VINCENZA GEROSA, santa
VINCENZA GEROSA, santa. – Nacque il 29 ottobre 1784 a Lovere (Bergamo) da Gianantonio e da Giacomina Macario, primogenita di altre tre sorelle.
Fu battezzata il 31 ottobre nella chiesa di S. Giorgio con i nomi di Caterina, Maria e Francesca. La famiglia era benestante sia per i possedimenti terrieri sia per il commercio e la concia di pellami, e molto stimata in paese, anche per la frugalità e la modestia nello stile di vita e la carità elargita ai medicanti. Delle tre sorelle di Caterina, la prima morì a tre anni, la seconda, Francesca, morì a diciassette anni, poco dopo la morte del padre, e la terza, Rosa, fu l’unica a esserle compagna. Nella casa in cui crebbe Caterina vivevano anche i fratelli del padre, Ambrogio, Salvatore e Luigi, e due sorelle, Maria e Bartolomea. Si può ipotizzare, a causa della mancanza di dati archivistici, che Caterina ricevette tardi la comunione e la cresima, come era uso per le bambine al tempo. Non ricevette educazione alle scuole elementari, che non c’erano in paese. Venne affidata solo per un breve periodo a un istituto religioso di Gandino (Bergamo) per l’istruzione, ma quando fu costretta a rientrare a casa per malattia, non fu più rimandata. Apprese dal padre e dagli zii a far di conto e a leggere e scrivere, cose che le vennero insegnate per renderla capace di seguire gli affari di famiglia. Infatti, venne messa a lavorare fin da bambina non solo alle faccende di casa e ai lavori agricoli, ma anche come garzona al banco del negozio. Lo zio Ambrogio, il capo effettivo della famiglia patriarcale allargata di Caterina, sembrò prediligerla e la scelse come sua segretaria. Il padre e la madre vennero invece progressivamente emarginati e rimproverati per la loro inettitudine alle attività commerciali, in un clima di crescente ostilità familiare.
Secondo le fonti agiografiche, nonostante l’impegno lavorativo, Caterina riuscì comunque a trovare il tempo per la preghiera, la meditazione e il disciplinamento del proprio corpo (anche con cilici e flagelli). Fu la madre, descritta come donna pia e devota, a ispirarla a una vita condotta cristianamente (comunione giornaliera, nonostante non fosse una pratica comune al tempo, frequenza alle messe e alla recita del rosario, frugalità nel cibo e nei vestiti, mortificazione del corpo, carità verso i poveri). È in questo periodo di giovinezza che Caterina abbracciò l’idea di non sposarsi, ma piuttosto di consacrarsi a Dio come s. Agnese.
Quando Caterina compì diciassette anni il padre si ammalò gravemente e morì in poco tempo. I parenti paterni – in particolar modo sembrò per il volere della zia Bartolomea – cacciarono la madre di Caterina da casa e intimarono alle due figlie di interrompere ogni contatto. Le due giovani seguirono il consiglio del prevosto Rusticiano Barboglio, che fu parroco di Lovere dal 1802 al 1840 e che ebbe molta influenza sulla successiva vita religiosa di Caterina, di piegarsi alla volontà degli zii paterni e dunque, di non seguire la madre, per non perdere il sostentamento e i diritti all’eredità. Cominciò così una fase di difficile convivenza a casa degli zii paterni. Il periodo di allontanamento dalla madre durò per più di dieci anni e fu interrotto solo quando alle figlie fu concesso di vederla in fin di vita il 7 febbraio 1814. Il giorno seguente morì.
Tra il 1814 e il 1815 la provincia di Bergamo fu zona di operazioni militari francesi e austriache, a seguito delle guerre napoleoniche, prima che Lovere passasse al Regno Lombardo-Veneto. Il paese fu colpito da carestia, seguita da epidemie di vaiolo e tifo. Caterina in quell’anno intensificò le sue opere di carità verso i malati e gli indigenti, guadagnandosi l’appellativo di ‘siura’, la ‘signora’ dei poveri. Cominciò inoltre a interessarsi al supporto delle giovani del paese che «apparivano poco serie, punto timorate di Dio, affascinate dagli affetti del mondo» (La beata Vincenza Gerosa, 1933, p. 26).
