RUSTICI, Francesco detto il Rustichino
– Nacque a Siena da Vincenzo e da Pompilia Landi e fu battezzato il 20 aprile 1592, padrino il pittore Anselmo Carosi (Bagnoli, 1980, p. 186). Sulla formazione influì senza dubbio l’appartenenza a una famiglia di artisti: oltre al padre, lo furono il nonno, Lorenzo detto il Rustico, gli zii Cristofano Rustici e Alessandro Casolani, il cugino Ilario Casolani, il cognato Antonio Gregori. La madre proveniva da una nobile famiglia senese, sorella di Alfonso Landi, autore, alla metà del secolo XVII, di una dettagliata descrizione del duomo di Siena.
Gli esordi si collocano sotto la guida del padre, con cui, giovanissimo, lavorò inizialmente a stretto fianco e dal quale è talora difficile distinguerlo: si è pensato di riconoscere un suo intervento anche nella Resurrezione di Lazzaro (Siena, S. Francesco, in deposito dalla Pinacoteca nazionale) lasciata incompiuta da Casolani alla morte, nel 1607, e portata a termine dal cognato Vincenzo (Romagnoli, ante 1835, 1976, p. 346; Bagnoli, 1980, p. 185); gli sono stati attribuiti diversi dipinti collocabili allo scadere del primo decennio del Seicento e riferiti dalle fonti ora a lui ora al padre, tra i quali la Madonna con Bambino e santi (Siena, S. Lucia) e la Sacra Famiglia con s. Giovannino (Siena, Banca Monte dei Paschi; Bagnoli, 1988, p. 412).
La prima maniera di Rustici appare improntata ai modi casolaneschi della bottega familiare, non pedissequamente interpretati, ma già con una personale cifra stilistica, aggiornata nel cromatismo dalle sfumature delicate e caratterizzata da una dolcezza di segno, preludio alla resa naturalistica delle prove successive.
Dopo il 1609 può datarsi l’Immacolata con Bambino e angeli per l’oratorio della compagnia di S. Sebastiano in Camollia a Siena. Risalgono all’inizio del secondo decennio numerose altre tele, come la Crocifissione per il convento di S. Egidio a Siena (ora Colle di Val d’Elsa, convento delle Cappuccine), l’Assunta e santi (Siena, S. Pietro in Castelvecchio), la Madonna delle benedizioni (Siena, conservatori femminili riuniti del Refugio).
Sono tutte opere che, oltre alla padronanza della tradizione figurativa senese tardomanierista, filtrata attraverso l’esperienza di Francesco Vanni e di Ventura Salimbeni, mostrano un’apertura alla contemporaneità di Rutilio Manetti, evidente nell’accresciuta attenzione per la solidità strutturale e la semplificazione dei volumi, nella naturalezza degli incarnati, in una più sobria tavolozza.
Rustici appartenne alla compagnia laicale senese di S. Domenico, nella quale è documentato a partire dal 1613, e dove ricoprì negli anni numerose cariche: fu infermiere nel 1613 e nel 1614; impegnato con altri confratelli nella realizzazione degli apparati per la festa del santo nel 1615; maestro dei novizi in quello stesso anno e nel 1617; fra i signori della festa nel 1620; nel 1623 candidato a priore; l’anno successivo, vicario, dipinse lo stendardo giubilare, oggi disperso, e si candidò a camarlengo (Bagnoli, 1980, pp. 186 s.).
Le capacità manifestate nell’ambito della bottega di famiglia ne fecero presto un artista di riconosciuto talento, subito segnalato nelle Considerazioni sulla pittura da Giulio Mancini, secondo il quale «in Siena e in Roma, ancor in giovenil età, ha condotto cose d’artifitio non ordinario né dozzinale» (I, (1617-1621), 1956, p. 212), e da Fabio Chigi nel suo Elenco (1625-1626) delle cose d’arte di Siena. La frequentazione romana ricordata da Mancini potrebbe risalire già al 1615 (Maccherini, 2005, p. 399; 2010, pp. 631, 637); a essa si deve un primo contatto con il naturalismo caravaggesco, ancora però temperato e di superficie.
