RIVETTI
– Famiglia che ha dato vita a una delle più longeve dinastie dell’imprenditoria italiana, tuttora in attività.
Il primo di cui si ha notizia è Bartolomeo Rivetto (1743-1815), un agricoltore relativamente agiato (era proprietario di diversi poderi), originario di una zona del Biellese, la Val di Mosso; da tre successivi matrimoni egli ebbe tredici figli, nove dei quali giunsero all’età adulta (Seravalli, 2018, p. 43; Torrrione, 1942, p. 5).
Il secondogenito di Bartolomeo, Giovanni Battista (1780-1857), nell’anno 1800 modificò il proprio cognome in Rivetti (Merlo, 2012, p. 42); nel 1815 si sposò con Maria Margherita Colombera Falcero, da cui nacquero Giovanni Battista Giuseppe detto Giuseppe (1816-1899) e Giovanni Battista Domenico (1822-1855). Non bastandogli più i proventi del podere che aveva ereditato dal padre, [chi,GBD ?] prima esercitò il mestiere di fabbro ferraio e poi, nel 1825, entrò nel lanificio di Croce di Mosso della ditta Giovanni Giacomo & fratelli Sella, impianto in cui Pietro Sella (si v. la voce su di lui in questo Dizionario) aveva introdotto nel 1817, primo in Italia, i telai meccanici.
Dati i suoi precedenti lavorativi, Giovanni venne assunto come meccanico cardatore, cioé come addetto al montaggio e alla manutenzione dei telai; i meccanici cardatori, al contrario degli altri lavoratori, avevano un regolare contratto scritto, e il loro salario superava in media di circa un terzo quyellod egli operai più specializzati (i filatori).
Suo figlio Giuseppe, che aveva allora solo nove anni, entrò pochi mesi dopo nella stessa fabbrica; vi rimase per oltre trent’anni, facendo una carriera lenta ma continua.
Lavorò per quasi un decennio come ‘attacca-plotte’ dei telai (Seravalli, 2018., p. 55), un incarico delicato e impegnativo a cui erano assegnati i ragazzi e gli adolescenti; l’orario era molto lungo (14 ore giornaliere) e il salario basso (in media, 6 lire sabaude al mese). Nel 1834, a diciotto anni d’età, venne promosso alla confezione delle ‘marelle’ (le matasse di lana), con un salario di 30-40 lire al mese (essendo il lavoro a cottimo, la paga era variabile); nel 1846, a trent’anni, divenne filatore (Ormezzano, 1928, p. CXXX).
Alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, dunque, i due Rivetti si trovavano al vertice del mondo operaio nel settore laniero biellese, un ramo produttivo che nei decenni precedenti aveva vissuto uno sviluppo impetuoso (gli addetti alle fabbriche erano saliti dai 500 ca. del 1830 ai 5.000 ca. del 1858, mentre dal 1820 la produzione era quasi triplicata; Castronovo, 1964, pp. 57-88).
Giuseppe aveva nel frattempo dato vita a una numerosa famiglia (Ormezzano, 1902, pp. 41-42): dal suo matrimonio, nel 1840, con Maria Caterina Maron Pot (1819-1896), nacquero infatti sette figli, sei dei quali giunsero all’età adulta: Giovanni Battista (1842-1920) – che entrò giovanissimo in seminario e nel 1865 divenne sacerdote – Francesca Secondina (1844-?), Pietro Placido Celestino (1846-1926), Quinto Bernardino detto Quintino (1853-1902), Ottavio Gregorio (1857-1914), Giovanni Giacomo (1860-1945).
Nel 1857, alla morte del padre, Giuseppe lasciò il lavoro in fabbrica e si dedicò al commercio delle ‘mezzelane’, tessuti grossolani con l’ordito di cotone e la trama di lana.
Suo figlio Pietro nel 1857 – a undici anni, dopo aver concluso le scuole elementari – entrò nella stessa fabbrica della ditta Sella in cui era stato impiegato il padre, e vi lavorò per quindici anni, prima come attaccafili e poi come filatore e tessitore. Quintino, dal canto suo, dovette lasciare la scuola ancora prima di aver terminato le elementari, per aiutare la famiglia nei lavori agricoli; nel 1864, a undici anni, lavorò come cardatore nel lanificio Giovanni Battista Gilardi di Cossila San Grato (nei pressi di Biella); poi, per quattro anni, lavorò come filatore nel lanificio Giovanni Matteo Negri a Occhieppo Superiore (in Val di Elvo). Anche Ottavio, dopo aver terminato le elementari, dall’età di undici anni lavorò in varie fabbriche.