Nel 1816 un religioso missionario degli operai, Leonardo da Bergamo, propose a Caterina di entrare nell’istituto delle Figlie della carità canossiane, ma ella, dopo un anno di preghiera e dietro consiglio del confessore, rifiutò.
Gli inizi degli anni Venti del 1800 furono segnati da lutti, ma anche da un attivo apostolato cristiano. Il 17 marzo 1822 morì la zia Maria e il 29 maggio 1822 lo zio Ambrogio, che lasciò il patrimonio in eredità al fratello Luigi, alla sorella Bartolomea e alle due nipoti Caterina e Rosa. Nel 1824 morì anche lo zio Luigi e tutte le proprietà passarono in eredità alle due sorelle, in usufrutto alla zia Bartolomea. Dopo la perdita di quasi tutti i parenti, il negozio e parte delle attività commerciali della famiglia vennero chiuse, lasciando Caterina libera di dedicarsi più liberamente alle sue attività caritatevoli. Tra il 1821 e il 1822 fu incoraggiata dal sacerdote Barboglio e dal suo coadiutore don Angelo Bosio a organizzare in parrocchia la Congregazione mariana. Così, a sue spese, Caterina istituì le Figlie di Maria e con esse un piccolo centro spirituale parrocchiale. Fu qui che qualche tempo dopo arrivò Maria Bartolomea Capitanio (1807-1833), da poco uscita dal collegio delle clarisse di Lovere con le competenze per l’insegnamento. Le due divennero presto collaboratrici.
Stando alle fonti agiografiche, le doti organizzative di Bartolomea e il suo spirito intraprendente si armonizzarono con il carattere più riservato e pacato di Caterina, creando una relazione amicale equilibrata e fruttuosa, nonostante la notevole differenza di età.
Insieme a Barboglio e Bosio Caterina e Bartolomea organizzarono un oratorio parrocchiale, che presto Caterina lasciò dirigere a Bartolomea, mentre ella si riservava il compito di infermiera presso lo stesso oratorio. Caterina si impegnò inoltre nella costruzione di un ospedale dedicato ai malati poveri, al quale lo zio Ambrogio aveva legato parte dell’eredità – dietro consiglio di Caterina, infatti, lo zio aveva lasciato in testamento una casa con orto perché fosse trasformata in ospedale dopo la morte di Caterina e Rosa, le quali in vita dovevano goderne l’usufrutto. Morto lo zio, le due sorelle però rinunciarono all’usufrutto e l’11 novembre 1823 Caterina firmò l’atto di cessione. Il 1° novembre 1826 venne inaugurato l’ospedale dei cronici e degli infermi per i poveri di Lovere. Bartolomea ne fu nominata direttrice. Poco dopo un’altra grave perdita scosse nuovamente Caterina: la sorella Rosa si ammalò e morì, lasciandola sola con la zia Bartolomea, che però si era molto «irrigidita nell’asprezza del carattere» (La beata Vincenza Gerosa, 1933, p. 36).
L’ospedale doveva essere il primo fondamento di un’opera religiosa più vasta ideata da Bartolomea e appoggiata dagli ecclesiastici locali, ovvero un istituto che doveva unire vita contemplativa e vita attiva, aperta ai nuovi bisogni dei tempi. Bartolomea persuase Caterina a unirsi a lei nello sforzo della nuova fondazione, sia per la sua santità di vita e le sue qualità professionali sia perché disponeva dei mezzi per aiutarla. Infatti, con le sostanze di Caterina e quelle più modeste di Bartolomea, venne comprata una casa vicino all’ospedale (22 marzo 1832), detta Gaia dal nome del proprietario precedente, che servì da luogo di partenza per il nuovo istituto religioso. L’abitazione venne presto ribattezzata dai locali ‘conventino’.
