Paolo, santo (Paulo; Polo)
Apostolo e martire. Una parte notevole della sua vita e della sua intensa attività missionaria è descritta negli Atti degli Apostoli. Scarse e irrilevanti sono le notizie desumibili da altre fonti, tardive oppure apocrife, mentre risultano quanto mai preziose le quattordici lettere paoline - per la maggior parte dall'autenticità indiscussa - per conoscerne il ricco insegnamento teologico e mistico, per integrare taluni dati biografici e per scorgervi non pochi aspetti della sua personalità nelle numerose allusioni ai rapporti con i vari destinatari. In uno stile originalissimo, esse permettono la conoscenza, anche se piuttosto relativa, dell'animo del loro autore.
Le lettere, che talvolta si presentano come autentici trattati su determinati problemi teologici, sono dirette alle comunità di Tessalonica (due), di Corinto (due), di Roma, della Galazia, di Colossi e di Filippi; una porta il titolo generico ad Hebraeos, mentre una è considerata una specie di circolare o enciclica o comunque non diretta alla comunità (quella di Efeso) indicata nelle edizioni della Bibbia; quattro lettere sono indirizzate a singoli individui: a Timoteo (due), a Tito e a Filemone.
Nato a Tarso di Cilicia nei primi anni dell'era cristiana, P. o Saulo (dagl'inizi del primo viaggio missionario viene chiamato sempre col primo nome di origine latina) morì martire a Roma probabilmente nel 67. Nonostante il carattere ellenistico della città natale e l'ambito possesso della cittadinanza romana (cfr. Act. Ap. 16, 37 e 22, 25), P. ebbe una formazione strettamente ebraica; egli fu sempre fiero della sua appartenenza alla corrente dei farisei (Act. Ap. 22, 3-6; 26, 5; Philipp. 3, 5) e della sua scrupolosa osservanza dei doveri religiosi (Philipp. 3, 6; Gal. 1, 14). Per questo, venuto a contatto con la prima comunità cristiana di Gerusalemme, si trasformò in persecutore instancabile (Act. Ap. 9, 1-2; 22, 3-5; 26, 9-11; I Cor. 15, 9; ecc.). Il passaggio da persecutore a cristiano fu repentino e, dall'interessato, attribuito sempre a un fenomeno soprannaturale (Act. Ap. 22, 6-10; 26, 12-18; Gal. 1, 15; Philipp. 3, 12). Dopo un periodo piuttosto lungo di attesa e di tentativi dal successo molto limitato o nullo, nel 43-45 si dedicò all'apostolato in Antiochia di Siria. Verso la fine del 45 incominciò una lunga serie di viaggi missionari (un po' convenzionalmente se ne enumerano tre dal largo raggio) attraverso l'isola di Cipro, l'Asia Minore e la Grecia. Negli anni 61-63, dopò un biennio di prigionia in Cesarea di Palestina, fu a Roma, ufficialmente prigioniero anche se usufruiva di una notevole libertà. La descrizione dell'attività successiva (sino all'autunno del 66 oppure agl'inizi del 67) dipende dall'utilizzazione delle lettere pastorali (a Timoteo e a Tito), sulla cui autenticità i critici moderni esprimono non poche riserve. Senza dubbio P. è la personalità più complessa, più ammirata e anche più discussa del cristianesimo primitivo. Nella tradizione egli è considerato l'apostolo per eccellenza.