Lo si può riscontrare in opere che mantengono un impianto compositivo di tipo tradizionale manifestando però una più marcata adesione al reale, circoscritta alla veridicità di alcuni elementi, e una nuova attenzione per il dato luministico nelle ampie zone d’ombra squarciate da inserti in luce, pur senza raggiungere effetti dirompenti e drammatici. Contemporaneamente Rustici non smarrisce l’afflato sentimentale della pittura senese controriformata che, anzi, declina secondo una personale attitudine, in linea con la poetica degli affetti bolognese, recepita soprattutto attraverso il modello di Domenichino.
Ne sono esempio S. Giacinto risana due fanciulli ciechi (Siena, S. Giacinto), datato 1615, i dipinti eseguiti fra il 1616 e il 1617 per l’Opera del duomo di Siena, fra cui gli affreschi con una Decollazione del Battista (Siena, duomo, cappella di S. Giovanni), la pala con il Processo di s. Ansano per S. Ansano in Castelvecchio, e S. Raimondo resuscita una fanciulla (Siena, S. Raimondo al Refugio).
Citazioni dirette dal Martirio di s. Matteo di Caravaggio a S. Luigi dei Francesi a Roma sono evidenti in particolare in Cristo caccia i mercanti dal Tempio (Siena, Banca Monte dei Paschi), nella figura del venditore di colombe e nel giovane che fugge; l’espressività dei volti, la mimica, i gesti, gli atteggiamenti, tradiscono qui la lezione caravaggesca, le cui suggestioni si mantengono comunque a livello superficiale (Bagnoli, 1988, p. 415).
Rustici fu in seguito, a più riprese, nuovamente a Roma: nel 1619, quando realizzò un perduto Lot e le figlie per Giulio Mancini, nel 1620 e nel 1621. È probabile che proprio Mancini, attento nel seguire gli sviluppi dell’attività del pittore, come risulta in più parti del suo carteggio in cui registra il consenso da lui ottenuto («il Rustichino fa romore», scriveva al fratello Deifebo nel 1619), ne avesse favorito l’introduzione negli ambienti romani (Maccherini, 2005, pp. 399, 401; 2010, p. 632, 637).
Reca la data 1619 la tela con S. Carlo Borromeo (Siena, Archivio di Stato) per il questore di Biccherna Giacomo Guidini, riferita alla composizione della magistratura senese in carica dal luglio del 1616 al giugno del 1619. È un’opera che mostra una matura assimilazione delle novità romane di segno caravaggesco senza abbandonare la delicatezza della pittura; la resa luministica è perfezionata: una fonte di luce precisa investe e isola il santo nel buio dello sfondo e trascorre sulle superfici esaltando in particolare il candore della veste.
Tali influenze – ma interpretate nella maniera limpida e addolcita propria di Orazio Gentileschi, secondo un’attitudine che gli avrebbe guadagnato la fama di «gentile caravaggesco» (Lanzi, 1795) – si manifestano nelle opere che aprono il terzo decennio: il Battesimo di Cristo (1621 circa, Siena, Museo dell’Opera del duomo), la Madonna con Bambino e santi (1621-22, Pienza, S. Carlo), le due tele allegoriche con La Pittura e l’Architettura (Firenze, Gallerie degli Uffizi, dalle collezioni di Leopoldo de’ Medici) e con La Sapienza e la Prudenza (Siena, Banca Monte dei Paschi), l’Assunta con i ss. Giorgio e Giacinto (1622, Siena, coll. Chigi Saracini; già in S. Lorenzo).
Pressoché coeva era la perduta tela con le Stimmate di s. Caterina per la compagnia di S. Caterina della Notte a Siena, per la quale ricevette un acconto nel 1621 e il saldo nel 1624, data in cui fu anche ammesso fra i confratelli (Bagnoli, 1980, p. 187).
