AZEGLIO, Roberto Taparelli marchese d'
Nacque a Torino il 24 sett. 1790 da Cesare e da Cristina Morozzo di Bianzè. Nel 1800, essendosi la famiglia trasferita a Firenze in conseguenza dell'occupazione francese, egli venne mandato a studiare nel collegio dei Tolomei di Siena. Nel 1808 la famiglia tornò in patria, in seguito alla minacciata espropriazione dei beni degli emigrati da parte del governo francese, e nel 1809, volendo Napoleone che i giovani rampolli delle antiche famiglie patrizie piemontesi fossero assunti al servizio dell'impero, anche l'A. venne chiamato a Parigi, fu nominato uditore di terza classe presso il Consiglio di stato, e aggregato alla sezione delle Finanze. Passò poi all'amministrazione dei Ponti e delle Strade come uditore di seconda classe e nell'autunno 1811 fu inviato a Roma in occasione di una ispezione ai lavori di prosciugamento delle Paludi pontine. Tornato l'anno successivo a Parigi, ricevette la promozione a uditore di prima classe e fu trasferito alla sezione di alta polizia. Nel giugno 1812 gli fu affidata la carica di commissario a Lauenburg sull'Elba. Nel settembre del 1813 otteneva un congedo e si recava a Torino. Colà, il 27 genn. 1814, sposava Costanza Alfieri di Sostegno (1793-1862), donna assai colta e di spiccata personalità, da cui ebbe due figli: Melania (1815-1841), che sposò poi Salvatore Pes di Villamarina e che doveva morire di mal sottile in giovane età, ed Emanuele (1816-1890), che intraprese la carriera diplomatica e con il quale la famiglia si estinse.
Durante i Cento giorni l'A. entrò, volontario, nel reggimento dei Cavalleggeri di Piemonte e partecipò alla campagna del Delfinato, ritornandone con il brevetto di capitano. Terminata la guerra, si ritirò a vita privata, dedicandosi agli studi di storia dell'arte.
Allacciò in quegli anni stretti rapporti con i giovani aristocratici dalle idee più aperte, come Giacinto Provana di Collegno, Guglielmo Moffa di Lisio, Ettore Perrone di San Martino e con lo stesso principe di Carignano.
Durante i moti del '21 l'A. rimase molto vicino a Carlo Alberto: era al suo fianco la sera del 6 marzo, quando Santorre di Santarosa si recò a chiedere l'adesione del principe all'imminente moto, ed era pure con lui il 12 marzo quando Vittorio Emanuele I lo inviò a trattare con gli insorti della cittadella di Torino. Benché dai documenti sinora noti non risulti chiaramente il suo atteggiamento, tutto lascia supporre che l'A., in quelle circostanze, abbia cercato di svolgere una funzione moderatrice, in contrasto con le pressioni dei fautori della costituzione spagnola. Quando si profilò il fallimento dell'insurrezione l'A. ritenne opportuno riparare all'estero con la famiglia. Si trattenne a Ginevra per qualche tempo e passò quindi a Parigi, ove il padre di Costanza, l'ambasciatore sardo Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno, sebbene ostile alle idee della figlia e del genero, acconsentì ad accoglierli nella propria casa.
Benché nei processi istruiti dopo i moti non fossero emerse responsabilità a suo carico, l'A. si trattenne a Parigi sino al 1826, riprendendo con intensità i suoi studi artistici. Colà frequentò la casa di François Gérard, pittore di corte, e strinse amicizia con gli artisti più rinomati come Gros, Delaroche, Gudin, Carle e Horace Vernet, Guérin e particolarmente con Louis Hersent e Robert Lefèvre. Dopo il ritorno in patria continuò a trascorrere il tempo nei suoi studi, e suggerì a Carlo Alberto l'idea di creare una galleria ove fossero esposti al pubblico i tesori artistici raccolti attraverso i secoli dai sovrani di casa Savoia. Il principe, dopo l'ascesa al trono, gli affidò il compito di tradurre in atto quel progetto (regie patenti del 19 giugno 1832). Il 2 ottobre dello stesso anno, nella ricorrenza del genetliaco del re, la galleria poteva venire aperta al pubblico nelle belle sale di palazzo Madama.
Nel 1836 l'A. cominciò a pubblicare in grandi fascicoli in folio un'opera destinata a illustrare La reale galleria di Torino.
