ARDIGÒ, Roberto
Nacque il 28 gennaio 1828 a Casteldidone, in provincia di Cremona; di là passò fanciullo a Mantova, dove fu avviato al sacerdozio; nel 1863 fu nominato canonico della cattedrale e nel 1866 insegnante di filosofia in quel liceo. Nel 1869, in memoria di Pietro Pomponazzi lesse un pubblico discorso, che, dato alla stampa quell'anno stesso, fu messo all'indice. L'anno dopo pubblicò la Psicologia come scienza positiva, e nel 1871 smise l'abito ecclesiastico. Di tale avvenimento si parlò molto: in realtà, i convincimenti religiosi di lui erano fondati su un dottrinarismo scolastico che lo sviluppo della riflessione filosofica doveva necessariamente rovesciare. Nel 1877 scrisse la memoria La formazione naturale nel fatto del sistema solare, e l'anno seguente una serie di articoli su La morale dei positivisti. Nel 1881 fu nominato professore di storia della filosofia nell'università di Padova, dove rimase sin quasi alla morte, avvenuta in Mantova il 15 settembre 1920. Oltre la trilogia Il vero (1891), La ragione (1895), L'unità della coscienza (1898), scrisse articoli e discussioni minori in gran numero: quasi tutta l'opera sua è raccolta in undici volumi pubblicati dal 1882 al 1918 presso il Draghi in Padova. Si può aggiungere la Scienza dell'educazione, uscita a Padova nel 1893 (ridotta da lui nell'edizione del 1903).
Nel volume del 1870 l'A. raccolse in una sintesi sobria ed efficace quanto di meglio offriva la letteratura positivistica, sì che la sua Psicologia è nel genere il primo lavoro apparso in Italia, col quale i vecchi concetti del materialismo e dello spiritualismo (astratto), di ogni metafisica ontologica insomma, sono definitivamente messi da parte. Superando il dualismo più decisamente ancora del Mill, e precorrendo l'empirio-criticismo, l'A. affermava risolutamente che "quelle che nella coscienza adulta appariscono due specie distinte di atti, in sé e nella coscienza primitiva, ossia prima che vi siano formate le idee del me e del fuori di me, in realtà costituiscono una specie unica di atti" (p. 400). Più tardi chiamò autosintesi ed eterosintesi i due processi costitutivi delle sintesi (astratte) dell'io e del non io, a cui precede l'atto originario della coscienza. Nella determinazione di quest'atto, tuttavia, l'A., che sembra talora accostarsi al Renouvier, finisce con l'aderire alla tesi del positivismo in voga, che dei fenomeni psichici poneva come causa necessaria, sebbene non sufficiente, i fenomeni fisiologici, e sintetizza le due serie nel concetto di "sostanza psicofisica", terzo genere che non è né spirito né materia. Ma la metafisica ch'ei combatteva, e da cui pur proveniva (e non fu un danno per lui), esigeva, per dichiararsi vinta, una metafisica non inferiore, anzi superiore: nell'aver sentito quest'esigenza l'A. supera di gran lunga la posizione del positivismo corrente, pur rimanendogli tributario per il punto di partenza. Con La formazione naturale nel fatto del sistema solare egli pose la base metafisica mantenuta fermamente in tutti gli scritti posteriori: la realtà è un processo di continua distinzione, per cui il distinto si forma nel seno stesso dell'indistinto, ed è a sua volta quell'indistinto da cui emergono nuove distinzioni, l'unità sintetica del molteplice che l'analisi discopre in ogni fatto naturale. La filosofia dell'A. raggiunge in questo punto una veduta dialettica, che, per quanto possa sembrare simile alla legge spenceriana della continua differenziazione attraverso le forme biologiche dell'evoluzione, in realtà se ne allontana in direzione piuttosto di uno schietto naturalismo bruniano, che nel finito, in ogni suo apparire, vede l'attività dell'infinito. In quest'attività è da ricercare la ragione del molteplice spaziale e temporale, della materia e del movimento, delle idee ultime e supreme che lo Spencer postulò come principî delle scienze. Più ancora: con essa è data quella causa prima, quell'Assoluto, che lo Spencer pone trascendente al mondo dell'esperienza, sostantivando con la teoria dell'Inconoscibile il risultato d'una