MILZIADE, santo
M. (variante Melchiade): le fonti latine usano normalmente Miltiades (Catalogo Liberiano del 336, Depositio episcoporum, il Liber pontificalis [con varianti], Ottato di Milevi, conferenza di Cartagine del 411); Agostino adopera le due forme (Miltiades, Milchiades: epp. 43, 2, 5; 43, 5, 16; 53, 2, 2; Contra epistulam Parmeniani 3, 18, 34; De unico baptismo contra Petilianum liber 16, 28); Eusebio usa ΜιλτιάδηϚ (Historia ecclesiastica X, 5, 18); i martirologi adoperano la forma Melchiades. Il Liber pontificalis dice che M. era "afer", africano; comunque, anche se di origine africana, era stato ordinato a Roma da papa Marcellino. Il testo gli attribuisce quattro anni, sei mesi ed otto giorni di episcopato (dal 310 al 314), ma non indica il giorno della morte, ed anche altri dati cronologici sono diversi rispetto alla prima edizione, che concorda parzialmente con il Catalogo Liberiano (cfr. Le Liber pontificalis, I, pp. 74, 168). Secondo questo testo, M. fu vescovo di Roma per due anni, sei mesi e otto giorni, cioè venne eletto il 2 luglio del 311 e morì il 10 gennaio del 314 ("anno III m. VI d. VIII ex die VI nonas iulias a consulatu Maximiano VIII solo cons. [311], quod fuit mense Sept. Volusiano et Rufino usque in III id. ianuarias, Volusiano et Anniano [314]", in Chronica minora, p. 76). Questa notizia è molto precisa, e pertanto sicura; anzi il Catalogo offre due indicazioni consolari per il 311, per la prima parte dell'anno quando erano consoli Galerio Massimiano e Massenzio, qui eliminato, e da settembre Rufino e Volusiano (cfr. R.S. Bagnall, p. 156). Se il predecessore Eusebio è morto nell'agosto del 309 oppure del 310, qual è la ragione di tanto ritardo, un anno oppure due, prima della elezione del successore? Non sembra che questa possa essere una situazione politica contraria ai cristiani. Infatti Massenzio aveva seguito una politica non persecutoria, anzi favorevole ai cristiani, sembra già dal 306. Pertanto la comunità cristiana godeva di libertà religiosa e poteva organizzarsi al suo interno. A ritardare la scelta di un successore fu probabilmente la cruenta tensione del tempo di Marcello e di Eusebio nell'ambito della comunità romana, quella tensione che aveva spinto Massenzio ad esiliare i due papi. Come ben si sa, la persecuzione aveva causato molte apostasie, di vario grado e genere, le quali richiedevano, secondo la prassi tradizionale, una congrua penitenza. Gli apostati (lapsi oppure traditores), essendo molti, costituivano una grande forza di pressione per ottenere una pronta reintegrazione nella comunione ecclesiale, causando lotte fratricide. Poiché dopo l'elezione di M. non si ha alcuna notizia del perdurare di tale tensione, si deve ritenere che nel frattempo si fosse trovato un compromesso, e la scelta di M. sia stata il frutto della pace riconquistata. Della vita precedente alla elezione non si conosce nulla; alcune testimonianze, come si vedrà, verranno dalla seconda metà del IV secolo da fonti donatiste. M. viene eletto quando a Roma è imperatore Massenzio e con questi entra in relazione; ma l'anno seguente è testimone della vittoria di Costantino sul rivale Massenzio e dei primi provvedimenti presi dall'imperatore a favore della Chiesa cattolica. Entra anche in relazione con Costantino, e sarà scelto come arbitro nella questione donatista: per quale motivo? Per il prestigio della Chiesa romana oppure perché preesistevano rapporti tra i due, quando Costantino si era fermato a Roma dopo la vittoria su Massenzio? Oppure perché Costantino seguiva l'esempio dell'imperatore Aureliano, che qualche decennio prima aveva tenuto conto dei rapporti con il vescovo di Roma da parte della comunità antiochena per la destituzione di Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia? O