RISORGIMENTO (XXIX, p. 434)
Nel decennio 1945 la storiografia risorgimentista fu percorsa dalla polemica ora cauta e sottintesa, ora esplicita e violenta fra due tendenze: una che dava del R. un'interpretazione politico-territoriale, attenta unicamente al "fatto" politico rappresentato dalla formazione dello Stato unitario, ed un'altra, prevalentemente ispirata all'idealismo storicistico, per la quale il R., lungi dall'esaurirsi nell'opera della dinastia sabauda, si configurava come un processo di carattere spirituale nel quale doveva trovare adeguata valutazione anche l'opera di quanti, militando in campi diversi, avevano, ciascuno a suo modo, contribuito alla creazione della nuova realtà italiana.
Nell'interpretazione della prima corrente, l'unificazione politica appariva come la progressiva espansione del regno sardo, la logica attuazione di un preesistente disegno implicito nel retorico concetto di una "missione nazionale" affidata a casa Savoia. Al lume di questa concezione si tentò di stabilire (N. Rodolico) una continuità tra il Carlo Alberto del Trocadero e quello del'48, tra il persecutore dei liberali e l'iniziatore della prima guerra d'indipendenza, o si delineò un Vittorio Emanuele II (F. Cognasso) su di un piano sempre nettamente superiore non solo al "bohémien e spesso cinico Massimo d'Azeglio", ma anche al "ginevrinizzato Camillo di Cavour". A parte l'evidente deformazione agiografica, opere similmente ispirate, pur segnando un sensibile progresso rispetto alle precedenti ricerche (A. Luzio, A. Colombo, E. Passamonti), restavano, sostanzialmente, legate al limitato angolo visuale della storiografia "risorgimentale", vale a dire interpretavano l'azione politica di un sovrano unicamente col metro della posteriore soluzione unitaria. Mirando esclusivamente a dimostrare la perfetta adesione dei personaggi esaminati ai "valori" del R. (principio di nazionalità, libertà costituzionali, indipendenza dallo straniero) si finiva per rinunciare a comprendere il mondo politico e morale del quale essi erano autentica espressione.
All'acrisìa nei confronti della casa regnante, si accompagnava spesso una forma di nazionalismo storiografico che si manifestava in una marcata ostilità verso quanto pareva legato con la rivoluzione francese, parallela ad un'esaltazione verso quanto sembrava proprio dello "spirito" italiano. L'illuminismo nostrano veniva così inteso come un movimento autoctono, ispiratore del riformismo settecentesco nel quale venivano appunto trovate le origini del R. (E. Rota). Non era più la tesi di C. Calcaterra circa la funzione "negativa" svolta dalla rivoluzione francese nei confronti del movimento nazionale italiano, ma era pur sempre un'interpretazione del sec. 18° in chiave esclusivamente risorgimentale.
La corrente storiografica che si oppose con energia al sabaudismo e al nazionalismo prevalenti fu capeggiata da A. Omodeo. Nel ricordare (1944) le polemiche condotte nel quindicennio precedente "contro una serie di alterazioni tendenziose della storia del R.", egli citò i suoi saggi su Carlo Alberto e su Gioberti come i più significativi e caratterizzanti. Nei primi aveva cercato di distruggere la "leggenda" creata attorno al re sabaudo, il cui atteggiamento gli apparve incontestabilmente reazionario fino al 1848: le riforme degli anni precedenti, infatti, dimostravano unicamente la persistenza d'ideali - come quello della "monarchia amministrativa" - tipici dell'età napoleonica e della restaurazione, ma del tutto estranei allo spirito del Risorgimento. Solo la disperata decisione di riprendere la guerra nel'49 e la fine "shakespeariana" avevano operato la "catarsi" del re.