Ogni fascicolo conteneva in genere la riproduzione a stampa di quattro dipinti, cui seguiva un commento dello stesso Azeglio. In questi saggi egli non si limitava ad una analisi dei singoli quadri dal punto di vista strettamente artistico, ma si abbandonava spesso a lunghe eruditissime digressioni di carattere storico, attraverso le quali si proponeva di far conoscere agli italiani la storia di casa Savoia, il suo mecenatismo, la sua grandezza nel campo militare e politico ed il vivo senso di italianità da cui, a suo parere, erano state animate le imprese maggiori dei principi sabaudi nel corso degli ultimi secoli. Per dare poi all'opera un carattere di più spiccata italianità, per trasformarla quasi in un atto di omaggio a casa Savoia e a Carlo Alberto (a cui essa era dedicata) da parte di tutta l'Italia, l'A. volle che alla riproduzione a stampa dei quadri collaborassero i migliori incisori di tutta la penisola.
Quest'opera monumentale incontrò il particolare gradimento del sovrano il quale, con patenti del 17 nov. 1836, nominava l'A. cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e direttore effettivo della Reale Galleria, e quindi nel 1840 commendatore dell'Ordine suddetto (regie patenti del 3 apr. 1840). Gravi difficoltà finanziarie vennero tuttavia in seguito a rallentare il lavoro, che poté essere proseguito soltanto per il mecenatismo di Carlo Alberto. I volumi, costituiti da dieci fascicoli ciascuno, avrebbero dovuto uscire ad intervalli di poco più di un anno. In realtà invece, mentre il primo usciva nel 1836 ed il secondo nel 1838, il terzo non vedeva la luce che nel 1841 ed il quarto nel 1846.
Particolare eco ebbe il saggio dedicato, nel volume IV (pp. 47-68),al dipinto del Tiziano raffigurante Paolo III Farnese. In esso l'A. intesseva l'apologia di quel papa, esaltandolo come tenace difensore dell'indipendenza italiana contro le aspirazioni espansionistiche della casa d'Asburgo, e ne traeva lo spunto per bollare con violenza il persistere della dominazione austriaca in Italia e per auspicarne la fine. Quel saggio veniva tosto riprodotto nel primo volume dell'Antologia italiana, diretta da Francesco Predari, col titolo Cenni sull'ascendente di Paolo III sopra il suo secolo e provocava una sensazione vivissima sull'opinione pubblica ormai satura di rancori antiaustriaci.
L'A. prese pure parte molto attiva a quella vasta opera di rigenerazione morale e sociale, nei riguardi delle classi inferiori, a cui partecipò con grande dedizione, in quegli anni, il fior fiore della nobiltà subalpina. Nel 1835, mentre infieriva il colera, accettò la direzione del lazzaretto provvedendo talvolta personalmente alla cura degli ammalati. L'anno stesso istituiva, in una casa sita in piazza Gran Madre di Dio, un asilo femminile con cinquanta posti, che ampliava poi notevolmente dopo la morte della figlia Melania. A questo asilo egli destinava più tardi, per disposizione testamentaria, una adeguata rendita al fine di assicurarne la sopravvivenza.
Sempre nel 1835 l'A., con Camillo Cavour, Amedeo Peyron e Cesare Alfieri, si fece promotore della creazione di un ricovero di mendicità e nel 1838 sottoscrisse, con molti altri, una petizione al sovrano per la fondazione di una "Società per l'istituzione delle scuole infantili e del patrocinio degli alunni". Da questa società otteneva poi (contribuendo alle spese) la creazione di un asilo per bambini e di una scuola per giovanetti accanto all'asilo femminile da lui fondato. Nello svolgimento della sua opera di benefattore l'A. era animato da un intento altamente civile e dalla convinzione che stretti legami dovevano esistere fra rigenerazione sociale delle classi inferiori e risorgimento nazionale. Sotto questo punto di vista l'attività svolta in quel periodo dall'A. si differenzia sostanzialmente da quella iniziata nel 1839 dalla marchesa Giulia di Barolo, improntata ad una ispirazione più spiccatamente religiosa.
In questa sua opera benefica egli fu coadiuvato con grande dedizione dalla moglie Costanza. Essa era, fra l'altro, una delle ispettrici della Società per l'istituzione delle scuole infantili sopra ricordata e, con la sorella Luigia, fondò a sua volta una casa per fanciulle povere.
Il biennio 1847-48 segnò il culmine dell'attività pubblica dell'Azeglio.
Quando, in occasione delle riforme concesse da Carlo Alberto negli ultimi mesi del '47, i torinesivollero organizzare grandi manifestazioni per esprimere da un lato al sovrano la propria gratitudine e dall'altro per indurlo a proseguire sulla stessa via, a lui ricorsero per la realizzazione di quel piano. L'A. assolse la mansione che gli veniva affidata con energia e abilità impedendo che le manifestazioni trasmodassero e dessero perciò buon gioco al partito reazionario.