D. parla spesso di P., allude ad alcuni episodi della sua vita e ne cita le lettere, che indirettamente utilizza, attraverso allusioni verbali, un numero difficilmente precisabile di volte. Egli non usa mai il nome Saulo; negli scritti in latino (sette volte nella Monarchia e una volta in Ep XI 3) lo chiama Paulus; in quelli italiani prevale la forma Paulo (Cv IV XIII 9, XXVIII 10, If II 32, Pd XVIII 131; si ha Paolo in Cv IV V 16; Polo, in rima, in Pd XVIII 136). Spesso il nome è sostituito dal titolo Apostolo (Cv II V 1, IV XXII 6, XXIV 17) o Apostolus (Mn Il IX 19, XI 2, Ep XIII 76 e 79, Quaestio 77). Sempre con linguaggio biblico, altrove è indicato con l'appellativo vas d'elezione (If II 28) o gran vasello / de lo Spirito Santo (Pd XXI 127-128), che ricordano il vas electionis di Act. Ap. 9, 15; in Ep XI 3 è detto gentium praedicator (titolo datogli comunemente, specie nella liturgia; cfr. I Tim. 2, 7), mentre in Pd XXIV 62 è chiamato caro frate di Pietro (cfr. carissimus frater noster di II Petr. 3, 15). Nel Fiore (CXII 10) si parla di san Paolo che predicava i compagnoni.
D. parla di tre soli episodi della vita di P., se si prescinde da quanto è implicito nei titoli ‛ apostolo ', ‛ gentium praedicator ': appello al tribunale di Cesare, predicazione e martirio in Roma, rapimento al terzo cielo. Il primo fatto è ampiamente documentato con le citazioni dirette di Act. Ap. 25, 10; 27, 14; 28, 19, e quindi sfruttato per dimostrare l'autonomia o indipendenza dello Stato rispetto alla Chiesa (Mn III XII 5-6). Della predicazione e del martirio in Roma si parla in Ep XI 3, Pd XVIII 131 e XXIV 63. L'attività missionaria è ricordata solo nell'ultimo testo (che mise teco Roma nel buon filo; si riporta l'apostrofe di D. a s. Pietro). La notizia può intendersi nel senso degli eruditi moderni; costoro ammettono in genere che tutti e due gli apostoli a Roma predicarono in tempi diversi e tutti e due vi subirono il martirio, ma negano che il cristianesimo penetrasse in Roma solo attraverso i due personaggi, poiché già prima del loro arrivo esisteva una chiesa molto fiorente nella capitale dell'Impero. Ma con ogni probabilità D. si rappresentava in un senso molto più accentuato l'attività romana dei due apostoli. Esisteva, infatti, una tradizione, attestata già da s. Ireneo (Adversus haereses III I 1), la quale additava in Pietro e P. gli unici ‛ evangelizzatori ' e ‛ fondatori ' della Chiesa di Roma. Più precisa e più ampiamente documentata è la tradizione del martirio di P. in Roma, ricordato - ma senza particolari - in Pd XVIII 131 ed Ep XI 3.
Contrariamente a quanto afferma in Cv II V 6, nella Commedia (Pd XXVIII 130-139) D. segue lo pseudo-Dionigi (De coelesti hierarchia) nella distribuzione dei cori angelici nei diversi cieli. Condividendo l'opinione allora comune circa l'autore ignoto (= Dionigi convertito da P. in Atene; cfr. Act. Ap. 17, 34), D. adduce come motivo principale della sua scelta il fatto che l'Areopagita avrebbe attinto direttamente da un testimone oculare (ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse / con altro assai del ver di questi giri). È evidente il riferimento alla notizia autobiografica di P. (in II Corinth. 12, 2-3). Dai commentatori moderni comunemente si segnala il riferimento alla seconda lettera ai Corinti anche nella celebre terzina di If II 27-30. L'interpretazione ha le sue probabilità; basta intendere il ricordo di Enea e di P. nel senso che soltanto due personaggi privilegiati visitarono il mondo ultraterreno. Essa soddisfa meno se i due viaggi sono da prendersi in senso locale limitato (Inferno e non Purgatorio o Paradiso), come facevano i primi commentatori. Fra costoro il più preciso è il Buti, il quale parla espressamente di un'andata di P. nell'Inferno e lo conferma con la testimonianza di " un libro, che non è approvato ", ossia che non è ritenuto ispirato, e quindi apocrifo. Senza dubbio egli si riferisce alla Visio (o Apocalypsis) Pauli, giunta a noi in varie recensioni, in lingue orientali ma anche in latino, molto diffuse nel Medioevo (cfr. Th. Silverstein, Visio Pauli. The History of the Apocalypse in Latin together with Nine Texts, Londra 1935). Con molta probabilità - in maniera diretta o indiretta - D. dipende dal tale apocrifo, il cui influsso è stato segnalato anche riguardo alla cosmologia della Commedia (cfr. G. Ricciotti, L'Apocalisse di P. siriaca, I, Introduzione, traduzione e commento; II, La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a D., Brescia 1932; in particolare si veda I 27-31, II 130-132).