Anche se Bartolomea aveva già abbozzato le regole del nuovo istituto che doveva essere dedicato a Gesù Redentore, gli ecclesiastici coinvolti nel progetto consigliarono piuttosto di adottare una regola comunitaria già in vigore, considerato soprattutto il fatto che Lovere si trovava sotto regime austriaco, restio a promuovere nuove forme religiose. Si decise così di prendere ‘a prestito’ le regole delle Figlie della carità di Giovanna Antida Thouret, ispirate a s. Vincenzo de’ Paoli, presenti a Vercelli presso l’ospedale di S. Andrea (1832). Opportunamente ritoccate, le regole vincenziane furono applicate al nuovo istituto, che in questa prima fase tenne conto anche delle idee scritte da Bartolomea in un promemoria. In un primo momento sembra che Caterina fu incerta se proseguire nell’opera soprattutto a causa dei dubbi che nutriva sulle sue capacità di seguire le regole di una comunità religiosa. Inoltre, la zia Bartolomea avversò il progetto fin dal principio, preoccupata di salvaguardare l’eredità familiare. Di lì a poco, infatti, chiese la divisione di ogni bene e si allontanò dalla nipote, fino a poco prima della sua morte, avvenuta il 10 maggio 1843. Dissipata ogni incertezza, Caterina si consacrò il 21 novembre 1832, prendendo i voti di povertà, castità, obbedienza e carità verso il prossimo insieme a Bartolomea. La casa Gaia apriva le porte come scuola gratuita per le figlie della popolazione locale, come orfanotrofio e come centro di assistenza a quanti cercassero aiuto morale e materiale. Il 22 giugno 1833 Bartolomea e Caterina stilarono l’atto civile costitutivo dell’associazione, in attesa di creare il vero e proprio istituto religioso (l’atto di erezione dell’istituto da parte delle autorità governative austriache arrivò il 14 aprile 1834).
Inaspettatamente però Bartolomea, minata dalla tisi, morì di bronchite il 26 luglio 1833, lasciando Caterina sola con la neonata opera (a quel punto vi era solo una postulante che si era unita a loro, Maddalena Giudici). Supportata da Barboglio e Bosio, rispettivamente nominati superiore ecclesiastico e direttore spirituale, Caterina decise di proseguire. A seguito della cerimonia di vestizione, che venne introdotta nel novembre del 1835, Caterina assunse il nome di suor Maria Vincenza, in onore del patrono dell’istituto, Vincenzo de’ Paoli. Il 18 maggio 1836 venne eletta superiora della comunità.
Nel 1836 scoppiò il colera a Lovere e Vincenza e le altre religiose furono in prima fila nel soccorrere malati e morenti. La fama del neonato istituto si diffuse così nelle aree geografiche limitrofe. Se l’istituto aveva utilizzato fino ad allora le regole delle suore di Vercelli, legate alla casa di Besançon di Antida Thouret, continuare il legame, seppur più di nome che di fatto, con una casa religiosa francese divenne politicamente impraticabile. Vincenza dovette chiedere ufficialmente di poter seguire le regole vincenziane, ma indipendentemente da Besançon. Il 30 settembre 1839 giunse l’approvazione pontificia. Il 5 giugno 1840 il breve Multa inter pia, firmato da Gregorio XVI, esonerò il sodalizio religioso dalla dipendenza dalla congregazione di Antida Thouret, autorizzando così la costituzione di un istituto autonomo, l’istituto delle suore della carità. Il 20 febbraio 1841 il governo austriaco ratificò il breve papale. Il 14 settembre 1841 vi fu la formale erezione canonica della congregazione con solenne cerimonia.