L'interpretazione nazionalistica del Gioberti, iniziata da G. Gentile, fu l'oggetto del secondo gruppo di saggi. Al neoguelfismo l'Omodeo negò il valore formativo che era stato proprio del liberalismo cavouriano e del mazzinianesimo e lo giudicò soltanto un "espediente pratico" una "sapientissima macchina di guerra" di cui l'abate aveva saputo servirsi con grande abilità e spregiudicatezza.
Tali polemiche carloalbertine e giobertiane, apparse in Leonardo, la Critica, la Nuova Italia (e raccolte, rispettivamente, in volume nel 1940 e nel 1941) adempirono a una fondamentale funzione moralizzatrice degli studî nel conformistico clima politico-culturale del ventennio fascista, ma, staccate da quel particolare momento storico possono apparire talvolta eccessive (alla rigida interpretazione pragmatistica del Gioberti, ad esempio, E. Passerin d'Entrèves ne ha contrapposto una più sensibile ai motivi autenticamente religiosi, presenti, accanto a quelli politici, nell'animo dell'abate torinese). L'opera che, invece, incise più profondamente e durevolmente sulla storiografia risorgimentista fu la magistrale ricerca sul Cavour, che cessò di apparire il retorico e demiurgico "tessitore", creatore delle più intricate situazioni internazionali, preparatore da anni ed anni di distanza di avvenimenti decisivi che poi la storia era chiamata puntualmente a realizzare, e fu inteso come la forza costruttiva della coscienza nazionale e liberale italiana. Anche se non riuscì a realizzare completamente la saldatura con la storia economica e con la storia della cultura del periodo, quell'opera, superando l'angustia delle varie agiografiche ricostruzioni in senso monarchico o repubblicano, interpretava per la prima volta in modo organico il nesso dialettico Mazzini-Cavour e la loro "involontaria" collaborazione.
Non accettò questa tesi uno storico che pure era stato assai vicino all'Omodeo nella battaglia politica e culturale antifascista, L. Salvatorelli. Questi, nell'accentuare, in contrasto con l'andazzo dei tempi, il momento etico su quello politico, sottolineò l'importanza dell'opera formatrice di Mazzini anche rispetto a quella svolta dal Cavour (nel quale, del resto, fin dal 1935, aveva distinto una "faccia" conservatrice e una liberale). La rivalutazione del "vinto" Mazzini e la perenne validità dei suoi ideali doveva suonare come monito per quanti facevano professione di un facile realismo politico e storiografico.
Gli studî nel secondo dopoguerra. - La dissoluzione interna del fascismo e della monarchia, la disastrosa fine della guerra, il ripristino del regime parlamentare hanno costituito uno stimolo assai efficace per un riesame critico del Risorgimento. Dal crollo dello stato italiano si è risaliti alla sua costituzione: ancora una volta la ricerca storiografica nasceva dalla necessità di chiarire alcuni problemi contemporanei, espressi dal mondo in cui si viveva e si lottava. Questa esigenza di carattere pratico da un lato evitava il limite rappresentato dalla pura erudizione fine a se stessa, ma dall'altro rischiava di trasformare la ricerca stessa in una querelle, di "travestire il passato con le vesti del presente", dandoci pamphlets fortemente politicizzati anziché opere storicamente distaccate.
In questo secondo dopoguerra si sono avuti, pertanto, diversi tentativi di nuove interpretazioni del Risorgimento, di ispirazione marxista, cattolica o radicale, miranti tutti, in sostanza, a sottolineare gli elementi negativi di quel processo storico, cioè le sue insufficienze liberali o la scarsa sensibilità per i problemi sociali e religiosi.