ancora perché seguiva i consigli di qualche ecclesiastico di sua fiducia? La scelta di Costantino è singolare perché autonoma e in contrasto con la richiesta del partito di Maiorino (poi divenuto di Donato), che voleva come giudici i vescovi della Gallia, dove non c'era stata persecuzione cruenta da parte di Costanzo e pertanto non c'erano stati lapsi: "noi ti chiediamo che la tua pietà comandi che siano dati a noi dei giudici della Gallia" (Ottato, Contra Parmenianum Donatistam 1, 22, 23, a cura di S. Lancel, Paris 1995 [Sources Chrétiennes, 412], pp. 220-24; Agostino, ep. 88, 2; Id., De unico baptismo 16, 28). La petizione pertanto è specifica: giudici nominati dall'imperatore e non la richiesta di un concilio, come sottolinea lo stesso Costantino (Ottato, Contra Parmenianum Donatistam 1, 23, p. 224). Pertanto i giudici, nominati per un caso determinato, dovevano agire secondo la delega che ricevevano dall'imperatore senza aver funzione di arbitrato. I donatisti speravano che questi giudici si pronunciassero a loro favore o potessero capovolgere la politica costantiniana, che già si era schierata a favore di Ceciliano, concedendo privilegi alla sua parte. Comunque, nella scelta di Costantino di nominare M. come presidente deve aver pesato anche il prestigio di Roma e della Chiesa romana. I donatisti non avevano richiesto Roma, forse perché era in comunione con Ceciliano (cfr. Agostino, ep. 43, 3, 8 e 7, 19) e anche perché sapevano che nella città c'erano stati apostati. Tuttavia non rifiutarono il tribunale romano e si recarono a Roma (Agostino, Contra epistulam Parmeniani 1, 5, 10; Id., Breviculus collationis cum Donatistis III, 18, 34). Costantino, quando era ancora in Italia prima di recarsi in Germania a luglio, scrisse a M. (Eusebio, Historia ecclesiastica X, 5, 18-20; cfr. Capitula gestorum III, 318, a cura di S. Lancel, Paris 1972 [Sources Chrétiennes, 195], p. 506; Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 12, 24; Sermo 19, 8): "a Milziade vescovo dei Romani e a Marco". Questo Marco non è altrimenti conosciuto ed era forse un diacono della Chiesa romana. Nelle discussioni successive tra cattolici e donatisti, specialmente nella conferenza del 411, non si parlerà mai di Marco, ma solo di M. (cfr. Capitula gestorum III, 318, p. 506) e della sua sentenza. Costantino, nella lettera, chiese che alla presenza di M. a Roma fosse esaminato il caso di Ceciliano con la partecipazione di dieci vescovi accusatori e di dieci di sua scelta, ma non parlò di Donato. Dice: "perché in presenza vostra come pure di Reticio [Autun], di Materno [Colonia], e di Marino [Arles], vostri colleghi, ai quali ho ordinato di partire subito a tale scopo per Roma, possa essere ascoltato, come sapete che è conforme alla legge veneranda. Perché di tutte queste cose possiate avere la più completa conoscenza, sono unite alla mia lettera copie degli scritti che mi ha fatto pervenire Anulino, inviate pure ai vostri colleghi suddetti. Dopo averle lette, la vostra fermezza giudicherà in quale modo si debba troncare per il meglio la suddetta causa e chiuderla secondo il diritto. Intanto, non è nascosta alla vostra sollecitudine [...]" (Eusebio, Historia ecclesiastica X, 5, 19-20; cfr. Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 12, 34; ep. 53, 2, 5). Personalmente l'imperatore convocò ed inviò a Roma tre vescovi della Gallia, assecondando solo parzialmente la richiesta dei donatisti del 15 aprile del 313. Il suo progetto era quello di affidare la soluzione del caso a ecclesiastici, ma senza intromettersi direttamente nella questione di contenuto. Tuttavia non accettò la richiesta donatista di un giudizio in Gallia trattato solo da parte dei vescovi della Gallia, limitandosi a inviare a Roma solo tre vescovi di quella regione. Egli scelse il tribunale ecclesiastico di Roma, dove c'erano stati numerosi lapsi, come si sa dai casi dei predecessori di M., Marcello e Eusebio. Questa circostanza sarà un argomento forte nelle mani dei donatisti per insinuare calunnie, a partire dalla seconda metà del IV secolo, nei riguardi di tutti i vescovi romani dei primi decenni del secolo. Il tribunale romano, costituito dall'imperatore con poche personalità ecclesiastiche, derivava la sua competenza dall'istituzione imperiale con precise istruzioni e per questo riceveva tutta la documentazione precedente. M. si dedicò subito, forse seguendo la prassi ecclesiastica romana, ad allargare il tribunale per raggiungere un giudizio più obiettivo e sicuro, e convocò anche quindici vescovi italiani (Ottato, Contra Parmenianum Donatistam 1, 23-24, pp. 222-24): così l'assemblea romana fu composta di diciannove vescovi e fu presieduta da M.; erano inoltre presenti Ceciliano e Donato, ognuno con dieci difensori. Il sinodo si riunì, il 30 settembre del 313, nella "domus Faustae, in Laterano", proprietà imperiale, concessa per quella occasione speciale, ma non ancora donata alla Chiesa romana. M., come presidente, condusse una scrupolosa inchiesta per tre giorni ("Miltiade [...] praesidente ex praecepto Constantini", come scrive Agostino, De unico baptismo 16, 28). Il primo giorno Donato indispose l'assemblea con le sue dichiarazioni, poi l'abbandonò e non tornò più, forse perché aveva capito che i vescovi non si lasciavano convincere dalle sue dichiarazioni. I testimoni convocati a suo favore dissero di non aver nulla da dichiarare contro Ceciliano (Ottato, Contra Parmenianum Donatistam 1, 24; Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 12 [24]; Id., De agone christiano liber 29 [31]). Dopo tre giorni la cognitio (Agostino, Contra epistulam Parmeniani 1, 5, 10) è completa; il 2 ottobre (e non il 4) M. stesso, come presidente, pronunziò la sentenza conclusiva di assoluzione di Ceciliano e di condanna del solo Donato come autore dello scisma. Lo accusò poi di aver consacrato alcuni lapsi e di aver ribattezzato chi passava dalla sua parte: "Siccome è risultato evidente che Ceciliano non è accusato da coloro che sono venuti con Donato, secondo quanto avevano promesso, e che non è stato convinto dei propri errori in nessun punto da Donato, credo che debba essere mantenuto, come è giusto, nella comunione ecclesiale, nel suo rango e nella sua dignità". Se viene sollevata la questione della prassi di ribattezzare, significa che Donato e i suoi seguaci la praticavano, attenendosi a una diffusa tradizione africana, mentre l'assemblea, seguendo la disciplina romana, la ripudia, in quanto questa prassi "è aliena dalla Chiesa" ("ab ecclesia alienum est": Ottato, Contra Parmenianum Donatistam 1, 24, p. 224). Questa stessa posizione teologica venne ribadita ad Arles l'anno seguente, ammettendo il nuovo battesimo solo nel caso in cui fosse stata omessa nelle formule la fede trinitaria (canone 8). L'assemblea sinodale, per vanificare lo scisma sul nascere e offrire una soluzione accettabile, cercava di isolare Donato, il personaggio più pericoloso, offrendo una riconciliazione compromissoria a tutti gli altri vescovi dissidenti e sostenitori di Donato, anche a quelli consacrati da Maiorino, l'iniziatore della disputa. Fu stabilito che in tutte le sedi dove già fossero presenti due vescovi, un cattolico e un donatista, il più anziano restasse in quella sede, mentre all'altro fosse assegnata un'altra comunità da governare, ma che dal provvedimento fosse escluso Donato (Agostino, epp. 43, 5, 16; 185, 10, 47). M. comunicò a Costantino le decisioni sinodali (cfr. Costantino, Epistula ad Aelafium, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1893 [Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 