendeva, ma da fattori molto più complessi. Da una parte una situazione storica estremamente tormentata determinava l'accentuarsi di tendenze esoteriche e mistiche che sul piano figurativo si risolvevano in un accentuazione del simbolismo ed in uno scadimento di interesse nei riguardi della rappresentazione in se stessa. Dall'altra l'aumento della produzione derivato da una maggiore richiesta faceva sì che il S. non fosse più un privilegio aristocratico: i committenti ricchi e colti dovevano aver condizionato, nel momento iniziale della diffusione dell'inumazione, sia le scelte iconografiche, sia il loro rendimento formale. La produzione in serie, invece, volta a soddisfare un mercato vasto ed eterogeneo, rendeva necessario un tipo di rappresentazione medio, adatto ad ogni committente, limitando l'inventività a varianti di sempre più lieve portata. Questa semplificazione, se da una parte determinava un'accentuazione del valore simbolico delle immagini, dall'altra, sulla base di un bisogno di individualismo che si verifica proprio in quest'epoca, faceva sì che il ritratto del defunto costituisse il momento creativo del rilievo.
Si è manifestata infine in questi ultimi anni una certa sfiducia nelle cronologie ufficiali. Si nega, più o meno esplicitamente, la validità di un confronto stilistico con la contemporanea arte ufficiale, data la natura e il carattere particolare della decorazione funeraria. Ci si è accorti poi della scarsa attendibilità del ritratto del defunto o delle acconciature femminili come mezzo di datazione, dal momento che questi elementi cronologici sono basati anch'essi sul confronto con l'iconografia ufficiale. Questo pessimismo nell'uno e nell'altro caso sembra eccessivo: le datazioni dei pochi monumenti contestati non supera quasi mai uno o due decenni. D'altro canto gli echi della produzione ufficiale non possono mancare su monumenti che interpretano, anche se su un piano diverso, la stessa realtà storica. Si deve inoltre tenere presente che anche nei periodi di maggiore diffusione, la possibilità di avere un s. fu sempre riservata, a causa degli alti costi del monumento funerario, ad un'élite economica piuttosto ristretta, che era sostanzialmente quella che condizionava l'arte cosiddetta ufficiale. È stato dimostrato per alcuni s. il legame esistente tra le officine urbane e quelle funerarie: si pensi agli echi della Colonna Aureliana sui rilievi sepolcrali di età commodiana. Se questo pessimismo deve essere in parte ridimensionato, è vero però che gli elementi antiquarî, quali le acconciature femminili o i confronti stilistici con monumenti sicuramente datati, non possono essere gli unici criterî di valutazione, se si vuole comprendere il fenomeno storico-artistico nella sua totalità. I recenti tentativi di trovare nuovi metodi di datazione sulla base di un'analisi iconologica o strutturalista hanno dato talvolta risultati soddisfacenti, ma corrono il rischio di essere limitati alla sola definizione cronologica e di non portare perciò alcun contributo concreto alla soluzione dei complessi problemi dell'arte romana.
Sarcofagi cristiani. - Tra i numerosi studî pubblicati in questi ultimi anni sui s. cristiani, bisogna segnalare l'edizione del primo volume del Repertorio dei sarcofagi cristiani, curata dal Deichmann, la cui elaborazione è opera del Bovini e del Brandenburg.
Si tratta di un lavoro che inizia con Roma ed Ostia, ma che conta di raccogliere nella seconda parte, tutti i s. del resto dell'Italia e del mondo. I 1042 esemplari, ordinati secondo un criterio topografico, sono analizzati e studiati con ricchezza di dettagli figurativi e stilistici. Sono state volontariamente evitate discussioni di carattere simbolico ed esegetico, mentre è stata particolarmente curata la bibliografia completa fino alla data di pubblicazione. Per l'ampiezza della raccolta, per la facilità di consultazione per la ricchezza bibliografica, questo Repertorio può affiancarsi, se non essere sostitutivo, dell'opera del Wilpert.