All'inizio del gennaio 1848 egli redigeva, a nome dei commercianti di Torino, un forte indirizzo al sovrano, nel quale essi dichiaravano di essere pronti a sacrificare ogni loro interesse per il bene della patria, in previsione di una prossima guerra. Il 7dello stesso mese presiedeva la famosa riunione che si svolse all'albergo Europa, nella quale Cavour propose la stesura di una richiesta al re per ottenere la costituzione. Anche la grande manifestazione indetta per il 27 febbr. 1848, in seguito alla promessa fatta dal sovrano di concedere la costituzione, venne da lui organizzata e diretta. Quando poi si istituì la guardia civica, l'A. fu chiamato a far parte dello Stato Maggiore. Egli si adoprò inoltre ardentemente per ottenere l'emancipazione degli ebrei e dei valdesi (vedi i suoi articoli Ama il prossimo tuo come te stesso,in La Concordia, 3 genn. 1848, e Emancipazione israelitica, in Il Risorgimento,22 febbr. 1848).Scoppiata la guerra con l'Austria, l'A. avrebbe voluto prendervi parte a fianco del re. La sua presenza fu invece ritenuta più necessaria nella capitale, ed essa si rivelò particolarmente utile quando sopraggiunse la sconfitta. Egli infatti fu allora chiamato a presiedere un comitato di sicurezza pubblica, che seppe svolgere una efficace opera di controllo. Sciolto quel comitato per contrasti sorti col ministero Casati, l'A., amareggiato e deluso dopo il crollo di tante speranze, si ritirò in campagna col proposito di lasciare la carica di senatore, a cui era stato chiamato fin dal 3 aprile, e di abbandonare ogni attività politica. Passato invece un breve periodo di abbattimento, ritornò nella capitale e - rifiutata la carica di sindaco - riprese il suo posto in Senato. Si dichiarò favorevole all'intervento piemontese in Toscana progettato dal Gioberti, mentre fu contrario alla ripresa della guerra con l'Austria. Negli anni successivi continuò a prendere parte alle battaglie parlamentari.
Fu favorevole alle riforme della legislazione ecclesiastica progettate nel 1850(discorso al Senato del 5apr. 1850),sostenne la politica di Cavour sul problema dell'alleanza di Crimea (discorso del 1º marzo 1855) e si scagliò con violenza contro la politica assolutistica e antiunitaria di Pio IX, dichiarando necessaria la soppressione del potere temporale dei papi (si vedano in proposito i suoi scritti Religione e patria, nel supplemento al n. 142, 21 luglio 1859, de Il Diritto; Le pastorali politiche dell'episcopato, in Riv. contemporanea, VII [1859], pp. 320-371, ed anche in Il Diritto, 23 genn. 1860, di cui comparve l'anno dopo in forma di opuscolo una nuova edizione riveduta ed accresciuta, presso l'editore Botta di Torino; La corte di Roma e il Vangelo, in Il Diritto, 31 ott. 1859, ristampato a parte a Firenze nel 1859, di cui uscì pure una edizione inglese, The Court of Rome and the Gospel, London 1860). Quando nel 1852 vennero discussi i problemi relativi alla libertà di stampa, l'A. si dichiarò favorevole all'adozione di misure restrittive (discorso del 23 febbr. 1852), il che valse a far notevolmente scemare la sua popolarità. Alcuni mesi dopo assunse un atteggiamento ostile al progetto di legge sul matrimonio civile (discorso del 15 dic. 1852),e nel 1855 sipronunziò in senso contrario al progetto di legge Rattazzi per la soppressione degli ordini religiosi e per la vendita dei loro beni.
Contemporaneamente all'attività politica l'A. continuò l'opera di diffusione della cultura tra i fanciulli e i giovani delle classi meno abbienti, propugnando lo sviluppo delle scuole serali e festive. In questa sua attività l'A. non appare più mosso, tuttavia, da quella ottimistica fiducia che lo animava prima del '48, bensì da intenti che, pur rimanendo profondamente umanitari, tradiscono una viva preoccupazione conservatrice (si confronti in proposito il discorso al Senato del 18 febbr. 1851 durante la discussione sul progetto di legge per una tassa sui corpi morali e a favore dell'esenzione degli asili infantili).
La sua opera benefica non si limitò, tuttavia, al campo dell'insegnamento. Egli fu tra i primi a farsi promotore della creazione di case operaie, aiutò validamente il costituirsi della "Società di mutuo soccorso ed istruzione degli operai di Torino", di cui venne nominato socio onorario, e nel 1859, durante la seconda guerra d'indipendenza, fu, con la moglie, l'animatore di una associazione per la cura dei soldati feriti ed infermi.