26], pp. 204-06; Agostino, ep. 43, 2, 4.5; 43, 5, 14-16). La decisione del concilio romano verrà indicata successivamente, sia dai cattolici che dai donatisti, come "giudizio di M." ("iudicium Miltiadis": Capitula gestorum III, 320; 404; 461-463; 467; Agostino, epp. 43, 2, 4 ["iudicante Melchiade"]; 43, 5, 16; 105, 2; Id., Breviculus collationis cum Donatistis III, 12, 24; III, 17, 31; III, 19, 37; Id., Ad Donatistas post collationem 13, 17; 33, 56). La formulazione di questa espressione, anche se fatta per esigenze di brevità, indica una personalizzazione della sentenza sinodale, quasi fosse emanata dal solo M. e non da tutta l'assemblea. Tale personalizzazione nuocerà gravemente a M. stesso, perché i donatisti si concentreranno poi sulla sua persona per invalidarne la sentenza. Gli atti del concilio furono conservati e furono letti integralmente nell'assemblea del 411 a Cartagine (Capitula gestorum III, 322, 325, p. 509). In seguito sono andati perduti, e sono ricostruibili solo in parte (Ottato, Contra Parmenianum Donatistam 1, 23; Agostino, epp. 43; 76, 2; 88, 3; 89, 3; 105, 2, 8). Questo è il primo di una lunga serie di concili convocati e organizzati dall'imperatore su richiesta dei donatisti. Il sinodo, che non aveva preso decisioni dottrinali, aveva proceduto con piena indipendenza, senza interferenze esterne e con piena collaborazione tra imperatore ed autorità ecclesiastica. Per altro la speranza dell'imperatore di risolvere la contesa solo nell'ambito interno alla Chiesa viene presto delusa. Se da una parte Costantino scopre per la prima volta i limiti dell'autorità ecclesiastica nel fare osservare le sue decisioni anche attraverso la sua massima espressione come è quella di un sinodo, dall'altra ben presto dovrà fare esperienza che anche la sua autorità, pur applicata con la forza, sarà destinata a fallire. Comunque, d'ora in poi, nelle questioni ecclesiali, Costantino non si rivolgerà più direttamente alla Sede apostolica, ma procederà per suo conto tramite i suoi consiglieri. Aveva troppo confidato nel prestigio della Chiesa romana? I donatisti, osserva Agostino, non contenti della sentenza romana, invece di fare ricorso a un altro sinodo episcopale, ancora una volta richiesero l'intervento di Costantino, che convocò il concilio di Arles per l'anno seguente, il 314, volendo lasciare che il clero giudicasse il clero; e infine neanche il giudizio dello stesso Costantino pronunciato a Milano fu accettato (ep. 43, 7, 20). In quello stesso anno 314 M. morì. Alcuni decenni più tardi, sembra a partire dal tempo del donatista Parmeniano, iniziò una campagna diffamatoria contro i vescovi che a Roma e ad Arles avevano condannato i donatisti, in particolare contro Ossio di Cordova e papa M. (Agostino, Contra epistulam Parmeniani 1, 3, 4; 1, 4, 7; 1, 5, 10; Id., De unico baptismo 16, 27; Id., Breviculus collationis cum Donatistis III, 18, 34; Id., Ad Donatistas post collationem 13, 17; Id., Contra litteras Petiliani 2, 92, 202). Agostino osservò che l'accanimento successivo contro M. nasceva dal fatto che il papa aveva riconosciuto Ceciliano innocente nel 313. Infatti precedentemente i donatisti non solo non gli avevano rivolto alcuna accusa, ma avevano accettato il suo tribunale (Id., Contra epistulam Parmeniani 1, 5, 10). Le accuse di aver apostatato (traditio) sono posteriori (Id., De unico baptismo 16, 28). Anche quando Parmeniano accusò il papa Marcellino di essere stato traditor al tempo della persecuzione di Diocleziano, il suo intento era quello di colpire M. (Id., Contra epistulam Parmeniani 2, 92, 202; Id., De unico baptismo 16, 27), terzo vescovo dopo la persecuzione e da lui ordinato presbitero. Nella conferenza di Cartagine del 411 papa M. venne accusato dai donatisti di