FRANCESCODe Geronimo, santo
Nacque a Grottaglie, nei pressi di Taranto, il 17 dic. 1642, primo degli undici figli di Giovanni Leonardo De Geronimo, proprietario terriero titolare di una conceria, e di Gentilesca di Gravina.
La famiglia di F. viveva nobiliter e contava propri esponenti nelle maggiori cariche cittadine. Il padre, desideroso che i suoi figli ricevessero un'istruzione e che tra loro vi fosse il futuro arciprete di Grottaglie, tra il 1652 e il 1653 affidò il primogenito ad una congregazione di preti secolari seguaci della spiritualità teatina e dediti alle missioni rurali, che in paese officiava la chiesa di S. Mattia.
Qui F. ricevette un'istruzione elementare e coltivò, come chierichetto e sacrestano, la sua futura vocazione. Avuta la prima tonsura a sedici anni, nel 1659 si recò a studiare a Taranto, nel collegio dei gesuiti, dove, per la prima volta nella sua vita, portò a termine corsi regolari di retorica, letteratura e filosofia, al termine dei quali, tra la fine del 1664 e l'inizio del 1665, fu ordinato suddiacono e diacono.
In quello stesso anno partì per Napoli, desideroso di arrivare al sacerdozio con una laurea, insieme con il fratello minore Giuseppe Maria, anch'egli ex alunno dei preti di S. Mattia che, portato alla pittura, i genitori volevano mandare a bottega da un artista di fama.
I primi tempi del soggiorno napoletano restano in parte oscuri. Sembra che F. si sia dapprima orientato a studiare diritto canonico e civile nell'università, tra il 1665 e il 1666, senza però conseguire la laurea, e che abbia seguito, insieme con il fratello, delle lezioni di pittura, o almeno di disegno, i cui frutti sono visibili nei raffinati ornamenti calligrafici che accompagnano alcune sue lettere. A Napoli comunque maturò la scelta di entrare nella Compagnia di Gesù.
Nel 1666 riuscì ad ottenere, sebbene fosse ancora un diacono secolare e non un sacerdote come prescritto, il posto di prefetto del collegio dei nobili, che gli garantiva uno stipendio per mantenersi durante gli studi di teologia, cominciati contemporaneamente presso il collegio Massimo. Già il 20 marzo però a Pozzuoli, per quanto avesse appena iniziato lo studio della materia, venne ordinato sacerdote dal vescovo B. Sanchez de Herrera, regolarizzando così la sua posizione nel collegio. Per diventare gesuita dovette attendere ancora e scontrarsi con l'opposizione del padre, il quale reputava F. adatto alla vita da prete a Grottaglie, che gli avrebbe conferito una certa autorità, ma non a quella di religioso, dove, pensava, non avrebbe potuto emergere. Il 1° luglio 1670 F. entrò infine nel noviziato della Compagnia, dieci giorni dopo l'ingresso del fratello Giuseppe, già membro della corporazione dei pittori.
Alle soglie dell'ultimo anno di teologia, nel 1672, F. interruppe nuovamente gli studi perché fu inviato nel collegio di Lecce, come assegnato alle missioni in Terra d'Otranto e di Bari. L'incarico rispondeva al suo desiderio di essere mandato in una missione estera ed egli contava di compiere in Puglia, aiutato dal compagno e amico A. Bruni, una specie di noviziato missionario.
Il biennio 1672-73 segnò invece il primo incontro con il mondo delle missioni popolari in patria, che sarà il suo ministero principale per tutta la vita.