La corrente marxista ha ripreso una tesi formulata da A. Gramsci fin dal 1927 (e pubblicata su una rivista parigina nel 1930), ma conosciuta largamente in Italia solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, mediante la pubblicazione di una vasta ricerca di E. Sereni (Il capitalismo nelle campagne,1860-1900, del 1947) e delle Opere di Antonio Gramsci (soprattutto Il Risorgimento, del 1949). Secondo tale tesi, il limite fondamentale del processo unitario nazionale sarebbe consistito nella mancanza di una rivoluzione agraria. I moderati avrebbero combattuto "più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell'Unità"; era mancato un partito "giacobino", che fosse tale "non per la forma esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale", con il risultato che né moderati né democratici erano riusciti a rendere "nazionale" e "popolare" il R. per l'avversione dei primi e l'incapacità dei secondi a immettere nel movimento le masse contadine italiane. Queste masse erano mobilitabili; esistevano, cioè, le condizioni obbiettive per una rivoluzione agraria. E invece i democratici, che solo legandosi strettamente alle classi rurali avrebbero potuto differenziarsi dai moderati e costituire una concreta alternativa politica, avevano trascurato questa possibilità e s'erano lasciati guidare, in sostanza, dagli avversarî.
Lo stesso Gramsci, in una pagina in cui l'esigenza di carattere storicistico superò la polemica politica contingente aveva intravista la spiegazione del fenomeno. La causa della mancata formazione di un movimento giacobino era da ricercarsi nella debolezza della borghesia italiana e nel generale clima conservatore dell'Europa dopo il 1815. Il parallelo con la Francia, poi, andava fatto con estrema cautela: "La Francia da molti secoli era una nazione egemonica; la sua autonomia era molto ampia. Per l'Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse completamente superiore alla politica creativa: fosse la sola politica creativa".
L'originalità dell'interpretazione gramsciana non ci sembra stia né nel carattere classista attribuito al R., perché (come L. Bulferetti ha ampiamente documentato) simili tentativi risalgono all'ultimo ventennio dell'Ottocento, e neppur nell'invito ad occuparsi delle classi subalterne (la storiografia romantica affrontò largamente il problema degli umili e del loro peso nelle vicende degli stati), ma nell'aver inteso le deficienze del R., nel quadro dell'intera civiltà italiana, caratterizzata fin dal Medioevo dal contrasto città-campagna risoltosi sempre a favore della prima. Non aveva, del resto, il Cattaneo, in un noto saggio, apparso nel 1858 sulle colonne del Crepuscolo, fatto della città "il principio ideale delle istorie italiane", il solo che rendesse possibile un'esposizione "evidente e continua" di trenta secoli di storia? La soluzione risorgimentale che aveva ignorato le esigenze del mondo contadino s'inseriva, in tal modo, in tutta una plurisecolare tradizione "cittadina". Il giudizio di Gramsci sul Risorgimento perciò, lungi dal costituire una semplice rivendicazione dell'importanza della "campagna" (sulla scia di quel che il Correnti fin dal 1852 aveva scritto a proposito della "cittadinerìa" considerata la peggiore "maledizione" italiana) o una forma di "revisionismo" risorgimentale che si esaurisse nella contrapposizione di quanto sarebbe potuto accadere di fronte alla concreta realtà storica, voleva essere una nuova concezione della storia d'Italia condotta tutta secondo un'angolazione critica costante e conseguente, la cui base teorica era l'allargamento dell'unità crociana storia-filosofia nella più vasta unità storia-filosofia-politica.
Il pericolo di questo stretto legame che assegna alla ricerca storiografica il compito, sia pure indiretto e mediato, di "suscitare forze politiche attuali" fu messo subito in rilievo dai maggiori rappresentanti della cultura idealistica da B. Croce a C. Antoni e a F. Chabod che ribadirono la "distinzione" tra l'attività conoscitiva e l'attività pratica, come unico mezzo per evitare l'"anacronismo" di giudizî che spostavano arbitrariamente nel passato, sotto la spinta di contingenti situazioni politiche, problemi posteriori di generazioni. R. Romeo ha ritenuto necessario, più recentemente, andare oltre la "mera discussione di principio" cercando d'intendere il pensiero del Gramsci "nell'ambito della sua particolare metodologia: salvo poi a tentare di tradurre i risultati di questa analisi in una interpretazione valida anche per correnti culturali di diversa ispirazione". Egli ha negato sia la possibilità di una rivoluzione agraria - anche se le condizioni dei quindici milioni di contadini erano di grande miseria e serpeggiava in quella massa un diffuso malcontento che si manifestava in sporadici moti di rivolta - sia il carattere progressivo di quella rivoluzione, se si fosse verificata.