Le suore della carità, sotto la guida di Vincenza, incrementarono la loro presenza nella regione tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. A Bergamo, oltre agli stabilimenti di S. Chiara per orfane e ‘pericolanti’ (21 maggio 1837), delle convertite per nobili decadute (1° giugno 1838) e del conventino di Treviglio per fanciulle abbandonate (3 dicembre 1839), le suore si occuparono anche dell’ospedale civile (5 giugno 1840) e del ricovero (10 dicembre 1840). Nel 1842 esse vennero richieste anche dall’ospedale di Ciceri, a Milano, inizialmente dedicato alle nobili decadute e alle donne disagiate, fondato dalla contessa Laura Visconti. La chiamata all’ospedale milanese rappresentò per l’istituto religioso un’opportunità sociale, soprattutto perché furono inviate sotto gli auspici di importanti amicizie tra la nobiltà milanese come il marchese Giuseppe Ermes Visconti ed Elisabetta di Savoia-Carignano. In breve tempo Ciceri diventò un secondo centro per le suore di Lovere, dove stabilirono un noviziato (la sede sarebbe diventata la casa generalizia nel 1876). Fu lì che ebbe origine la devozione a Maria Bambina, che divenne successivamente protettrice delle suore di Lovere e che avrebbe dato loro il nuovo nome di suore di Maria bambina dopo il 1950. Nel 1845 l’istituto prese in gestione anche l’ospedale maggiore di Milano (Ca’ Granda) e quello di Legnago (Verona). Si occuparono anche del ricovero di Rovigo. L’origine italiana, oltre a un apostolato attivo, fu un elemento politicamente rilevante per la diffusione delle religiose nel Regno Lombardo-Veneto poiché il governo austriaco mal tollerava le congregazioni francesi che offrivano una missione simile. Inoltre, la prima biografia di Bartolomea Capitanio scritta da Gaetano Scandella e tradotta in tedesco fece ampiamente conoscere l’istituto in territorio tirolese. Nel 1848 le suore della carità gestivano ospedali e ricoveri anche a Rovereto e a Trento.
Quando Vincenza morì a Lovere, il 29 giugno 1847 per idrope, l’istituto contava venticinque comunità dislocate fra Lombardia, Veneto e Tirolo con un totale di 156 suore (Siccardi, 2005, p. 106).
La morte della fondatrice segnò anche l’inizio della sua venerazione come santa. Per tre giorni una folla di persone andò a visitare la salma e il 2 luglio 1847 fu sepolta nel cimitero di Lovere. La sua tomba divenne meta di un pellegrinaggio crescente e su volere di don Bosio fu successivamente spostata nel cimitero del conventino, vicino alla tomba di Bartolomea Capitanio (1858).
Don Bosio che promosse la causa di canonizzazione dapprima di Bartolomea e, successivamente, l’inizio dell’iter processuale di quella di Vincenza. Il 24 luglio 1927 Pio XI riconobbe l’eroicità delle virtù e il 7 maggio 1933 la proclamò beata. La canonizzazione avvenne invece il 18 maggio 1950 insieme a Bartolomea Capitanio (che era stata beatificata il 30 maggio 1926).
Fonti e Bibl.: L.I. Mazza, Vita della Ven. Suor M. V. G. fondatrice seconda delle suore della carità di Lovere, Modena 1910; A. Tamborini, La beata G., Milano 1933; La beata V. G. cofondatrice delle suore di carità. Vita popolare desunta dai processi apostolico e ordinario (con prefazione di S.E. il cardinale Pietro La Fontaine patriarca di Venezia), Venezia 1933; Giandomenico da Milano, Lo spirito della b. V. G., Milano 1934; A. Prevedello, Santa Bartolomea Capitanio, Santa V. G. e la loro opera, Milano 1948; Santa V. G. cofondatrice delle Suore di Carità, Vicenza 1949; A. Stocchetti, Le sante Bartolomea Capitanio e V. G., Vicenza 1950; G. Lubich - P. Lazzarin, V. G., la “siura” della carità, Roma 1982; M. Carraro - A. Mascotti, L’istituto delle sante Bartolomea Capitanio e V. G., I-II, Milano 1987-1996; Bartolomea e Vincenza. Sante nella carità, Milano 2001; C. Siccardi, Santa V. G. “... anche tu fa’ lo stesso”, Cinisello Balsamo 2005.