Nel 1872, a 56 anni di età, Giuseppe decise di tornare all’industria, ma questa volta come imprenditore in proprio; con i risparmi accumulati in decenni di duro lavoro (la sua estrema parsimoniosità era proverbiale), e associandosi a Pietro e Quintino, creò una propria azienda, il Lanificio Giuseppe Rivetti & figli, che avviò – in un periodo in cui nel Biellese, a imitazione di Prato, si stava diffondendo l’uso della lana rigenerata – un’attività allora innovativa, la sfilacciatura degli stracci. A tale scopo, inizialmente prese in affitto piccole fabbriche (in parte o del tutto inattive) collocate lungo le rive del torrente Strona (un affluente del Mosso), che forniva la forza motrice necessaria.
Il primo stabilimento gestito dai Rivetti fu, all’inizio del 1873, un’ala del lanificio Felice Cartotto a Rovella (in Val di Mosso), dove per quattro anni venne lavorata la lana per conto terzi. Nel 1877, su iniziativa di Quintino – il padre Giuseppe, malato, stava abbandonando un po’ alla volta l’attività lavorativa, e Pietro riconobbe presto al fratello superiori capacità organizzative – i Rivetti passarono alla produzione in proprio, e l’anno successivo affittarono un secondo stabilimento, il lanificio Mino a Pianezze (frazione di Camandona, in Val di Strona, un affluente del Mosso). Nel 1879 lasciarono lo stabilimento di Rovella, e nel giro di due anni affittarono tre fabbriche: nello stesso 1879 la Musso a Callabiana (sempre in Val di Strona) e nel 1881 la Viotti a Pianezze e un’ala della Antonio Galoppo a Biella (nell’odierna via Carso).
I fratelli Pietro e Ottavio si dedicarono allo stabilimento di Biella – di cui nel 1881 la famiglia Rivetti divenne l’unica proprietaria – e Quinto e Giovanni agli altri. Nel 1885 i Rivetti lasciarono la Val di Strona per stabilirsi a Biella, e l’anno successivo, abbandonati tutti gli altri stabilimenti – tranne quello di Callabiana, che nel 1888 fu comunque distrutto da un incendio – ingrandirono l’impianto di Biella, che in quel momento aveva 80 operai.
Nel frattempo stava nascendo una nuova generazione di Rivetti: infatti, Pietro ebbe quattro figlie da Secondina Piana (1851-?), mentre sette tra figli e figlie ebbe Quintino da Giulia Canova (1858-?) e sei Giovanni da Albertina Candelone (1861-1898); Ottavio ebbe due figli da Clelia Gatti (1859-1890).
Ma fu alla fine del secolo che l’azienda divenne una vera grande industria. Nel 1896 i Rivetti decisero di investire ingenti fondi nell’ammodernamento e nell’ulteriore allargamento della fabbrica di Biella.
Nel giro di tre anni venne creato, adiacente al centro urbano, un grande complesso – una vera e propria città industriale, estesa da via Carso all’odierna via della Repubblica– in cui edifici pluripiano adibiti agli uffici e ai servizi fiancheggiavano unità produttive a sviluppo orizzontale; il monumentale ingresso principale, in via della Repubblica, costruito in stile neobarocco, rimane ancora oggi una delle più significative icone della storia industriale italiana (Poma, 2013).
Nel 1899 i dipendenti della fabbrica erano già quasi cinquecento (sei volte quelli di tredici anni prima), e a essi andrebbero aggiunte settecento persone che lavoravano a domicilio per la Rivetti (Mosca, 2018, p. 41).
Quell’anno morì il capostipite Giuseppe, mentre Pietro aveva rinunciato sin dal 1891 all’attività imprenditoriale; morto Quintino nel 1902, restarono quindi solo Ottavio e Giovanni. Fu quest’ultimo, che era il più giovane dei fratelli, ad assumere la direzione effettiva dell’azienda, e fu lui che negli anni successivi vi fece progressivamente entrare alcuni membri della nuova generazione dei Rivetti, tutti nati tra il 1882 e il 1892: prima i suoi cinque figli maschi (Giuseppe, 1882-1952; Eugenio, 1884-1934; Attilio, 1885-1980; Ezio Oreste detto Oreste, 1887-1962; Adolfo, 1890-1946) e poi i due di Quintino (Ermanno, 1887-1958; Guido Alberto, 1892-1976); i due figli di Ottavio, Mario (1886-1955) e Benedetto (1888-1934) preferirono dedicarsi all’attività agricola.