Come giudizio complessivo di D. su P. abbiamo l'accettazione, almeno indiretta, di quanto s. Girolamo dice a proposito delle lettere paoline: " Super quo [l'apostolo in quanto autore delle quattordici lettere] tacere melius puto quam pauca dicere " (Epist. 53, 9; ediz. J. Labourt, III, Parigi 1953, 22). Il poeta termina l'apostrofe a Catone con le parole: Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire (Cv IV V 16). Si parla di proemio de la Bibbia, perché tale lettera insieme con altri testi geronimiani s'inseriva di solito all'inizio dei manoscritti biblici; usanza continuata da moltissimi editori. Anche se non è mancato (cfr. commento di Busnelli-Vandelli) chi ha supposto un paragone fra Catone e l'apostolo, evidentemente D. vuol dire soltanto che, data la grandezza dei due personaggi, è meglio tacere che parlarne inadeguatamente.
D. non enunzia nessun giudizio sulle lettere paoline. In Mn I IV 4 si limita a rilevare un particolare secondario: esse nei saluti - all'inizio o alla fine - augurano la pace, seguendo l'esempio di Gesù Cristo (cfr. Ioann. 20, 19, 20 e 26). Di esse, però, si afferma l'ispirazione: in Mn III IV 11 P. è nominato, insieme con Mosé, David, Giobbe e Matteo, fra gli autori attraverso i quali ha parlato lo Spirito Santo, e in Pg XXIX 134 e 139-141 l'appartenenza delle lettere alla Bibbia è simboleggiata dalla presenza di P. con una spada lucida e aguta. L'arma, più che simbolo del martirio, è interpretata con riferimento alla capacità di tali scritti di scuotere e ferire le anime (cfr. Hebr. 4, 12). Infine in Pd XVIII 136 c'è la condanna per l'ignoranza che ostentavano alcuni cristiani nei loro riguardi.
Assommano a una trentina le citazioni dirette, desunte da dieci lettere paoline (non sono mai citate la seconda ai Tessalonicesi, la prima a Timoteo e quelle a Tito e a Filemone). I vari brani talvolta sono introdotti senza alcuna formula (cfr. Ep V 23 e 29; Mn II II 8, VIII 10, ove vengono citati rispettivamente Rom. 1, 20; Ephes. 4, 17; Rom. 1, 20; 11, 33). Altre volte, invece, c'è l'indicazione della lettera e dell'autore: cfr. Cv IV XXIV 17 (l'Apostolo a li Colossensi = Coloss. 3, 20), XXVIII 10 (santo Paulo a li Romani = Rom. 2, 28-29); Mn II IX 19 (Apostolus ad Timotheum = II Tim. 4, 8), XI 3 (Apostolus ad Ephesios = Ephes. 1, 5- 6); III X 7 (Apostolus ad Corinthios I Corinth. 3, 11), XII 5 (Paulus in Actibus Apostolorum... Paulus ad Judaeos = Act. Ap. 25, 10; 28, 19). In nove casi la citazione è introdotta col solo nome dell'autore: Cv II V 1 (= Hebr. 1, 1), IV XIII 9 (= Rom. 12, 3), XXI 6 (= Rom. 11, 33), XXII 6 (= I Corinth. 9, 24), Mn I XVI 2 (= Gal. 4, 4), II XI 2 (= Rom. 5, 12), III I 3 (= I Thess. 5, 8; citazione indiretta), XII 6 (= Philipp. 1, 23, introdotto con ille qui dicebat); Pd XXIV 61-66 ('l verace stilo / ... del tuo caro frate = Hebr. 11, 1).
