Roberto (Ruberto) Guiscardo
Figlio di Tancredi d'Altavilla, nacque in Normandia intorno al 1015. Sceso in Italia meridionale, ove già i suoi fratelli maggiori Guglielmo, Drogone e Umfredo si erano acquistati una solida fama di guerrieri, partecipò alle lotte ingaggiate dai signori locali contro i Bizantini, primeggiando per le sue qualità politiche e militari.
Fu al soldo del principe di Capua, quindi di suo fratello Drogone, secondo conte di Puglia, che l'inviò in Calabria ove colpì in più punti il dominio bizantino. Dopo la battaglia di Civita sul Fortore in cui si era particolarmente distinto comandando un'ala dell'esercito normanno (1053), egli poté dedicarsi alla conquista della Calabria che portò a termine spingendosi fino alla Sicilia, con l'aiuto del fratello Ruggero, nel 1059-1060. Alla morte del fratello Umfredo, successore di Drogone, misconoscendo i diritti dei nipoti, si fece riconoscere conte di Puglia dagli altri riluttanti suoi fratelli; e nel concilio di Melfi (1059) ottenne da Niccolò II, al quale aveva prestato giuramento di fedeltà, l'investitura delle terre conquistate: comparve allora per la prima volta nei rapporti diplomatici la denominazione di ducato di Puglia di Calabria e di Sicilia (1072). Ma se forte fu subito la resistenza dei suoi nemici interni, conti normanni e signori indigeni insofferenti della supremazia da lui imposta, più forte certamente fu la resistenza esterna che veniva specie dall'Impero bizantino che non dimenticava facilmente i domini italiani mentre restava ancora signore dell'opposta sponda dell'Adriatico. Così l'iniziativa di un'azione balcanica da parte dello stesso R. sortì ben presto quando fu deposto da Niceforo Botoniate Michele VII, padre di Costantino Duca che aveva sposato una figlia dello stesso Guiscardo. Se per mare fu allora battuto dai Veneziani, alleati dei Bizantini, R. riuscì però vittorioso a Durazzo dove batté Alessio Comneno (21 febbraio 1082). Mentre tuttavia si accingeva a dirigersi verso Costantinopoli, Gregorio VII, stretto d'assedio a Roma da Enrico IV, invocò il suo aiuto. Fedele ai patti, R. si avviò su Roma dove liberò il papa traendolo a Salerno (1084) e sottomettendo chi tentava di ribellarsi nelle Puglie e in Calabria. Continuò quindi le sue operazioni in Oriente e morì di peste a Cefalonia il 17 luglio 1085.
D. incontra R. nel cielo di Marte fra coloro che combatterono per la fede e per la Chiesa: accanto a Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo e Goffredo di Buglione (Pd XVIII 48).
È ben facile notare qui come di storico ci sia solo uno sfondo a carattere universale estremamente e poeticamente generalizzato, ove lo sforzo maggiore di D. è verso lo stile piuttosto che verso la realtà. Fu giustamente osservato che la rassegna degli spiriti beati di questo cielo di Marte " accentra tutta la sua rilevanza stilistica in uno spazio complessivo di sperimentazioni fantastico-simboliche particolarmente insistite " (Getto), prive di un motivo profondamente umano, perché portate su di un piano altamente simbolico, intellettualistico. Di R. è simboleggiata specialmente tutta l'azione di conquista che, pur creando la fortuna di un suo regno, è vista come lotta contro i nemici della fede e della Chiesa. Altra menzione di R. è nella nona bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno, allorché D., osservando i seminatori di discordie colpiti di spada da un diavolo, fra tante ferite e tanto sangue esclama: Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e de le piaghe a pieno / ch'i' ora vidi, per narrar più volte? / Ogne lingua per certo verria meno / per lo nostro sermone e per la mente / c'hanno a tanto comprender poco seno (If XXVIII 1-6). Per questo dunque D. ricorre all'espediente delle approssimazioni con sforzi comparativi, sempre inadeguati, di rappresentare le condizioni e l'aspetto della bolgia in cui si trova. E nella sua mente, scorrendo ai tanti esempi di umana crudeltà, non ne trovava uno che pareggiasse la scena che aveva dinanzi ai suoi occhi, sebbene avesse tutti quelli terribili cui dovette sottostare la gente che sofferse e morì nella terra di Puglia dal tempo delle guerre dei Romani con i Sanniti fino alla sua stessa età: e fra essi più vivo rimbalza quello in cui una turba umana sentio di colpi doglie / per contastare a Ruberto Guiscardo (v. 14) nella conquista di quelle terre. Così se da un lato è resa evidente l'idealizzazione della volontà e della forza vincitrice in un determinato ambito ideologico, la storia è assunta qui nel lato più cruento e realistico per costituire un momento del mondo poetico dell'Inferno.
Bibl.-Tra le fonti su R.: Amato Di Montecassino, Istoire de li Normants; a c. di V. De Bartholomeis, in " Fonti dell'Istituto Storico Italiano ", Roma 1935; Guglielmo Di Puglia, Gesta Wiscardi, a c. di R. Wilmans, in Mom. Germ. Hist. IX. Per una ricca bibliografia si veda: F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, voll. 2., Parigi 1907. Per i riferimenti su D. cfr.: I. Del Lungo, La figurazione storica del medioevo italiano nel poema di D., in Dal Secolo e dal poema di D., Bologna 1898, 149-308; F. Torraca, La storia nella D.C., in Studi Danteschi, Napoli 1912, 79-107; F. Giunta, D. e i Sovrani di Sicilia, in " Boll. Centro Studi Filol. Ling. Siciliani " X (1966) 5-21; V. Crescini, Il canto XXVIII dell'Inferno, in Lett. dant. 549-552.