Nel 1905 l’azienda raggiunse i millecinquecento dipendenti.
Persino in un ambiente, come quello del tessile biellese, in cui gli imprenditori erano generalmente rigidi con le maestranze, i Rivetti – pur prodighi di attività benefiche nella loro città – spiccavano per l’estrema durezza e puntigliosità del loro controllo sui lavoratori, che divenne proverbiale ed è stato di recente definito come «una variante neopatrimonialista del paternalismo, che non attribuisce dignità ai beneficati» (Seravalli, 2018, p. 10).
Significativo segnale della particolarità dei Rivetti è il necrologio che il bisettimanale locale Corriere biellese – di idee socialiste estremamente moderate – scrisse in occasione della morte di Quintino; alla fine di un testo dal tono ampiamente laudativo, l’anonimo articolista – probabilmente il direttore del giornale, Giulio Casalini – doveva ammettere che il defunto, oltre ai riconoscimenti ricevuti dai suoi pari e dalle autorità, «avrebbe anche avuto l’affetto dei suoi numerosi dipendenti, se talora non si fosse lasciato trascinare a eccessi di severità, che mal si comprendevano in lui, che provò le amarezze, le ansie, gli spasmi della povertà»; e così descriveva le condizioni di vita allora correnti nella fabbrica di Biella: «[terminato il turno di lavoro serale e] giunta la mezzanotte, gli operai […] si buttano in terra per dormire [nel cortile della fabbrica]. Quando giunge il momento della ripresa [del lavoro], quell’esercito dormiente […] viene svegliato e incalzato dai capi, i quali brutalizzano i meno lesti. In questi mali trattamenti, nonché nelle laide parole [dei capi] si devono cercare i motivi di risentimento degli operai» (Un creatore d’industria, 11 aprile 1902, cit. in Ormezzano, 1902, p. 45).
Fu appunto per protestare contro questo ‘regime di fabbrica’ intollerabile, e non per chiedere aumenti di salario o riduzioni di orario, che il 10 luglio 1905 si scatenò il primo grande sciopero della Rivetti, a cui la direzione rispose con una lunga serrata (il grande portone su via della Repubblica venne addirittura inchiodato); la vertenza durò un mese, e si concluse con una sconfitta degli operai. Sette anni dopo, nel 1912, un nuovo sciopero riuscì a ottenere una parziale attenuazione del regime di fabbrica.
Nel 1914 Ottavio morì, mentre Giovanni ridusse sensibilmente, per motivi di salute, il suo ruolo nell’azienda (si sarebbe ritirato definitivamente tre anni dopo, nel 1917), anche se continuò a esercitare funzioni di rilievo negli organismi professionali (dal 1913 revisore dei conti dell’Associazione dell’industria laniera italiana, negli anni della guerra fu una figura di spicco del Comitato regionale piemontese per la mobilitazione industriale; Caneparo, 2008).
Le redini della Rivetti passarono dunque ai membri della nuova generazione, che avevano in quel momento fra trenta e quarant’anni circa; fra essi emerse rapidamente Oreste, che – pur senza alcuna ratifica formale – assunse di fatto la direzione dell’azienda.
L’espansione della Rivetti, rapida fino al 1904, era molto rallentata nei successivi dieci anni, ma l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915, rappresentò una nuova e radicale svolta (dopo quella di fine secolo): l’azienda aumentò considerevolmente, nei successivi tre anni e mezzo, produzione e profitti, dato che gli eventi bellici provocarono un fortissimo aumento nelle commesse pubbliche di tessuti e vestiti di lana.