Posizione non meno polemica hanno assunto in questo secondo dopoguerra nei confronti del R., e della sua interpretazione da parte della storiografia liberale, alcuni giovani studiosi di formazione cattolica ai quali la classe dirigente risorgimentale, costituita da una ristretta e aristocratica élite, è parsa insensibile verso le autentiche esigenze religiose delle masse e verso il grave problema sociale. Pari inadeguatezza aveva mostrato successivamente la storiografia risorgimentista che aveva rivolto la propria attenzione, nell'ambito del mondo cattolico, esclusivamente ai cattolici-liberali, cioè a quei gruppi transigenti pronti a giungere a un'intesa con lo stato unitario. Ma questi gruppi rappresentavano soltanto una piccola parte del cattolicesimo italiano. E la stragrande maggioranza di esso, e le masse "povere e incolte"? A queste si è rivolta la nuova indagine e al movimento intransigente (F. Fonzi) la cui opposizione verso le nuove istituzioni, né aprioristica, né esclusivamente legata a un legittimismo retrivo, avrebbe presentato notevoli aperture sociali destinate ad essere riprese e approfondite successivamente dal movimento cattolico. L'insufficienza religiosa e sociale dello stato unitario risaliva, secondo tale interpretazione, all'individualismo economico e politico dei liberali i quali, quasi a compenso dell'indifferentismo professato nel campo religioso, avrebbero diffuso "un culto esclusivo e assoluto" per la nazione e la dottrina dello stato etico, preludio a ogni possibile dittatura. Qualche studioso è andato anche più in là, stabilendo addirittura uno stretto rapporto tra laicismo, nazionalismo e razzismo. "Involuzione e degenerazione inevitabile (quella da civiltà a razza), conseguenza necessaria del laicismo su cui la civiltà medesima ha voluto costruirsi a qualunque costo, privandosi di quei concetti filosofici e religiosi di trascendenza, di rivelazione, di soprannaturale ecc., i soli che possono salvare i valori spirituali e rendere veramente universale una civiltà" (M.F. Sciacca).
A parte il legame laicismo-nazionalismo, in realtà tutt'altro che necessario (basta pensare all'atteggiamento di B. Croce e della più responsabile cultura liberale di fronte alle tendenze nazionalistiche), l'interesse che presenta la nuova corrente d'ispirazione cattolica non sta tanto nella sottolineata scarsa rappresentatività dello stato liberale e nella distinzione-opposizione tra paese legale e paese reale - motivi, questi, sparsi largamente in tutta la pubblicistica ottocentesca - ma piuttosto nel legame stabilito tra motivi religiosi e motivi sociali che dà un particolare carattere alla "protesta" cattolica. Il R. viene a configurarsi in tal modo come una rivoluzione meramente politica, che aveva espresso uno stato il cui rapporto con la società civile era rimasto formale e giuridico senza mai diventare intrinseco ed organico.
Andrebbe, invero, a questo proposito, approfondita la ricerca sulla funzione storica dello stato laico e liberale che costituì la condizione necessaria perché il movimento cattolico si affermasse come forza politica autonoma e perché le stesse rivendicazioni sociali sfuggissero a suggestioni corporative o paternalistiche.
Comune ci sembra ad ambedue le correnti, marxista e cattolica, l'intento di spostare l'indagine storiografica dalle élites alle masse, che si traduce nell'aspirazione ad acquistare consapevolezza sul piano culturale della loro passata e presente lotta politica. Da questo bisogno sono nate le numerose ricerche sul movimento operaio e contadino, sul movimento cattolico, sull'Opera dei Congressi, che hanno indubbiamente contribuito a diradare vaste zone d'ombra. Il problema, però, non si esaurisce in termini quantitativi: non si tratta di allargare la conoscenza storica, ma di concezioni filosofiche, che esprimono ciascuna una diversa interpretazione del passato, cioè una propria storiografia.