Se per le opere italiane sussiste il dubbio circa la traduzione (è opera diretta del poeta oppure lavoro preesistente di anonimi?), per quelle latine c'è il problema del testo. Prescindendo da adattamenti evidenti, imposti dal giro della frase (cfr. Mn I XVI 2, III X 7, Ep V 29), compaiono lezioni particolari, sempre però della Volgata. Per esempio in Ep V 23 c'è un'inversione di parole (a creatura mundi invisibilia Dei per " invisibilia enim ipsius a creatura mundi " di Rom. 1, 20); in Mn III XII 6 cupio sostituisce " desiderium habens ". La differenza più sensibile si ha in un testo ricco di varianti nei manoscritti greci e in quelli latini della Volgata, ossia in Ephes. 1, 5-7 (cfr. Mn Il XI 3); rispetto al testo critico di Wordsworth-White, poco diverso da quello della Sisto-clementina, " qui praedestinavit nos in adoptionem filiorum per lesum Christum in ipsum secundum propositum voluntatis suae, in laudem gloriae gratiae suae, in qua gratificavit nos in dilecto: in quo habemus redemptionem per sanguinem eius, remissionem peccatorum, secundum divitias gratiae eius quae superabundavit in nobis ", in D. abbiamo qui... in laudem, et gloriam gratiae suae... in dilecto Filio suo... divitias gloriae suae. Mentre altrove le varianti possono ascriversi ad adattamenti voluti o naturali (citazioni a memoria), qui abbiamo l'indizio che il manoscritto usato da D. non era molto accurato. Dato l'esiguo numero delle citazioni, è pura ipotesi sperare in una sua identificazione, sia pure limitatamente alla sua appartenenza all'uno o all'altro gruppo.
Un adattamento molto libero si ha in Ep XIII 79 Scio hominem, sive in corpore sive extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium caelum, et vidit arcana Dei, quae non licet homini loqui. Senza dubbio le varie omissioni sono da attribuirsi al poeta, non a manoscritti biblici, che di solito contengono un testo più lungo: " Scio hominem in Christo ante annos quattuordecim, sive in corpore, sive extra corpus nescio, Deus scit; raptum eiusmodi hominem usque ad tertium caelum. Et scio huiusmodi hominem, sive in corpore sive extra corpus nescio, Deus scit: quoniam raptus est in Paradisum: et audivit arcana verba, quae non licet homini loqui ". Invece è molto probabile che provenga dal manoscritto utilizzato la variante adimpleret (per impleret) in Ep XIII 76 (Qui ascendit super omnes caelos ut adimpleret omnia = Ephes. 4, 10), ove il poeta arbitrariamente intende l'omnes caelos come una conferma della sua concezione sul numero dei cieli.
Altra variante testuale di un certo interesse si ha in Mn Il VII 5 Inpossibile est sine fide piacere Deo, per " Sine fide autem impossibile est placere Deo " di Hebr. 11, 6. Ivi la citazione è introdotta con un semplice Scriptum est enim ad Hebraeos; se non esistessero almeno altre due citazioni di tale lettera con la chiara attribuzione a P. (cfr. Pd XXIV 61-65, Cv Il V 1), si potrebbe pensare all'eco dell'antica controversia nella Chiesa latina circa l'autenticità paolina dello scritto.