essere corresponsabile della colpa dei presunti traditores durante la persecuzione del 303, Stratone e Cassiano, diaconi di papa Marcellino, per averli tenuti presso di sé ed avere affidato loro dei servizi da compiere (Capitula gestorum III, 513, 517, p. 544; Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 18, 34-36; Id., Ad Donatistas post collationem 13, 17). Secondo i testi letti in quell'occasione risultava che un certo Stratone ed altri avevano consegnato alcuni oggetti di culto (Capitula gestorum III, 490, p. 539; Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 18, 34). La notizia è ripresa e precisata nel Liber genealogus (Chronica minora, p. 196), testo donatista (427-452), secondo il quale Marcellino e i suoi diaconi Stratone e Cassiano avevano bruciato pubblicamente i libri sacri sul Campidoglio: "costretti [dagli imperatori Diocleziano e Massimiano] Marcellino a Roma e Mensurio a Cartagine, Stratone e Cassiano diaconi di Roma e Ceciliano, mentre erano diaconi della verità pubblicamente hanno bruciato i vangeli sul Campidoglio" (ibid.). In questo testo non erano inclusi nella lista dei traditores i tre presbiteri di Marcellino, cioè Marcello, M. e Silvestro, come per altro qualcuno già aveva fatto (cfr. Agostino, De unico baptismo 16, 27). Naturalmente i cattolici scagionavano M. da ogni personale coinvolgimento, sia perché i donatisti non potevano provare la sua colpa (Capitula gestorum III, 472, 473-74, 479, 486, pp. 538 s.) sia perché i verbali presentati non menzionavano il prefetto romano e il luogo, e il nome di M. non era incluso (ibid. 3, 491, 493, 499, pp. 539 s.; Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 18, 34). Non potendo provare la responsabilità personale di M., i donatisti presentarono altri documenti, nei quali risultava che egli aveva delegato i diaconi Stratone e Cassiano, con lettere di Massenzio e del prefetto al pretorio, per recarsi da Rufio Volusiano, prefetto di Roma, al fine di recuperare i beni che erano stati sequestrati, e quindi non bruciati, anni prima, nel 303. Secondo il ragionamento donatista M. era colpevole in quanto aveva tenuto presso di sé i colpevoli e si era macchiato della stessa colpa: "Miltiadem fuisse pollutum quod traditorem Stratonem in numero habuit diaconorum" (Capitula gestorum III, 511; cfr. anche 509 e 517), per questo egli "simili etiam crimine tenebatur" (ibid. III, 471). I cattolici avanzavano l'ipotesi di una possibile omonimia ed anche della ignoranza di M. (ibid. III, 500-03, 505, 509, 513; Agostino, Breviculus collationis cum Donatistis III, 18, 36; Id., Ad Donatistas post collationem 13, 7). Questi testi parlavano del rescritto per la restituzione dei beni alla Chiesa romana, ma non dicevano nulla dell'emanazione di una legge che permettesse tale restituzione. Essa doveva essere stata emanata già in precedenza ed aveva carattere generale, da applicarsi quindi anche altrove. L'esistenza di tale legge si deduce da Ottato di Milevi: "Tempestas persecutionis peracta est, iubente deo indulgentiam mittente Maxentio Christianis libertas est restituta" (Contra Parmenianum Donatistam 1, 18). La indulgentia Maxentii permetteva la libertà, i rescritti invece dovevano regolare la restituzione concreta di beni confiscati. Essa era stata applicata a Roma, ma per la mancanza di un capo della comunità, non appartenendo i beni da restituire a privati ma ad una comunità, non erano stati emanati rescritti specifici per la sua concreta attuazione. Per Roma sarà possibile richiedere un rescritto solo dopo l'elezione di M., quando la comunità ritornò a vita normale senza divisioni interne. Comunque, anche se non è indicata la data precisa del rescritto di Massenzio, la restituzione dei beni sequestrati non era certamente un'applicazione dell'editto