Nelle prime predicazioni di F. già emergono i temi caratteristici del suo insegnamento: la condanna dell'ipocrisia, il pressante invito alla conversione dai peccati, la minaccia del giudizio divino preannunciato dai castighi di Dio, vale a dire la carestia, le epidemie ed i Turchi. La pedagogia, quindi, di una religione punitiva, tale da destare negli ascoltatori il senso del peccato (espiabile attraverso la penitenza e la preghiera), una dottrina incentrata più su di un rigido codice morale che sui contenuti teologici della fede cristiana, conforme ai canoni delle missioni popolari gesuitiche nell'Italia meridionale. Ma insieme con ciò, F. suscitò da subito l'interesse dei fedeli per la sua oratoria priva di barocchismi e comprensibile alle orecchie popolari.
L'incarico leccese ebbe comunque breve durata. Il 2 luglio 1672 F. emise i tre voti e nell'estate del 1674 venne richiamato a Napoli dal provinciale A. Del Pozzo per portare a termine gli studi teologici e preparare l'esame di laurea, dedicando però le domeniche ed i giorni di festa alle missioni popolari cittadine. Completato finalmente il cursus studiorum, il 25 maggio 1675 F. chiese ufficialmente di partire per le missioni estere, ottenendo la risposta di "trovar l'India nell'Italia stessa". Nondimeno, rinnovò questo desiderio quattro volte e la domanda venne tenuta in sospeso, perché in quel periodo pareva prossima una riapertura delle frontiere del Giappone ai missionari, finché nel febbraio 1678, dileguatasi questa possibilità e ormai, a trentasei anni, reputato di età troppo avanzata e già affermatosi come predicatore, F. accettò la nomina ufficiale a "missionario di Napoli" e la residenza nella casa professa accanto alla chiesa del Gesù Nuovo. Egli tuttavia non tardò a parificare la missione nelle Indie con quella napoletana, fino ad ammettere, come si evince da una sua frequente invocazione a s. Francesco Saverio, che nella capitale "alcuni stanno peggio di quell'indiani ai quali predicasti".
Al 1678 rimontano, insieme con la nomina a missionario, anche i primi appunti sul numero dei propri penitenti e la tipologia dei loro peccati, schematicamente e sommariamente aggiornati poi, anno dopo anno, e infine riuniti in sette brevi relazioni, quattro quinterni scritti per obbedienza ai superiori, che formano la sua principale opera edita (pubblicata da G. Boero in S. F. di Girolamo e le sue missioni dentro e fuori Napoli, Firenze 1882, pp. 67-181).
Le Brevi notizie delle cose di gloria di Dio accadute negli esercizi delle sacre missioni di Napoli da quindici anni in qua, quanto si è potuto richiamare in memoria, Alcune piccole notizie della santa missione di Napoli, le Missioni nelle galere, la Comunione generale, l'Oratorio, gli Esercizi spirituali e le Missioni per li casali, compendiano l'attività pastorale di F.: nel primo scritto egli riassume le vicende della sua missione napoletana tra il 1680 e il 1689, nel secondo si sofferma su casi particolari relativi al 1693, dal terzo al sesto - sono narrazioni di sole cinque pagine ciascuna - descrive gli effetti dei suoi principali strumenti di apostolato e nell'ultimo espone, senza riferimenti cronologici, le vicende delle proprie tredici missioni in diverse località del contado di Napoli. Da queste brevi note, redatte con distacco in terza persona, emergono gli scopi dell'attività di F. a Napoli: la missione popolare propriamente detta, in primo luogo, che F. svolgeva "per le piazze principali… e strade pubbliche", particolarmente "pei quartieri scandalosi di donne meretrici", tesa ad invitare gli ascoltatori alla penitenza e alla "Comunione generale che si suole fare la terza Domenica di ciascheduno mese"; quindi "incontri con brevi sermoncini per le pubbliche strade" e "il formare la congregazione degli artisti, detta della missione, per valersene, oltre all'utile della loro anima, in profitto anche dell'altrui in aiutando la missione" (D'Aria, 1943, pp. 132 ss.).