Più complessa si presenta invece la monografia del Klauser sui sarcofagi paleocristiani. Si tratta di una piccola scelta di materiale molto noto, in genere italiano o gallico, che raccolto e fotografato per il Repertorio del Deichmann, è stato utilizzato per impostare un discorso sull'arte funeraria cristiana dalla metà del III fino alla metà del VI secolo. L'introduzione, in cui si esaminano alcuni problemi fondamentali della prima età cristiana e si discute su alcune questioni che interessano le figurazioni attestate sui s., è seguita dal catalogo dei 24 esemplarî che vengono nella terza ed ultima parte riesaminati alla luce delle idee contemporanee alla loro produzione. I rilievi sono divisi inoltre in due gruppi, a seconda della loro anteriorità o posteriorità alla completa affermazione del cristianesimo (350 d. C.). Questo lavoro offre spunti interessanti soprattutto intorno alla comparsa delle rappresentazioni cristiane che dovrebbero per il Klauser, essere state eseguite, almeno nel primissimo periodo, per comunità eretiche, dal momento che ai cristiani e agli ebrei era proibito dal Decalogo di riprodurre figure ed oggetti sacri. La schematizzazione delle immagini potrebbe essere giustificata, per l'autore, dal fatto che esse derivano dai sigilli, su cui per la prima volta furono rappresentate scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Si tratta di tesi che hanno bisogno, per essere accettate, di una documentazione più rilevante di quella che offre il Klauser e che, prese isolatamente, hanno incontrato molte obiezioni. È il caso dell'interpretazione dei S. cosiddetti della salvezza, con scene di Noè, di Giona, dei miracoli di Cristo, che simboleggerebbero, secondo l'autore, lo spaventoso viaggio del cristiano verso l'al di là, che per altro non sembra attestato nè dalle fonti letterarie ed epigrafiche, nè da quelle figurative.
Si vogliono infine segnalare alcuni studî su classi particolari di s. cristiani (ad alberi, con scene di Passione, a figure, con simboli) che sotto la direzione scientifica del Bovini sono stati recentemente pubblicati da un gruppo di studiosi che da qualche anno si interessa a questo materiale. Si tratta di piccoli repertorî completi sul piano documentario e bibliografico, attraverso i quali si tenta un chiarimento all'interno dei singoli gruppi dei problemi di interpretazione e di datazione dei s. presi in esame.
Bibl.: Sarcofagi egiziani: A. M. Donadoni Roveri, I sarcofagi egizî dalla origine alla fine dell'antico regno, Roma 1969.
Sarcofagi greci: P. Demargne, Un sarcophage du IVe siècle à Xanthos. Le sarcophage dit des danseuses, in Mélanges offerts à Kasimirz Michalowski, Varsavia 1966, p. 357 ss.; F. G. Lo Porto, Tombe di atleti tarentini, in Atti e Memorie della Società Magna Grecia, 8, 1967, p. 31 ss.; K. Schefold, Der Alexander-Sarkophag, Berlino 1968.
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(C. Panella)
B) - commercio. - Uno dei rami più importanti dell'industria del marmo era il commercio dei sarcofagi. La maggior parte dei quali era naturalmente scolpita in qualsiasi tipo di marmo o di pietra disponibile sul luogo; ma molti altri, compresi alcuni degli esemplari più fini, erano scolpiti in marmo importato, e si può dimostrare che nella maggior parte dei casi venivano spediti dalle cave già formati e, in alcuni casi, già parzialmente scolpiti. Le origini di questo commercio si trovano principalmente, sebbene non esclusivamente, nel mondo egeo, e questo fatto ebbe una parte notevole nella determinazione delle forme e dei motivi decorativi di uso comune in molte province dell'Impero Romano (v. anche vol. iv, p. 860 ss., s. v. Marmo).
I due centri di produzione che esercitarono più largo influsso sotto questo riguardo furono l'Attica e il Proconneso (l'isola di Marmara). I s. attici erano fatti in marmo pentelico e la loro fioritura va dal regno di Adriano fino al saccheggio di Atene da parte degli Eruli nel 267. Si possono distinguere due forme principali, quelli con coperchio a forma di tetto e quelli con coperchio scolpito a forma di klìne con figura recumbente, o con una coppia di figure; e, tranne pochi casi, tutte le casse hanno scene figurate su tutti e quattro i lati. Attraverso tutte le serie si nota una grande unità di esecuzione tanto dal punto di vista iconografico quanto stilistico. Questo si può spiegare in parte con l'esistenza di officine specializzate nei maggiori centri di diffusione, come Roma ed Aquileia, in parte con l'ammettere che artigiani specializzati accompagnassero le singole spedizioni in modo da completare la decorazione scolpita dopo l'arrivo. Ma possono aver concorso altri fattori. Si nota molto comunemente che soltanto uno o due lati sono scolpiti in altorilievo, mentre gli altri sono abbozzati in bassorilievo e molto meno dettagliati. Si è supposto che quest'ultimo rappresenti lo stato in cui i s. erano normalmente imbarcati dall'Attica, con motivi già sommariamente ma non completamente scolpiti in modo da evitare danneggiamenti ai delicati dettagli durante la spedizione via mare. All'arrivo dovevano essere completate soltanto quelle parti che restavano visibili dentro la tomba. La maggior diffusione di questi sarcofagi attici avvenne attraverso la Grecia, l'Egeo, la Siria, la Cirenaica (ma non l'Egitto) e l'Italia. Pezzi isolati raggiunsero la Gallia meridionale e la Spagna.