astrazione. Più importante trova l'A. la distinzione kantiana del fenomeno dal noumeno; ma anche di questa egli è in grado di dare una nuova interpretazione, in quanto considera il noumeno come l'indistinto immanente al distinto, l'unità sintesi del molteplice fenomenico, fenomeno anch'essa, ma pur distinguibile in seno al processo conoscitivo come principio da cui emerge la molteplicità dei fenomeni, e a cui questa tende per la legge del processo stesso. In questa veduta gnoseologica egli sta per superare ogni metafisica oggettivistica, vecchia o nuova. Ma il naturalismo lo riafferra; e, poiché la naturalità del conoscere pareva assicurata dal fatto della sensazione, così tutto per l'A. è sensazione e processo di atti conoscitivi che ripresenta in seno alla sensazione lo stesso processo dell'indistinto-distinto da cui emergono i fenomeni del mondo fisico, p. es. il sistema solare secondo l'ipotesi di Kant e Laplace. Egli ha cercato di risolvere in quel processo tutte le categorie con cui il pensiero pensa il mondo della natura: lo spazio e il tempo, la causalità, la necessità e la contingenza, la logica stessa. La dimostrazione, valida contro il pensiero astratto, non arriva a toccare la critica kantiana, perché ricorre, nel processo delle sensazioni e dei loro atti, a quelle leggi dell'oramai vecchia psicologia associazionistica che presupponeva quelle relazioni appunto che si trattava di spiegare. Pure, anche qui, egli tentò di sottrarsi a questa veduta meramente empiristica, trasformando quelle leggi dell'associazionismo in ritmi del processo conoscitivo, che ne specificano la continuità uniforme. Le categorie, quindi, non sono altro che i ritmi comuni delle sensazioni, anzi delle cose stesse: la realtà tutta quanta è il ritmo dei molteplici ritmi, ossia (tornando a una veduta oggettivistica, da cui l'A. non riesce a liberarsi) un succedersi periodico di fatti in seno all'unità dell'indistinto universale della natura. L'elemento dialettico, da cui questo determinismo è attraversato, riesce talora a piegarlo verso un indeterminismo che ricorda, per il concetto dell'attività spontanea della natura, la tesi caratteristica del contingentismo. Ma l'affermazione si limita nell'A. a combattere, insieme col caso e con l'arbitrio irrazionale, ogni necessità astrattamente a priori e ogni finalismo per parte di una Provvidenza trascendente. Il concetto a cui mirava era quello dell'autonomia, come attività che, non avendo fuori di sé la legge del suo sviluppo, traduce liberamente il suo essere nel suo dover essere. Quel concetto (che per sé implica una veduta dialettica, e però spiritualistica, dell'attività) pose egli, infatti, alla base della sua teoria morale e pedagogica. Questa teoria, liberata dalle soprastrutture naturalistiche, indottevi dalla costante preoccupazione antiteologica, riesce a risolvere la formazione della coscienza dell'individuo umano nello sviluppo dell'attività psichica, la quale, tuttavia, per superare l'egoismo dei suoi impulsi, deve attingere la legge morale fuori di sé, nell'organismo sociale, di cui è cellula. L'atto morale è, così, l'atto determinato dalle idealità sociali, e l'etica si traduce in una sociologia che mira nella formazione dell'uomo civile al trionfo dei più nobili ideali della ragione. Di questa dottrina, in cui risuona ancora l'eco dell'etica antica, diede l'A. il più chiaro esempio con la sua lunga vita austeramente consacrata alla meditazione.
Bibl.: Nel 70° anniversario di R. Ardigò, raccolta di scritti varî a cura di G. Marchesini e A. Groppali, Torino 1898; G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea, II: I positivisti, Messina 1921, pp. 241-316; I. Bluwstein, Die Weltanschaung Roberto Ardigo's, Lipsia 1911; G. Marchesini, La vita e il pensiero di R. Ardigò, Milano 1907; E. Troilo, Ardigò, Milano 1926; G. Tarozzi, R. Ardigò, Roma 1928; R. Ardigò nel primo centenario della sua nascita, 1828-1928, in Rivista di filosofia, XIX (1928) n. 2, a cura di G. Tarozzi, G. Marchesini, L. Credaro, E. Galli, A. Levi, L. Limentani, R. Mondolfo.