Il consumo italiano in questo settore passò infatti dai 340.000 q del 1915 ai 590.000 del 1916, ben 440.000 dei quali (quasi il 75%) destinati a usi militari (Bassotto Paltò, 1998). Tra il 1915 e il 1918, il governo spese per le divise dei soldati 1.300 milioni di lire (quasi l’1% del costo totale della guerra); ben 900 andarono alle industrie tessili biellesi, che nel corso della guerra fornirono complessivamente il 70% del fabbisogno di panno e flanella dell’esercito italiano. La Rivetti ne ricavò enormi guadagni: ricevette 315 milioni, quasi un quarto di tutto quanto spesso dal governo per l’acquisto delle divise; è stato calcolato che tale somma equivaleva a 136.000 stipendi annui di un operaio dell’azienda (Seravalli, 2018, p. 11).
Per far fronte all’aumento delle commesse governative, la Rivetti adottò una politica di espansione, sia aprendo propri impianti sia entrando nel capitale di altre aziende. Nel settembre del 1915 inaugurò una sua grande fabbrica a Beverate (Brivio), in provincia di Lecco – uscendo così, per la prima volta, non solo dalla zona di Biella ma dal Piemonte stesso – che giunse a contare 450 operai e fu affidata a Eugenio Rivetti (uno dei figli di Giovanni), con il fratello minore Adolfo come direttore tecnico (Brigatti, 2011, p. 346). Un anno dopo, nel settembre del 1916, la Rivetti acquistò una quota azionaria maggioritaria di una società italo-britannica impiantata nel Biellese, la Pettinatura italiana limited (Fava, 2007; Macchieraldo, 2018).
Fondata nel 1905 da Carlo Trossi (1848-1927) con capitali britannici – la sede legale era a Bradford in Inghilterra e lo stabilimento a Vigliano Biellese – era un’azienda pioneristica, in quanto primo esempio in Italia di una pettinatura per conto terzi (in precedenza i pochi impianti di pettinatura esistenti erano ausiliari della filatura e lavoravano esclusivamente per la ditta cui appartenevano, essendone alle esclusive dipendenze). L’impianto di Vigliano aveva conosciuto nei dieci anni precedenti una fortissima espansione, passando dai 75 dipendenti del 1906 ai 420 del 1914 e ai 680 del 1916. In seguito all’ingresso dei Rivetti nel capitale azionario, la sede legale venne spostata in Italia e l’azienda assunse il nome ufficiale di Società C. Trossi & ditta Giuseppe Rivetti & figli, anche se continuò a essere comunemente chiamata (anche nella propria pubblicità) Pettinatura italiana.
Al termine del conflitto la Rivetti era in Italia la più grande produttrice di divise militari – copriva un quarto del settore – e una delle maggiori imprese tessili: contava circa 2.000 operai nelle sue fabbriche, a cui vanno aggiunti i circa 1.000 lavoratori a domicilio – a cui si ricorreva nei periodi di forte incremento produttivo – e i circa 2.500 operai dell’indotto (cioè delle ditte che lavoravano per la Rivetti).
Nel 1919, in seguito alla drastica diminuzione delle commesse militari, si pose per l’azienda il problema della riconversione. La soluzione che venne trovata si basava su due obiettivi: sviluppare le esportazioni – per rimpiazzare i vuoti lasciati dalle fabbriche tedesche, belghe e francesi danneggiate dalla guerra – e incrementare la produzione dei tessuti destinati agli ‘abiti pronti’, quelli a buon mercato fatti in serie (Mosca, 2018, p. 41).
Per realizzare il primo obiettivo, si proseguì nell’espansione industriale già iniziata nel 1915. Tra il 1919 e il 1921 venne costruito a Vigliano un nuovo grande impianto, la Filatura Rivetti, che utilizzò i recenti macchinari di una filatura di Vienna – costruiti nel 1913, erano stati ceduti all’Italia nel quadro delle riparazioni per i danni bellici – e venne affidato a Ermanno Rivetti, il figlio maggiore di Quintino. Nel 1922, inoltre, la Rivetti assunse il controllo anche operativo della Pettinatura italiana: Ermanno subentrò infatti a Felice Trossi (figlio di Carlo) come direttore dello stabilimento di Vigliano di questa azienda; nel 1936 sarebbe stato il turno del fratello minore di Ermanno, Guido Alberto, e la Pettinatura sarebbe giunta a contare quasi 2.000 dipendenti.