Entrambe le istituzioni, missione e congregazione di artigiani, erano preesistenti a F., ma fu lui a rafforzarle portandole al loro massimo sviluppo. Convinto di vivere in un tempo di eresie, frequentazione solo formale dei sacramenti e vizio, egli si preoccupò di fare della congregazione, che chiamava anche "oratorio", un organismo sempre aperto a nuovi aderenti ma in cui scattasse subito la cancellazione per gli assenti ingiustificati alle riunioni. Formò così una base di circa duecento iscritti, da cui trasse settantadue (in memoria dei settantadue discepoli di Cristo) membri di provata fedeltà che fece entrare nella "congregatione secreta", riservata ai migliori ed ambita perché ai congregati spettavano i frutti di un luogo di Monte, che garantiva loro un sussidio in caso di malattia e la spesa per le esequie in quello di morte, con diritto di sepoltura nel Gesù Nuovo. Principali aiutanti di F. furono suo fratello Cataldo e Carmine Diamante, un "mastro stagnaro" nominato "custode dell'olio di s. Ciro". Accanto a costoro, una variegata folla di popolo napoletano, ritratta dalle disposizioni rese al processo di beatificazione, che F. s'industriava di soccorrere con le elemosine ottenute dalle persone facoltose.
Di carattere umile e bonario, al confessionale "né rigido né benigno", F. era severo nei confronti di due categorie di persone: le prostitute e le attrici della commedia dell'arte. Gli aneddoti in proposito sono numerosi: è certo che contro i commedianti di piazza di Castelnuovo egli, se non bastavano le prediche davanti ai palcoscenici per impedire le esibizioni delle donne, ricorse a denunce di concubinaggio alle autorità civili, accompagnate però dalla richiesta di non eccedere con le pene. Così pure, andava a recitare i suoi sermoni sotto le finestre delle case abitate da prostitute nei quartieri spagnoli (soprattutto nelle feste infrasettimanali e nel periodo carnevalizio), sistemando le penitenti con un matrimonio o un posto ai conservatori di S. Maria del Presidio o presso gli Incurabili. L'elevata dimensione di quest'ultimo fenomeno a Napoli lo indurrà, verso il 1692, a fondare una congregazione mariana, molto simile a quella maschile per le missioni, destinata alle donne dei conservatori e alle religiose che le accudivano. Periodicamente curava anche missioni rivolte ad altri ceti sociali, ai soldati della guarnigione, agli schiavi, e sermoni particolari nelle più importanti ricorrenze o nelle pubbliche calamità, come il terremoto del 5 giugno 1688.
Il F. era assai devoto alla Madonna (ideò uno stendardo ed un inno mariano per la sua congregazione), a Gesù Eucarestia e soprattutto a s. Ciro, in cui vedeva il modello di santità cui ispirarsi, cioè la capacità di curare i mali del corpo come quelli dello spirito. Egli si fece apostolo della diffusione del culto di questo santo a Napoli e nell'Italia del Sud, cercando di ricondurre all'intercessione del medico martire e ai poteri delle sue reliquie una fama di taumaturgo e dispensatore di grazie, che crebbe ben presto intorno a sé, arrivando, secondo la testimonianza del nunzio G.A. Vicentini, al numero di diecimila grazie a lui attribuite. La fama del santo si diffuse parallelamente a quella del suo diffusore: nel 1700 F. introdusse il culto di s. Ciro a Portici, nel 1703-1705 in Abruzzo (dove ottenne che gli Aquilani lo eleggessero a loro patrono), nel 1707 e 1708, in concomitanza con l'entrata degli Imperiali a Napoli, nella sua città natale e nel 1712 e 1713 a Barletta ed Andria. Sebbene sempre residente a Napoli, F. ripetutamente lasciò la città per brevi missioni popolari nella campagne, attività che amava pur dovendo ammettere che "in dieci anni non farebbe mai per tutta la provincia tanto, quanto si fa a Napoli in un anno" (Boero, p. 106).