A partire da quest’epoca si consolidarono i rapporti del pittore con l’ambiente mediceo. Già nel 1621 è citata nell’inventario della Guardaroba granducale una dispersa Purificazione di Maria (Borea, 1970, p. 54). Commissionata dal cardinale Carlo de’ Medici per il casino di S. Marco a Firenze, parte di un ciclo con temi da Ariosto e da Tasso al quale collaborarono diversi artisti, è la tela con Sofronia e Olindo liberati da Clorinda (Firenze, Gallerie degli Uffizi, in deposito alla villa medicea della Petraia), pagata nell’ottobre del 1624 (Fumagalli, 1990, p. 70).
Alla stessa temperie (ma condotto con più ampio respiro) appartiene il grande dipinto con la Fuga di Clelia (ora a Firenze, palazzo Panciatichi).
Nelle eleganti e tornite figure, nel loro ritmico e studiato contrapporsi in una luminosa e aperta ambientazione, essa riecheggia le suggestioni da Gentileschi e soprattutto dal classicismo bolognese, in particolare nelle riprese da Guido Reni, anticipando pure soluzioni di quel filone della pittura fiorentina rappresentato da Cesare Dandini e da Francesco Furini, non senza però mostrare una timida elaborazione del caravaggismo introdotto da Bartolomeo Manfredi e da Gerrit van Honthorst, come sembrano tradire alcune figure più definite in senso chiaroscurale.
L’opera (databile intorno al 1623) proviene dalla villa di Poggio Imperiale, residenza di Maria Maddalena d’Austria, dove si trovava nei locali destinati all’accoglienza di eminenti personaggi, in una linea coerente, dal punto di vista iconografico, con il vasto programma decorativo dell’adiacente appartamento di rappresentanza della granduchessa, che mirava a esaltare le prerogative legate al suo ruolo di reggente (dopo la morte di Cosimo II) attraverso esempi femminili paradigmatici di virtù, e che vide la partecipazione di numerosi artisti. Proprio per una di queste sale, quella dell’Udienza, Rustici realizzò la Morte di Lucrezia (Firenze, Gallerie degli Uffizi), parte di una serie di quattro dipinti con eroine dell’antichità presenti già nell’inventario della villa del 1625, la cui commissione non può farsi risalire a prima della fine del 1623 (Fumagalli, 1990, p. 72). Si è proposto di identificare l’opera con quella – più volte ricordata agli inizi del 1625 nella corrispondenza tra l’ambasciatore fiorentino a Roma Francesco Niccolini e la segreteria granducale – alla quale il pittore stava lavorando per Maria Maddalena d’Austria, dilazionandone la consegna nonostante i solleciti; dalle lettere si ricava inoltre come Niccolini si adoperasse dalla fine dell’anno precedente, su mandato del cardinale Carlo de’ Medici, affinché Rustici, forse già presente in città o in procinto di giungervi (è documentato ancora a Siena nell’agosto 1624), potesse essere ospitato in uno dei palazzi granducali romani (Fumagalli, 1990, p. 73).
A questa fase del percorso dell’artista sono da ricondurre altre tele per la villa di Poggio Imperiale – fra le numerose ricordate negli inventari – come la Maddalena morente (nota in varie repliche, identificata ora con inv. OdA 1911, n. 481 ora con inv. 1890, n. 5667, entrambe nei depositi delle Gallerie degli Uffizi; Borea, 1970, p. 56; Spinelli, 1997, p. 24) e il S. Sebastiano curato dalle pie donne (inv. 1890, n. 3825; pure in più redazioni, a partire da quella della Galleria Borghese a Roma), lievemente più tardo (Spinelli, 1997, pp. 24 s.).
L’ambientazione notturna di questo gruppo di opere, contraddistinte da un luminismo fortemente contrastato, a tratti teatrale, mostra la propensione per gli effetti del caravaggismo a lume di candela divulgato da Honthorst, che già aveva riscosso notevole fortuna presso la corte medicea, e che Rustici poté perfezionare e approfondire nell’ambiente romano, nel momento di massima diffusione di questo genere. In particolare la Morte di Lucrezia ne segna l’avvenuta e piena adesione, caratterizzandosi per il passaggio a una generale intonazione terrosa che abbassa il cromatismo, nell’intento di marcare ed esaltare i chiari e gli scuri.