Nel quadro dell’espansione della Rivetti a Vigliano si inserisce uno dei pochissimi episodi di politica sociale che videro protagonista la famiglia. A partire dal 1920, infatti – per iniziativa soprattutto di Ermanno – venne costruito il complesso detto villaggio Trossi-Rivetti, che, gestito dalla ERIOS (Ermanno RIvetti Opere Sociali), continuò la sua espansione fino al 1939, arrivando a comprendere settantaquattro edifici residenziali a due piani (destinati alle famiglie degli operai) e numerose strutture di supporto, alcune delle quali di grandi dimensioni (una chiesa, un centro sportivo, un forno e un macello industriali, due lavatoi pubblici, un convitto per ragazze, un cinema-teatro, un asilo nido e una scuola elementare; Fava, 2007, p. 14).
Per realizzare il secondo obiettivo della Rivetti, quello rivolto agli abiti pronti, era necessario allearsi in maniera organica con chi già li fabbricava; la scelta cadde su una ditta con cui era stata avviata una collaborazione sin dagli anni del conflitto, la Donato Levi & figli di Torino.
Nata nel 1865 come Ditta Davide Emanuele Levi e dedita al commercio all’ingrosso dei tessuti, nel 1884 – quando era subentrato nella direzione il figlio di Davide, Donato – aveva cambiato denominazione e si era dedicata alla produzione; nel 1887 era stata la prima in Italia a realizzare un abito pronto (Merlo, 2012, p. 42).
Nel 1919 la Rivetti divenne la principale fornitrice della Levi e nel 1925, quando questa si trasformò in società per azioni, ne divenne il socio di maggioranza. Nel 1927 venne creata un’affiliata della Levi, la FinTes (Finanziaria Tessile), che svolgeva prevalentemente attività commerciale; nel 1930 queste due società e il lanificio Unites di Biella – di proprietà di Giovanni Rivetti – si fusero, formando il GFT (Gruppo Finanziario Tessile) (Merlo, 2012, p. 42; Mosca, 2018, p. 41; MAMe, voce GFT).
Gli anni tra le due guerre videro crescere anche il peso politico e sociale della famiglia Rivetti, e in particolare di Oreste. Questi, presidente nel 1919 della nuova associazione di categoria del settore, la Federazione nazionale industriali lanieri, nel 1920 fu, con il fratello Giuseppe, tra i fondatori a Biella dell’Unione democratica, politicamente centrista, che veniva definita ‘il partito della borghesia’. Dopo l’avvento al potere del fascismo, comunque, conquistò rapidamente una posizione di un certo rilievo all’interno del nuovo regime, tanto che alla fine degli anni Venti riuscì addirittura a condizionare lo sviluppo della rete stradale del Piemonte.
Nel 1928, infatti, egli, mettendosi alla guida di un gruppo di imprenditori biellesi, riuscì a far modificare, nel progetto definitivo, il tracciato della futura autostrada Torino-Milano – che in origine, più razionalmente, doveva passare nei pressi di Vercelli – facendolo avvicinare a Biella (Moraglio, 2007, p. 121; Garola, 2010).
Inoltre, in vista del conflitto mondiale, tornò a svolgere un ruolo di primo piano nell’industria della difesa: nel 1938 fu infatti nominato direttore capo dell’Opificio militare di Torino, che si occupava della produzione di vestiti per l’esercito. Questo suo ruolo venne ‘consacrato’ dalla visita solenne che Benito Mussolini fece, il 18 maggio 1939, alla fabbrica Rivetti di Biella, ricevuto con grande pompa dai fratelli Oreste, Giuseppe, Ermanno, Adolfo e Attilio.
Entrata in guerra l’Italia nel 1940, Oreste fu nominato delegato dell’industria laniera presso il sottosegretariato per le Fabbricazioni di guerra (FabbriGuerra, già ministero della Produzione bellica) e commissario dell’Associazione laniera. Nel 1941 il re Vittorio Emanuele III gli conferì il titolo di conte di Val Cervo.
Gli anni 1941-42 videro un nuovo ingrandimento della fabbrica Rivetti di Biella, che arrivò a coprire 47.000 m2 e a impiegare circa 7.000 operai; le nuove costruzioni costituirono uno degli esempi più significativi in Italia dell’architettura industriale e del movimento razionalista.
Nel 1939 Oreste Rivetti aveva affidato al grande architetto Giuseppe Pagano (si v. la voce su di lui in questo Dizionario) il progetto per l’ampliamento del lanificio. Pagano – che aveva già lavorato in precedenza per Oreste, progettando nel 1925 una sua villa suburbana e tra il 1931 e il 1935, a Biella, il grande convitto dell’Associazione per l’incremento dell’istruzione professionale nel Biellese – concepì un edificio su cinque piani privo di qualsiasi decorazione. Perpendicolarmente a esso, vennero costruiti due corpi di fabbrica che culminavano con due alte torri rettangolari.