Solo dopo aver trascorso dodici anni di una tale vita religiosa nella Compagnia, F. ebbe il permesso di compiere la professione solenne, nel Gesù Nuovo, l'8 dic. 1682, nelle mani del generale Ch. de Noyelle. Seguirono altri trentaquattro intensi anni di lavoro missionario, che lo resero un personaggio popolarissimo: lo spettacolo delle sue uscite domenicali dal Gesù Nuovo a capo della schiera di congregati che lo accompagnavano alla missione divenne familiare ai Napoletani, come le adunate di penitenti in attesa della confessione individuale (egli contava solo i peccatori più incalliti che chiedevano di confessarsi da lui, circa quattrocento all'anno), preceduta non di rado dalla disciplina collettiva.
Alla morte di F., l'11 maggio 1716 a Napoli, la salma dovette essere sepolta di nascosto nottetempo per fuggire la pressione della folla che fece a pezzi il suo confessionale per ricavarne reliquie mentre già da tempo circolavano in città stampe e ritratti di F., considerati miracolosi ed appesi nei confessionali e nelle pubbliche vie.
È complesso valutare l'efficacia dell'apostolato missionario di Francesco De Geronimo. Alfonso de' Liguori (il cui destino di santo fu profetizzato da F. alla madre) noterà che, pur dopo le migliaia di conversioni attribuite al gesuita pugliese, egli si trovava a contatto di una plebe in nulla cambiata rispetto alle condizioni della generazione precedente. In effetti, le missioni popolari dei gesuiti commuovevano gli ascoltatori per il breve periodo della permanenza dei religiosi, ma partiti costoro, restavano immutate le condizioni che determinavano tanto la loro povertà e ignoranza, quanto i peccati.
F. interpretò al massimo livello la pastorale gesuitica di differenziazione dei tempi e delle modalità di approccio ai fedeli, secondo la loro condizione, mosso da un sincero desiderio di farsi comprendere e non badando al gusto oratorio del tempo (stilisticamente, infatti, le sue prediche vennero ritenute dai suoi confratelli inferiori a quelle di altri padri e perciò mai pubblicate). Proprio questo suo scendere al livello popolare, d'altra parte, lo coinvolse in qualche equivoco tra magia e miracoli, fede e superstizione. F. scontava del resto i limiti della sua epoca e delle dottrine del suo Ordine religioso, tesi al rafforzamento delle pratiche di culto più che all'elevazione degli individui. Resta però innegabile l'adesione popolare alle iniziative di F., che non può essere confuso né con i predicatori suoi contemporanei, né con i molti epigoni che riuscirono ad imitare il suo stile, ma non la sua santità di vita.
Appena due anni dopo la morte iniziò il processo per accertare l'eroicità delle virtù di F., che si protrasse fino al 1740. La proclamazione di questa avvenne, da parte di Benedetto XIV, nel 1758. Le vicende legate alla soppressione dei gesuiti interruppero l'iter verso la canonizzazione, ripreso su istanza dello stesso Ferdinando IV di Borbone, ancor prima della ricostituzione della Compagnia. Beatificato il 2 maggio 1806, in luglio le sue spoglie vennero portate a Roma. Tornate a Napoli nel 1822, finalmente il 26 maggio 1839 Gregorio XVI proclamò F. santo, insieme con il Liguori e Veronica Giuliani.
Intanto, anche se già dal 1830 era iniziata in Grottaglie la costruzione di un santuario in suo onore, il corpo di F. rimase per lungo tempo a Napoli, in una cappella del Gesù Nuovo a lui dedicata ed arricchita, l'11 febbr. 1932, da un grande gruppo marmoreo dello scultore F. Jerace raffigurante il santo tra una penitente, un ragazzo, un'orfana ed un galeotto. Solo al termine delle seconda guerra mondiale le spoglie vennero trasportate, il 16 sett. 1945, nel santuario di Grottaglie, meta di pellegrinaggi.