Che D. molto spesso citasse a memoria risulta anche dalla naturalezza con cui si serve di espressioni paoline per manifestare un suo concetto, oppure le introduce perché presentatesi nella sua mente in forza di un richiamo verbale. Per esempio in Ep V 14 egli scrive: considerantes quia " potestati resistens Dei ordinationi resistit " (cfr. Rom. 13, 2 " qui resistit potestati Dei ", ecc.); et qui... recalcitrat; et " durum est contra stimulum calcitrare " (= " durum est tibi contra stimulum calcitrare ", detto a P. secondo Act. Ap. 26, 14); in Ep V 29 dopo la citazione quasi letterale (omette " sui ", alterando alquanto il senso) di Ephes. 4, 17, continua: tenebris obscurati; sed aperite oculos mentis vestrae, che ricorda il " tenebris obscuratum habentes intellectum " e l'" inluminatos oculos cordis vestri " di Ephes. 4, 18, 1, 18. Senza dubbio il gratia Dei sum id quod sum con cui D. designa sé stesso (Ep XI 9) deriva da I Corinth. 15, 10, come il conseguimento del bravium da parte di Roma (Mn II VIII 11) ricorda " unus accipit bravium " di I Corinth. 9, 24. Anche se meno evidente, la dipendenza paolina è innegabile nella frase Nec advertitis dominantem cupidinem, quia caeci estis, venenoso susurrio blandientem, minis frustatoriis cohibentem, nec non captivantem vos in lege peccati, ac sacratissimis legibus... parere vetantem (Ep VI 22); basta confrontare con Rom. 7, 23 (" video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meae, et captivantem in lege peccati "; cfr. anche 11-13).
Ma l'influsso di P. su D. supera di molto questa dipendenza letteraria, quale risulta dalle citazioni dirette e dalle più numerose allusioni o citazioni indirette. Basta riflettere come talune immagini o dottrine proprie di P. nel Nuovo Testamento ritornino con insistenza nelle opere dantesche: presentazione della Chiesa come sposa di Cristo (cfr. Ep XI 26, Pd XI 31-33, XXVII 40, XXXI 3, XXXII 128-129), rapporto tipologico fra Adamo e Cristo (Pd VII 25-33, XIII 37-42), insegnamento sul peccato originale (Cv IV V 3, Mn II XI 2-3, Pg XXXIII 57-63,. Pd XXVI 115-117), la nozione della plenitudo temporis (Mn I XVI 2), buona parte dei nomi dei cori angelici, ecc. Ma si tratta di elementi ormai divenuti da tempo comuni nell'iniziazione catechetica e nelle scuole teologiche; è ben difficile distinguere quanto D. desunse dal patrimonio comune e quanto egli scoprì o riscoprì con lo studio diretto delle lettere paoline. Queste infatti erano state, attraverso tutto il Medioevo, oggetto d'innumerevoli commenti e parafrasi. L'insegnamento paolino era divenuto in tal modo un elemento capitale della dottrina cristiana e della speculazione teologica. Quella paolina, infatti, è la prima espressione teologica del Vangelo d'importanza determinante e come tale accolta sin dai primi padri della Chiesa.
In tal senso, il debito di D. nei confronti del pensiero cristiano risulta a un tempo un debito nei confronti del pensiero più specificamente paolino.
S. Paolo e Dante. - Nel commentare il passo del rapimento di P. al terzo cielo (If II 28-33) e la missione attribuita a D., l'Ottimo vide che nelle ragioni addotte per spiegare la finalità di così grande impresa era inclusa " una moralitade: che nullo per sé dee imprendere grande fatto, ma quello dee liberare con lo consiglio del savio "; Benvenuto aggiunse un'interpretazione indicativa, riguardo al poeta: " Sum enim homo privatus quantum ad Aeneam, et peccator quantum ad Paulum ", e di conseguenza: me degno a ciò né io né altri 'l crede (v. 33). D. però non dubita che il suo viaggio sia voluto dall'alto e, implicitamente, riconosce di essere investito di una missione analoga a quella di Enea e di Paolo. Il Foscolo, tra i primi, sostenne nel Discorso sul testo del poema di D. che il poeta riteneva di avere avuto " una missione profetica, alla quale di proprio diritto, e senza timore di sacrilegio, si consacrò con rito sacerdotale nell'altissimo dei cieli ".