di Serdica di Galerio, con il quale l'imperatore ridava libertà ai cristiani, poiché Galerio non parlava di restituzioni di beni confiscati. Pertanto nella pratica Massenzio andava ben oltre la lettera e lo spirito dell'editto di Galerio, anticipando la politica di Costantino. Poiché è impossibile precisare una cronologia, non si può dire se Costantino si sia ispirato a Massenzio oppure questi a Costantino, che, secondo Barnes (p. 38), già stava praticando una politica favorevole ai cristiani. Tuttavia la restituzione dei beni era complicata dal punto di vista legale e pratico e la sua attuazione richiedeva tempo: nel 312 i cristiani dell'Africa ancora cercavano di recuperare alcuni beni (Eusebio, Historia ecclesiastica X, 5, 15-17). A M. vengono attribuite falsamente tre lettere (Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 171-73). La prima è interessante perché tratta diverse questioni: dell'autorità della Sede romana, per cui i vescovi per le cause più importanti devono rivolgersi alla Sede apostolica, argomento che ricorre in documenti autentici o apocrifi in tempi successivi; inoltre tratta del battesimo e dell'appello a Roma e del digiuno (I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, II, Florentiae 1759, coll. 428-31; P.L., VII, coll. 1115-22). Anche il Liber pontificalis riporta la notizia che M. aveva ordinato che per nessuna ragione era permesso digiunare la domenica e il giovedì. La tradizione cristiana antica era unanime nel proibire il digiuno di domenica, mentre Agostino riferisce che a Roma non si digiunava di giovedì (ep. 36, 9). Questa prassi di non digiunare il giovedì è confermata dalla Vita Silvestri. La seconda lettera tratta delle donazioni costantiniane (P.L., VIII, coll. 565-68), ed è sicuramente alquanto posteriore. La terza lettera, anch'essa spuria, riguarda la proibizione delle sepolture in un'altra chiesa. Il Liber pontificalis attribuisce a M. anche la disposizione di portare una porzione del pane consacrato dal papa durante la sua messa alle diverse chiese di Roma (il cosiddetto fermentum), come segno concreto dell'unità della comunità cristiana nella celebrazione eucaristica. Non si sa però quando sia nato a Roma l'uso del fermentum, che viene descritto ampiamente da papa Innocenzo I (ep. 25, 5, in P.L., XX, coll. 556 s.). M. morì il 10 gennaio del 314 e venne inumato nel cimitero di Callisto, sulla via Appia (Depositio episcoporum, Martyrologium Hieronymianum e Martyrologium di Beda), anche se nel Catalogo Liberiano si legge la data dell'11 gennaio ("III id. ianuarii", forse per la caduta di una cifra, invece di "IIII id. ianuarii"). Inoltre il Martyrologium Hieronymianum data anche al 2 luglio la depositio, che in realtà deve leggersi ordinatio. Il Liber pontificalis invece indica la data del 10 dicembre, ma aggiunge che si ebbe una vacanza episcopale di 16 giorni (I, p. 168) e che papa Silvestro fu eletto (p. 170) il 31 gennaio. Non c'è epigramma damasiano per papa M., anche se qualcuno vede un'allusione nel v. 5 di un epigramma edito da A. Ferrua (Epigrammata Damasiana, Città del Vaticano 1942, nr. 16, p. 122). La notizia del seppellimento nel cimitero di Callisto viene confermata dagli itineraria medievali. La sua tomba non è stata tuttavia identificata. Nel sec. IX il suo corpo venne trasferito da papa Pasquale I a S. Prassede. Nel Martyrologium Romanum M. viene commemorato al 10 dicembre, secondo la falsa indicazione del Liber pontificalis; questa data, scartata da Beda per le antiche testimonianze, viene invece ripresa dal Martyrologium di Adone, aggiungendo, senza riscontro in altre fonti antiche, che M. aveva sofferto la persecuzione sotto Massimiano. Fonti e Bibl.: Le Liber pontificalis, a cura di L. 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