Questo periodo vide per la Rivetti un livello di profitti derivati dalle commesse militari vicino a quello della prima guerra mondiale; fu su questa vasta base finanziaria (e politica) che Oreste ideò il progetto di fare di Biella una company town, sull’esempio di quanto realizzato a Valdagno dalla famiglia Marzotto (Seravalli, 2018, p. 12). Ma la sconfitta dell’Italia e la compromissione dei Rivetti con il regime fascista vanificarono il progetto.
Nel dopoguerra, Oreste pensò di rimediare all’indebolimento economico e politico della famiglia tramite investimenti nel Sud dell’Italia. In vista di tale progetto, nel 1948 effettuò un lungo viaggio in Sud Africa, visitando, a Pietermaritzburg e a Standerton, gli impianti tessili ivi delocalizzati durante la guerra da aziende britanniche.
Fu in conseguenza di questa svolta che, nei primi anni Cinquanta, i destini dei Rivetti di quinta generazione si divisero, sia dal punto di vista personale sia da quello imprenditoriale, con la separazione tra la storia dei lanifici Rivetti e quella del GFT.
Quando, nei primi anni Cinquanta, Oreste decise di investire nel Sud d’Italia, il gruppo Rivetti, pur conoscendo un progressivo calo della produzione e dell’occupazione nel suo ramo industriale, sul piano finanziario aveva in parte ripreso le dimensioni che aveva prima della guerra: controllava infatti la Finanziaria piemontese-lombarda, il Gruppo finanziario tessile di Torino, la società Prisma per il finanziamento e la gestione di aziende industriali, la Società commerciale italo-svizzera di Milano, la Società immobiliare di Milano, la Finanziamenti immobiliari di Trieste; aveva inoltre partecipazioni nell’autostrada Milano-Torino, nella Lux film e nelle società Cervino e Monte Bianco (Ferrarese, 2016, p. 18).
Nel 1953 il figlio maggiore di Oreste, Stefano (1914-1988), andò nel Sud alla ricerca di località dove avviare nuovi stabilimenti tessili, contando sull’aiuto finanziario della Cassa del Mezzogiorno e delle banche di credito mobiliare pubbliche. Decise di aprire tre fabbriche: la più grande a Maratea in Basilicata (Trotta, 2005, p. 13; Ferrarese, 2016, p. 21), e due più piccole a Tortora e a Praia a Mare in Calabria.
La localizzazione scelta fu davvero infelice: pur presentando un buon approvvigionamento idrico (fondamentale per l’industria tessile), l’area si caratterizzava per l’assenza di importanti arterie stradali e di fonti di rifornimento energetico, nonché per il terreno accidentato e il forte dislivello altimetrico.
Il progetto del gruppo Rivetti puntava alla costruzione di impianti altamente specializzati nella produzione di tessuti di lana, destinati prevalentemente al mercato estero. Per la sua realizzazione, il gruppo poté beneficiare di tre successivi finanziamenti da parte della Cassa, per un totale di 4,065 miliardi di lire, pari al 64% della spesa complessiva.
I tre stabilimenti furono costruiti tra il 1954 e il 1957. Nello stesso periodo il gruppo Rivetti avviò nella zona anche una serie di iniziative nel campo turistico, agricolo, meccanico e immobiliare, che gli permisero di moltiplicare le occasioni di finanziamento pubblico. Il processo culminò, nel 1960, con la costituzione della società Lini & lane, che aveva circa 800 dipendenti, a cui vanno aggiunti circa 700 lavoratori dell’indotto.
Dopo la morte di Oreste, avvenuta nel 1962, iniziarono le prime difficoltà del gruppo. Nel 1964 il lanificio di Maratea entrò per la prima volta in perdita. Nel 1965, per salvare gli stabilimenti e mantenere i livelli occupazionali l’IMI (Istituto Immobiliare Italiano) intervenne nella gestione del lanificio, acquistando una partecipazione azionaria pari al 34%, anche se la maggioranza restava ancora nelle mani della famiglia Rivetti. Infine, nel 1969, dopo una lunga trattativa con Stefano Rivetti, l’ENI acquisì gli impianti e i macchinari del lanificio. Si chiudeva, in tal modo, l’esperienza industriale del gruppo Rivetti nel Mezzogiorno.