Nello studio foscoliano vi è la ricerca di una lunga serie di passi paolini coordinati in modo da confortare la sua ipotesi (" se l'ipotesi darà lume e ordine al tutto, forse che allora s'acquisterà nome di verità ") che le epistole di P. siano il testo ispiratore e fondamentale della visione dantesca (il tema sarà ripreso con vigore da Bruno Nardi [v.] nel saggio D. profeta, che considera il viaggio dantesco nel contesto della letteratura profetica medievale e dei ‛ topoi ' virgiliano e paolino). D. più volte asserisce che il suo viaggio d'oltretomba è un atto della grazia divina: il riconoscimento esplicito è nelle parole di Virgilio (If II 52-126) e di Cacciaguida (Pd XV 46-48); non si meraviglia, dunque, che a Enea pagano sia stato concesso, per dono gratuito, di discendere a visitare il regno dell'al di là, poiché " Roma e l'Impero (la quale e 'l quale), a dire come stanno veramente le cose, non esauriscono in sé la loro funzione, ma ebbero poi quella di fare sì che la Città fosse sede e centro del Cristianesimo universale " (Pagliaro). Che D., autore della Monarchia, sentisse nell'opera maggiore la sua missione di recare all'Impero dei suoi tempi e alla convivenza civile un messaggio, che idealmente lo avvicinava a Enea, è tesi accolta dalla comune esegesi. Il paragone invece con P. sembra più arduo, eppure il poeta compì il viaggio dall'Inferno all'Empireo in somiglianza a quanto l'Apostolo narra di sé in II Corinth. 12, 2-4, e al viaggio paolino agl'Inferi, sotto la guida dell'arcangelo Michele, riferito dall'antica leggenda, nota fin dal IV secolo. Nel poema il messaggio religioso rivolto alla Chiesa non è meno evidente di quello rivolto all'Impero: le due istituzioni sono presenti, di continuo, nel poema. Papà Bonifacio e i pontefici del periodo avignonese, e tutto il problema della donatio di Costantino, formano l'argomento capitale di tante raffigurazioni e polemiche dantesche dal canto XIX dell'Inferno alla visione del Paradiso terrestre (Pg XXXII-XXXIII), alle frequenti rampogne agli ordini religiosi decaduti dalla primitiva regola, alla forte invettiva di s. Pietro (Pd XXVII 19-66). Secondo il Foscolo - che forzò la tesi in senso risorgimentale - la missione di P. si rinnovò in D. nel momento della professione di fede, quando l'apostolo Pietro per tre volte circondò la fronte del poeta di un celeste splendore, quasi rito di consacrazione per un ministero particolare. Mancò l'imposizione delle mani - ma i beati non hanno sembianze e sono ravvolti dalla luce - e nei vv. 151-154 del XXIV canto del Paradiso è facile intravvedere il gesto consacratorio.
Vi era per D. una certa analogia tra il rito pagano dell'alloro, quale riconoscimento e consacrazione ufficiale di un poeta, e il rito dell'iniziazione cristiana del battesimo? Certamente egli aspirò alla sua incoronazione di poeta là dove aveva ricevuto la grazia battesimale: l'ispirazione del poema sacro gli proveniva dalla grazia di essere cristiano. Le ammonizioni, le invettive dantesche hanno spesso il carattere paolino della " virga ferrea ", come strumento illuminante e necessario di una vendetta di Dio, che non è più vendetta vista nella sua finalità e che anzi fa dolce l'ira tua nel tuo secreto (Pg XX 96).
Non è riscontrabile in D. un'esposizione sistematica della teologia paolina, ma ci sono i punti essenziali di una conoscenza del pensiero dell'Apostolo, come si può vedere nella dottrina del peccato originale, nella definizione della fede, e, tramite lo pseudo-Dionigi (v.), nell'ordinamento degli angeli in gerarchie e nei problemi dell'angelologia (Pd XXVIII-XXIX). L'argomento dantesco della predestinazione lo si ritrova, esattamente, in Paolo. Il poeta si chiede, a proposito dell'uomo nato alla riva dell'Indo e non battezzato, perché non poteva essere battezzato prima della venuta di Cristo: ov'è questa giustizia che 'l condanna? / ov'è la colpa sua, se ei non crede? (Pd XIX 77-78). E risponde: Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, / per giudicar...? (vv. 79 ss.).