Sino al 1854 l'A. continuò pure a coprire la carica di direttore della Reale Galleria. Ma tale incombenza doveva finire col procurargli grossi dispiaceri.
Avendo il Senato stabilito la sua sede in palazzo Madama e trasferito i propri uffici nelle stesse sale in cui erano esposti i quadri della galleria, quest'ultima, dal 1848 in poi, erà stata costretta a chiudere i battenti durante le sessioni parlamentari; inoltre il calore delle stufe, nei mesi invernali, e l'incuria degli impiegati rischiavano di danneggiare gravemente il patrimonio artistico colà conservato. L'A. si batté per risolvere l'incresciosa situazione suggerendo una sistemazione diversa per gli uffici del Senato (si veda in proposito il suo ricorso al Parlamento del 22 nov. 1851, edito in appendice all'opera Notizie estetiche e biografiche..., pp. 433 ss.)e grande fu la sua indignazione allorché il ministero propose invece di trasportare i quadri nelle soffitte del palazzo dell'Accademia delle scienze (cfr. al riguardo la sua protesta, apparsa contemporaneamente nel Risorgimento e nell'Opinione del 24ag. 1852).Tale progetto non ebbe per il momento esecuzione. L'A. tuttavia, vedendo che i suoi suggerimenti non erano tenuti in alcun conto, dava le dimissioni nel dicembre 1854.
L'A. trascorse gli ultimi anni della sua esistenza dedicandosi particolarmente, oltre che alle opere di beneficienza, agli studi preferiti di storia dell'arte.
Nel 1861 usciva, in due volumi, una raccolta di saggi - in parte inediti e in parte ripresi da La reale galleria di Torino e da altre pubblicazioni - col titolo Studi storici e archeologici sulle arti del disegno (Firenze); ad essi seguivano nel 1862 le Notizie estetiche e biografiche su alcune precipue opere oltramontane del Museo torinese (ibid.), ove, riveduti e ampliati, erano pubblicati altri saggi già comparsi nell'opera maggiore; postumo usciva un breve studio dal titolo Notizie inedite e documenti intorno alla vita di Giovenale Boetto e di Carlo Porporati intagliatori piemontesi dei secoli XVII e XVIII con note di Giovanni Vico (Torino 1880) e nel 1867 vedeva la luce, a cura dello stampatore torinese Luciano Basadonna, una seconda edizione in due volumi de La reale galleria di Torino, oveil testo descrittivo era sfrondato di tutto l'apparato storico e politico esistente nella prima edizione.
Particolarmente curioso e significativo, anche perché rivela gli orientamenti sempre più cautamente conservatori del pensiero sociale dell'A., è un breve saggio dal titolo Delle accademie di belle arti (Torino 1859, ripubblicato poi in Studi storici e archeologici, I, pp. 434 ss.), nel quale sosteneva la tesi che le accademie di belle arti dovevano venire soppresse e sostituite dall'insegnamento privato e che quest'ultimo avrebbe dovuto essere riservato, salvo rarissime eccezioni, a giovani di famiglie facoltose. Secondo il suo parere, infatti, le accademie, favorendo il diffondersi dell'attività artistica nelle classi inferiori, sarebbero andate incontro a sicura decadenza poiché i giovani usciti da quelle classi sarebbero sempre stati costretti ad asservire l'arte al loro materiale bisogno di guadagno.
Il ritratto dell'A. non è compiuto se non ricordiamo infine la sua figura di proprietario terriero. La famiglia dei d'Azeglio era certamente ancora tra le più facoltose della nobiltà piemontese, nonostante le dure perdite subite nell'età napoleonica. Il padre inoltre, pur nominando Roberto, nella sua qualità di primogenito, come erede universale, aveva lasciato a Massimo tutti i beni di Azeglio e parte di quelli di Genola, ossia degli ex feudi pervenuti alla famiglia per linea femminile. L'A., pur senza dimostrare lo spirito d'iniziativa d'un Cavour, seppe curare con molta oculatezza e severità i propri beni, che si estendevano soprattutto nel territorio dell'antico feudo familiare di Lagnasco, presso Saluzzo; riacquistò inoltre da Massimo i beni di Genola e, introducendo continue migliorie nel sistema di irrigazione e nelle colture, valorizzò sensibilmente il proprio capitale fondiario. Totalmente assente egli rimase invece dall'incipiente sviluppo dell'economia capitalistica piemontese, a cui parteciparono invece con grande fervore il fratello Massimo ed il figlio Emanuele.