Fonti e Bibl.: La vita del F. si presta ad essere narrata per la grande ricchezza di aneddoti popolari e prodigi, che formano però anche il limite di gran parte della sua copiosa bibliografia (un catalogo completo in Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, a cura di Ch. Sommervogel, I, V, VII, IX, X, XI, Bruxelles-Paris 1890-1932, ad Indicem, e L. Polgár, Bibliographie sur l'histoire de la Compagnie de Jésus, 1901-1980, III, Roma 1990, pp. 563-565).
Il primo biografo del F. fu il fiammingo K. Begrup, in una Vita stampata ad Anversa nel 1717, mentre di maggior mole sono le opere dei tre storici suoi contemporanei, S. Bagnati (1725), C. De Bonis (1734) e C. Stradiotti (1719), le cui opere appartengono però ad un filone agiografico ormai superato, come i successivi lavori di L. Degli Oddi (1761) e A. Muzzarelli. Di diverso spessore la biografia di F.M. D'Aria, che nella Napoli del dopoguerra cercò di far rivivere l'apostolato di "restauratore sociale" del santo, anch'essa di carattere agiografico ma costruita sui documenti di archivio (Un restauratore sociale.…, I, Roma 1943). Purtroppo il D'Aria, come già F. Canger (a cura del quale sono state pubblicate le Massime spirituali di s. F. Di G., Firenze 1891) e G. Boero, non riuscì a pubblicare, in un progettato secondo volume, le lettere e i molti appunti di prediche lasciati dal santo in vari archivi della Compagnia di Gesù (inventario in F.M. D'Aria, S. F. De G. oratore sacro, in La Civiltà cattolica, XCIII [1942], 2133, p. 8). Si tratta di materiale in forma di schemi e appunti sparsi, bastanti per ricostruire la divisione delle parti dei suoi discorsi (esordio, prove dell'assunto, testimonianze della Scrittura e dei Padri), ma non il loro calore, che oggi sembrano falsare la reale immagine del santo accentuandone gli elementi più superati della predicazione popolare.
Più in dettaglio, sulla figura e le attività di F., si veda ancora: Roma, Arch. Rom. Soc. Iesu, Postulazione generale, nn. 212-239; Acta canonizationis b. Francisci de Hieronymo, I-IV, Romae 1767-1835; M. Volpe, I gesuiti nel Napoletano, I, Napoli 1914, pp. 10, 13; B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, s. 2, Bari 1927, pp. 118, 121; F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnola nel Cinque e Seicento, Napoli 1934, pp. 330-334; G. Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, Lecce 1941, pp. 52, 74, 76, 84; F.M. D'Aria, La famiglia di s. F. de G., in Rinascita salentina, X, (1942), pp. 78-90; Id., Un restauratore sociale. Storia critica di s. F. De G. Da documenti inediti, I, Roma 1943; Un amico del popolo, s. F. De G., Napoli 1945; R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna, 1656-1799, Napoli 1971, ad Indicem; Id., Pittura e controriforma a Napoli, Bari 1983, ad Indicem; M. Corcione, La storia e la città di s. F. De G., Napoli 1982; P. Lopez, Clero, eresia e magia nella Napoli del Viceregno, Napoli 1984, p. 174; R. Colapietra, Spiritualità, coscienza civile e mentalità collettiva nella storia dell'Aquila, L'Aquila 1984, p. 511; R. Quaranta - S. Trevisani, Grottaglie, Grottaglie 1986, ad Indicem; A. Guidetti, Le missioni popolari. I grandi gesuiti italiani, Milano 1988, ad Ind.; E. Novi Chavarria, Pastorale e devozioni nel XVI e XVII secolo, in Storia del Mezzogiorno, IX, Napoli 1991, pp. 378, 394, 401; E. Papa, F. De G., in Bibliotheca sanctorum, V, Romae 1964, coll. 1201-1204.