P. nella Lettera ai Romani (9, 20 10, 14) aveva posto eguale domanda e dato la stessa risposta: " Quomodo ergo invocabunt in quem non crediderunt? ... O homo, tu quis es, qui respondeas Deo? Nunquid dicit figmentum ei qui se finxit: Quid me fecisti sic? ". Il Vossler notò una concordanza tra il canto VII del Paradiso e il pensiero di P. sulla redenzione e sulla resurrezione dei morti: " Se si prescinde dal modo di esprimersi astratto e scolastico, si ritroverà in ogni parola la mescolanza tutta paolina di senso giuridico e di senso d'amore, di sottigliezza e di fede ".
Particolare importanza, secondo noi, riveste il momento dell'esame di D. sulla carità, avanti a s. Giovanni. Aguzzando lo sguardo per la volontà di vedere nel bagliore dell'apostolo, luminoso come sole, D. è colpito momentaneamente dalla cecità (Pd XXV 138-139). Il poeta si paragona a P. dopo l'episodio di Damasco. Il passo, oltre l'interpretazione del fenomeno naturale della vista abbagliata dall'intensissima luce, contiene l'indicazione allegorica connessa all'episodio scritturale ricordato: D. riceve un nuovo atto di grazia (grazia attuale) che lo dispone e lo consacra all'ultima ascesa e alla meditazione del più grande mistero. La cecità del poeta è misurata da una ragione teologica: Beatrice potrebbe intervenire e non interviene, attende che la professione sulla carità sia completa per ridare al poeta, accresciuta di vigore, la sua vista temporaneamente smarrita. Poiché Beatrice ha nello sguardo la virtù delle mani di Anania (Saulo ricuperò miracolosamente il senso del vedere per quell'imposizione) solo per dono soprannaturale il poeta riguadagnerà la forza visiva. Il ricordo di P. non è occorso incidentalmente, l'esame sulla carità ha come base teologica il pensiero giovanneo e quello paolino.
Una sola volta D. immaginò di vedere P. nel poema, mentre si svolgeva la mirabile visione del Paradiso terrestre: lo vide dietro il carro della Chiesa, che avanzava per virtù del grifone, simboleggiante il Cristo, vicino a Luca, nel rito processionale: con una spada lucida e aguta [" bene exercuit in claritate fidei ", commenta Benvenuto], / tal che di qua dal rio mi fé paura (Pg XXIX 140-141); notò che aveva, rispetto a Luca familiare d'Ippocrate perché medico, contraria cura, cioè P. ha una spada che non guarisce, ma ferisce, e quindi divide dal male e unisce nel bene.
Per la sua missione di poeta e per l'auspicata renovatio, che si esprimeva spesso nella parola brusca (Pd XVII 126), D. amò il segno della spada dell'apostolo, convinto che tornando dal ‛ secolo immortale ' (If II 14-15) doveva, con Enea, difendere i diritti del regno di giustizia e con P. sostenere i doveri del regno della pietà.
Bibl.-U. Foscolo, Discorso sul testo del poema di D., in Opere, III, Firenze 1923, 177-188; 390-396; 430-433; K. Vossler, Il Cristo e l'al di là (Paolo), in La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata, traduz. ital.. Bari 1927, I I 53-62; ID., D. e P., ibid. I II 73-85 (v. anche 68-73); F. D'Ovidio, D. e S.P., in Studi sulla D.C., p..II, Napoli 1931, 43-86; B. Nardi, D. profeta, in D. e la cultura medievale, Bari 1949², 258-334; A. Chiari, D. e Foscolo, in Indagini e letture, s. 3, Firenze 1961, 223-266; A. Pagliaro, " Io non Enea, io non Paulo sono ", in Altri saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1961, 223-236; B. Nardi, D. letto dal Foscolo, in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 166-189; G. Fallani, Analogie tra D. e S. Paolo, come introduzione agli aspetti mistici del Paradiso, in Lectura Dantis mystica (Atti della Sett. dantesca di Gressoney St. Jean), Firenze 1969, 444-460.