A Roma Rustici ebbe anche l’occasione di realizzare un dipinto per un ciclo di nove raffigurante le principali cerimonie pontificie, in onore di Urbano VIII (gli altri artisti furono Agostino Ciampelli, Baccio Ciarpi, Pietro da Cortona, Giovanni da San Giovanni, Giovanni Lanfranco, Astolfo Petrazzi, Agostino Tassi). La serie, voluta dal segretario di Stato del papa, il fiorentino Lorenzo Magalotti, probabilmente in seguito alla nomina a cardinale nell’ottobre 1624, è da collocarsi entro il 1625. Giunte in Spagna dopo la sua morte, le opere, ricordate nell’Alcazar di Madrid a partire dal 1666, andarono in parte perdute nell’incendio del 1743, e in parte, successivamente, disperse. La tela di Rustici raffigurava il rito della lavanda dei piedi del Giovedì santo ed è quasi certamente identificabile con quella d’identico soggetto citata da Isidoro Ugurgieri Azzolini e riferita da Ettore Romagnoli al 1624 (ante 1835, 1976, pp. 351, 398; Fumagalli, 2004, p. 61).
L’appoggio granducale nei confronti dell’artista si espresse anche (come si trae da una lettera di Magalotti del marzo 1625) nel tentativo da parte di Maria Maddalena d’Austria di influire, attraverso lo stesso cardinale, presso i Barberini per l’assegnazione di una delle pale dei nuovi altari di S. Pietro a Roma, mai eseguita (Fumagalli, 1990, p. 80; Id., 2004, p. 61). La familiarità di Rustici con Magalotti, per il quale eseguì altre tele di cui si ha notizia, è testimoniata ancora dalla lettera scritta dal cardinale al padre Vincenzo alla morte del pittore (Fumagalli, 1990, p. 74).
Gli stati d’anime della parrocchia di S. Lorenzo in Damaso a Roma, compilati in occasione del censimento pasquale del 1625, attestano che Rustici abitava in vicolo delle Stalle, nella casa di Girolamo Tantucci, vescovo di Grosseto (Roma, Archivio storico del Vicariato, Parrocchia di S. Lorenzo in Damaso, Stato delle anime 64, c. 31rv; Sani, 1997, pp. 434, 457): con lui viveva l’incisore Orazio Brunetti, autore di un cospicuo numero di stampe su disegno di Rustici, in gran parte allegorie per tesi, che testimoniano la feconda collaborazione tra i due, in una sorta di sodalizio. Un dipinto con S. Agnese (Roma, coll. Giuseppe Resca), di cui s’ignora la provenienza, è replicato, in controparte con varianti minime, in un bulino di Brunetti (Serafinelli, 2015, pp. 46 s.); la tela è verosimilmente da mettere in relazione con l’ambasciatore fiorentino adoperatosi per il soggiorno romano di Rustici, come suggerisce – a testimoniare l’intreccio di contatti e rapporti – la presenza sulla stampa di una dedica dell’incisore alla moglie di lui, Caterina Riccardi Niccolini (Paliaga, in Francesco Rustici, 2017, p. 320). Il tema fu più volte affrontato dall’artista: si conosce infatti una redazione del dipinto con varianti sostanziali (Roma, coll. privata: ibid.; Ciampolini, in Francesco Rustici, 2017, p. 266), mentre ulteriori versioni erano presenti, insieme ad altre opere del pittore, nelle raccolte di Girolamo Tantucci e del cardinale Magalotti (Fumagalli, 1990, pp. 80 s.; Maccherini, 2010, p. 636).
Brunetti intagliò da Rustici anche il S. Sebastiano curato dalle pie donne nelle due differenti versioni note del soggetto, più volte replicate, di Ekaterinburg (Museo di belle arti) e di Roma (Galleria Borghese).
Nell’ultima fase della vicenda dell’artista si collocano anche la pala con la Madonna con Bambino e i ss. Leone, Francesco, Margherita da Cortona e Nicola di Bari (1625; Cortona, S. Francesco) e l’Annunciazione proveniente dalla cappella della villa di Poggio Imperiale (posteriore al 1625; ora Firenze, S. Michele a Castello).