L'A. moriva a Torino il 23 dic. 1862, a pochi mesi di distanza dalla moglie scomparsa il 23 aprile precedente.
Fonti e Bibl.: La figura dell'A. non è ancora stata studiata. L'unico profilo biografico a lui dedicato rimane quello del pubblicista G. Briano edito nella collezione I contemporanei italiani (R. d'A.,Torino 1861), che è tuttora la fonte più ricca di notizie (non sempre esatte a dire il vero) sulla vita dell'A., soprattutto per il periodo napoleonico e per quello della Restaurazione. Di scarsa importanza sono i discorsi pronunciati rispettivamente da A. Quinterno e da P. Boselli il 23 dic. 1912 ed il 29 giugno 1913 nella ricorrenza del cinquantenario della morte e per l'inaugurazione di un busto nella scuola a lui intitolata (A. Quintemo, R. d'A. Cenni biografici 1790-1862, Torino 1912; P. Boselli, R. d'A.,in La patria negli scritti e nei discorsi di P. Boselli,a cura della Soc. naz. "Dante Alighieri", Firenze 1917, pp. 196-214). Del tutto insufficienti e non prive di inesattezza sono pure le voci dedicate all'A. nel Diz. del Risorgimento naz.(IV, p.395) e nella Encicl. ital.(V, pp. 691-92). Le fonti migliori sulla vita dell'A. dal 1831 in poi rimangono i Souvenirs historiques di Costanza d'Azeglio (Torino 1884), ove sono pubblicate lettere dell'A. al figlio, oltre a quelle interessantissime di Costanza, e i Carteggi e documenti diplom. ined. di Emanuele d'Azeglio, pubbl. e illustrati per cura di A. Colombo, I, 1831-1834, Torino 1920, ove sono inserite numerose altre lettere di Costanza e di Roberto al figlio e quelle di Emanuele ai genitori (di quest'opera esiste pure, in pochi esemplari, un secondo volume scompleto, senza data di stampa, che giunge sino al 1864). I documenti editi nei Souvenirs di Costanza d'Azeglio sono stati parzialmente ripubblicati da M. Schettini in una traduzione italiana non sempre felice dal titolo: Il giornale degli anni memorabili,Milano 1960. Utile fonte sono inoltre, anche se pubblicate con qualche mutilazione, le Lettere di Massimo d'Azeglio al fratello Roberto,a cura di G. Briano, Milano 1872 (precedute da alcune notizie biografiche sull'A. che riassumono quanto il Briano già aveva scritto sull'argomento nel profilo biografico sopra citato), e la corrispondenza di Massimo e di Roberto col fratello Prospero (il gesuita padre Luigi Taparelli) edita da E. Di Carlo (Carteggio inedito del padre Luigi Tapparelli d'Azeglio coi fratelli Massimo e Roberto, Roma 1926) e completata da P. Pirri (Carteggi del padre Luigi Tapparelli d'Azeglio della Compagnia di Gesù, in Bibl. di storia ital. recente, XIV, Torino 1933). Si vedano inoltre le lettere dell'A. al Panizzi edite da Luigi Fagan (Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri ed amici italiani,[1823-1870] Firenze 1882) C completate da A. Colombo (Lettere inedite di Massimo e Roberto d'Azeglio ad Antonio Panizzi, in Bollett. stor. bibl. subalpino, suppl. Risorg., I [1912], pp. 93-115). Sull'attività svolta dall'A. durante il periodo carlo-albertino e nel decennio di preparazione si trovano accenni in molti epistolari e memorie dell'opera e nelle opere dedicate alla storia piemontese di quel periodo, che qui si ritiene inutile elencare. Per quanto riguarda le notizie di carattere economico rimandiamo ai documenti conservati nell'archivio di famiglia presso la "Opera Pia Tapparelli d'Azeglio" in Saluzzo. Ricordiamo infine alcuni saggi particolari, che illustrano determinati momenti della vita di R. d'A.: R. Jacquin, Sul rimpatrio d'illustri piemontesi fuorusciti sotto l'impero napoleonico,in Rass. Italiana, 2 (1936),pp. 882-886;Id., R. d'A. commissaire de Police, in Revue des études italiennes, III(1938),pp. 284-288;Ch. Durand, Les auditeurs au Conseil d'Etat de 1803 à 1814, Aix-en-Provence, La pensée universitaire, 1958;G. P. Clerici, Paolo Toschi e R. d'A.,in Riv. d'Italia, XIX(1916),I, pp. 839-855;A. Colombo, Una lettera di R. d'A. a Giuseppe Dabormida sulla spedizione in Crimea, in Rass. storica del Risorgimento, II(1915), pp. 883-893.