La crisi che stava attraversando il gruppo Rivetti giunse al suo culmine nel 1971: in gennaio vennero licenziati 680 dipendenti dello stabilimento di Biella, che giunse ad averne appena 300. Il tentativo di risanamento, ottenuto attraverso un riassetto societario mediante la concentrazione con la Pettinatura San Paolo di Biella, non fu sufficiente; i cancelli della fabbrica si chiusero definitivamente il 6 settembre 1971. Dopo la chiusura dell’attività produttiva, la società Lanifici Rivetti spa rimase in vita solo per amministrare il suo consistente patrimonio immobiliare.
Dai primi anni Cinquanta, altri esponenti della quinta generazione Rivetti stavano portando avanti un’esperienza completamente diversa. Nel 1954, i figli di Adolfo, Franco (1919-1986), Silvio (1921-1961) e Pier Giorgio (1927-1983), cedettero allo zio Oreste la loro quota di partecipazione nelle aziende della famiglia – il 34%, ereditato nel 1946, alla morte del padre – e con il ricavato acquisirono la piena proprietà del GFT (Paris, 2006, p. 104; MAMe, voce GFT).
Nel 1949 Silvio, appena terminato il liceo, aveva compiuto un viaggio di istruzione negli Stati Uniti, durante il quale si era imbattuto nell’azienda tessile Palm Beach incorporated, che fabbricava un prodotto allora ignoto in Europa, l’abbigliamento confezionato su misure teoriche, quelle che oggi si chiamano ‘taglie’ (Rivetti, 2019).
Silvio, come direttore tecnico del GFT, applicò alla produzione dell’azienda il sistema statunitense delle taglie; rilanciò il marchio di confezione maschile FACIS (Fabbrica Abbigliamento Confezioni In Serie) – creato nel 1932, ma che non aveva conosciuto fino ad allora un vero sviluppo – con una strategia d’immagine basata su grandi campagne pubblicitarie e, soprattutto, sull’uso di taglie non più teoriche ma calibrate su 25.000 concreti campioni maschili: l’azienda, infatti, nella seconda metà degli anni Cinquanta ‘prese le misure’, in senso letterale, a circa 25.000 italiani, cosa che permise di elaborare un ‘sistema’ di trenta taglie (cresciute poi fino a centoquaranta) – ideato da Giuseppe Tartara, direttore dell’Ufficio ricerche statistiche e studi di mercato del GFT e quindi di vestire una massa considerevole di clienti, per la prima volta in Italia, con abiti non sartoriali. Per la vendita, i tre Rivetti diedero vita a nel 1960 un’apposita catena di negozi, la MARUS (Magazzini Abbigliamento Ragazzo Uomo Signora). Nel 1958, inoltre, avevano lanciato anche un marchio dedicato al pubblico femminile, CORI (COnfezioni RIvetti).
Nel 1971 le redini dell’azienda furono prese da un esponente della sesta generazione di Rivetti, Marco (1943-1996), figlio di Franco, che ristrutturò l’azienda e i suoi prodotti, soprattutto tramite accordi di collaborazione con famosi stilisti. Gli anni Ottanta videro una nuova espansione del gruppo, che arrivò a controllare trentacinque società di cui diciotto all’estero. A partire dal 1992, tuttavia il restringimento del mercato portò a una progressiva crisi dell’azienda, diventata acuta dopo la morte di Marco, nel 1996. Nel 1997 il gruppo venne assorbito dalla HdP (Holding di Partecipazioni industriali), e dopo alterne vicende chiuse definitivamente nel 2003.
L’avventura industriale dei Rivetti è tuttavia proseguita con un altro esponente della sesta generazione, Carlo (nato nel 1956), figlio di Silvio, entrato nel GFT nel 1975. Nel 1983 Marco e Carlo rilevarono il 50% della CP company; nel 1993 Carlo lasciò la GFT e acquistò la totalità delle azioni della CP, che in seguito prese il nome di Sportswear company e diede vita al marchio di abbigliamento Stone island. Nel 2010 Carlo cedette la Sportswear e creò la società Stone island, tuttora attiva, di cui è presidente e direttore creativo.
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