I s. proconnesi erano esportati in due forme principali. Una consisteva in una cassa liscia con un coperchio massiccio a forma di tetto e con grandi acroteri angolari. Questo tipo, caratteristico della Bitinia e della Tracia, fu largamente esportato in Mesia (risalendo il Danubio fino a Viminacium) e attraverso l'Adriatico in Dalmazia e nell'Italia settentrionale, e in queste due ultime regioni fu largamente copiato in pietra locale; almeno un esemplare raggiunse la Gallia meridionale.
Il secondo tipo proconnesio aveva una forma simile ma generalmente meno massiccia; la cassa era sbozzata prima della spedizione con disegni geometrizzati di motivi a ghirlanda rudimentale. Questo abbozzo era destinato ad essere scolpito dopo l'arrivo con un disegno a ghirlanda convenzionale che poteva assumere un certo numero di forme strettamente affini, con ghirlande sostenute da Eroti o da Vittorie, o anche da teste di toro o di cervo; il disco sopra ciascuna ghirlanda generalmente diviene una testa e da ciascuna ghirlanda pende un grappolo d'uva. Come nei S. attici, soltanto le facce che risultavano esposte alla vista avevano bisogno di essere scolpite, e il disegno originale fatto nella cava si può vedere nella parte posteriore di molti di essi, e spesso anche ad una o ad ambedue le estremità. Se non c'era sul posto uno scultore disponibile il s. poteva venir usato così come era arrivato, caso non raro, oppure con non più di un leggero ritocco del disegno fatto nella cava. Questo secondo tipo viaggiò soprattutto verso il S e verso l'E, in Asia Minore, in Siria (che importò anche una variante del primo tipo) e in Egitto, dove i sarcofagi importati sono tutti di marmo proconnesio. Pochi raggiunsero Roma. Sia nella forma compiuta sia nella forma abbozzata questo tipo a ghirlanda fu largamente copiato in materiali locali.
Un'altra fonte ancora di S. parzialmente prefabbricati è stata rivelata dalla scoperta di una nave naufragata al largo di Torre San Pietro presso Taranto nella prima metà del III sec. d. C. mentre era in rotta verso Roma con un carico di ventiquattro grandi S. di un marmo che proviene probabilmente dalla parte SO dell'Asia Minore. Metà di questi erano casse rettangolari lisce, l'altra metà invece aveva le estremità arrotondate e due bozze protuberanti che erano chiaramente destinate ad essere completate nella forma usuale con due protomi leonine ad altorilievo. Alcuni dei più notevoli esemplari del III sec. d. C. da Roma (ad esempio il S. Ludovisi nel Museo Nazionale Romano, il S. Badminton nel Metropolitan Museum di New York) sembra che appartengano a questo gruppo.
Altri importanti centri di produzione furono Luna (il primo centro di rifornimento del Mediterraneo occidentale); alcune località non ancora identificate nella valle del Meandro (i cosiddetti s. Pamfilii); Synnada in Frigia (i S. "asiatici" della regione centro-occidentale dell'Asia Minore); Djebel Filifia in Algeria (Nord Africa); e Saint-Béat nei Pirenei (i sarcofagi tardoantichi Aquitani della Gallia meridionale). Non c'è alcuna prova che la lavorazione di questi S. prima della spedizione consistesse in niente più che una semplice riquadratura della cassa in modo da ridurre il peso durante il trasporto. La sola eccezione di una scultura eseguita prima dell'imbarco con un semplice ma chiaro motivo a ghirlanda è il piccolo ma largamente distribuito gruppo fatto di pietra vulcanica, lapis sarcophagus, di Assos. Un carico di questi s. è stato localizzato al largo di Methone nel Peloponneso.
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(J. B. Ward-Perkins)