Diverse testimonianze nei registri della compagnia di S. Domenico a Siena tra la fine del 1625 e l’inizio dell’anno seguente lasciano supporre che l’artista si trovasse ancora fuori; il 19 febbraio 1626 giunsero da Roma ai confratelli alcune reliquie di s. Filippo Neri donate da Rustici secondo un’intenzione espressa l’anno precedente (Bagnoli, 1980, p. 187).
Il 26 aprile di quello stesso anno Rustici, nel frattempo tornato a Siena, fu sepolto nella tomba di famiglia in S. Domenico (Archivio di Stato di Siena, Patrimonio Resti 702, c. 135r; Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, ms. C.III.3, c. 37r; Romagnoli, ante 1835, 1976, p. 352; Bagnoli, 1980, p. 187).
Dopo la sua morte, il padre portò a termine un S. Sebastiano curato dalle pie donne e una Maddalena morente (Siena, Pinacoteca nazionale), ulteriori repliche dei frequentati soggetti di Rustici, donandoli poi alla compagnia di S. Domenico (Bagnoli, 1980, p. 187).
Fonti e Bibl.: G. Mancini, Considerazioni sulla pittura (1617-1621), I-II, a cura di A. Marrucchi - L. Salerno, Roma 1956, ad ind.; F. Chigi, L’elenco delle pitture, sculture e architetture di Siena... (1625-1626), a cura di P. Bacci, in Bullettino senese di storia patria, XLVI (1939), pp. 197-213, 297-337; I. Ugurgieri Azzolini, Le Pompe Sanesi, II, Pistoia 1649, p. 383; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia..., I, Bassano 1795, p. 337; E. Romagnoli, Biografia cronologica de’ bellartisti senesi... (ante 1835), IX, Firenze 1976, pp. 331-402; E. Borea, Caravaggio e i caravaggeschi nelle Gallerie di Firenze (catal.), Firenze 1970, pp. 53-58; A. Bagnoli, F. R., in L’arte a Siena sotto i Medici. 1555-1609 (catal. Siena), a cura di F. Sricchia Santoro, Roma 1980, pp. 185-190; Id., in La sede storica del Monte dei Paschi di Siena..., a cura di F. Gurrieri et al., Siena 1988, pp. 412-420; Id., F. R., in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 1989, pp. 873 s.; E. Fumagalli, Pittori senesi del Seicento e committenza medicea. Nuove date per F. R., in Paragone, XLI (1990), 479-481, pp. 69-82; B. Sani, Il Cinquecento e il Seicento, in G. Chelazzi Dini - A. Angelini - B. Sani, Pittura senese, Milano 1997, pp. 433 s., 457; R. Spinelli, F. R. e Giovan Battista Marmi in palazzo Panciatichi a Firenze, Firenze 1997; E. Fumagalli, Roma 1624: un ciclo di tele in onore di Urbano VIII, in Paragone, LV (2004), 655, pp. 58-78; M. Maccherini, Giulio Mancini. Committenza e commercio di opere d’arte fra Siena e Roma, in Siena e Roma... (catal.), Siena 2005, pp. 393-401; M. Ciampolini, Pittori senesi del Seicento, II, Siena 2010, pp. 666-702 (con bibl. precedente); M. Maccherini, «Un gentile caravaggesco» a Siena: F. R., in I caravaggeschi..., a cura di A. Zuccari, II, Milano 2010, pp. 631-638; G. Serafinelli, Una ‘Santa Agnese’ ritrovata di F. R., in Paragone, LXVI (2015), 785, pp. 45-54; F. R. detto il Rustichino: caravaggesco gentile, a cura di M. Ciampolini - R. Roggeri, in Il buon secolo della pittura senese... (catal., Montepulciano-San Quirico d’Orcia-Pienza), Ospedaletto-Pisa 2017, pp. 235-321 (in partic. M. Ciampolini, F. R. detto il Rustichino, certezze e novità, pp. 257-275; F. Paliaga, pp. 320 s., n. 35).