Ancora una revisione del nostro R., ma in senso democratico-radicale, è stata compiuta prevalentemente da storici anglo-sassoni, e da qualche settore culturale italiano si è guardato ad essa con aperta simpatia. Il problema centrale di quegli studiosi non era, in realtà, il R., ma il fascismo, le cui origini venivano cercate sempre più indietro nel tempo, quasi che il percorrere a ritroso la storia d'Italia costituisse una garanzia della validità della ricerca. I "vizî" della costituzione politica del nostro paese sono stati così rintracciati assai indietro nel tempo, oltre Giolitti, oltre Crispi, oltre il trasformismo per giungere addirittura a Cavour, la cui pratica di governo avrebbe dato un tono di disinvolta spregiudicatezza alla vita politica piemontese prima e italiana poi. L'alleanza con Rattazzi del 1852 - il "connubio" - avrebbe stabilito "la consuetudine di basare il potere su alleanze mutevoli, all'interno di un'amorfa maggioranza parlamentare, piuttosto che su di un singolo partito con un programma ben definito e coerente" (D. Mack Smith). I successori di Cavour avrebbero proseguito per la stessa strada, e la lotta politica avrebbe presentato perciò in Italia non "grandi contrapposizioni di principî" e una netta distinzione tra due partiti contrapposti, ma ondeggiamenti opportunistici e una continua equivoca collaborazione tra forze intrinsecamente diverse.
È stato già osservato, a questo proposito, che "la rappresentazione della vita italiana prima del fascismo unicamente come una sequela di guai, e come lo sviluppo fatale di una malattia in cui si preparava la catastrofe, sarebbe una geremiade efficace nelle prediche, utile forse nella politica militante, ma non certamente un discorso storico" (N. Valeri). Ma c'è anche un'obbiezione di principio che deve essere mossa a ricerche del genere, riguardante la liceità o meno, sul piano metodologico, di condurre un'indagine puramente strumentale su di un determinato periodo storico (il Risorgimento) per cercarvi le origini di un fenomeno successivo (il fascismo). Non si tratta, ovviamente, di negare quei "legami nascosti ma pressoché infrangibili che stringono le idee di un secolo a quelle del secolo che l'ha preceduto" (A. de Tocqueville), ma di ricordare l'importanza del richiamo di L. von Ranke intorno al valore "autonomo" di ogni epoca. La ricerca storica si basa infatti proprio sulla capacità di cogliere quel che caratterizza un certo periodo e lo distingue dagli altri, vale a dire la sua individualità, condizione indispensabile per ricavare un nesso che non sia meramente causalistico fra periodi contigui.
Ma anche volendo porre l'accento sulla continuità, il problema va posto su un piano assai più ampio e argomentato in maniera adeguata, come ha fatto Lewis Namier, secondo il quale la vera essenza del principio di nazionalità è la volontà di dominio e di sopraffazione che si può manifestare liberamente nel posteriore nazionalismo, una volta caduta la quarantottesca "doratura idealistica".
La contrapposizione stabilita in tal modo tra nazionalità e libertà non può però essere accettata, almeno per quanto concerne l'Italia, dove l'idea di nazionalità è decisamente volontaristica, poggia cioè non già su caratteri etnici, geografici e territoriali, ma piuttosto su una cultura, un'educazione una tradizione comuni ed è collegata intimamente all'idea di libertà (F. Chabod).
Distinguere, comunque, l'Italia del R. e del postrisorgimento dal fascismo non vuol dire contrapporre un periodo idilliaco a un periodo "negativo", rendendo implicitamente inspiegabile il passaggio dall'uno all'altro (secondo l'accusa frequentemente mossa alla Storia d'Italia dal 1871 al 1915 del Croce). La dimostrazione di come sia possibile intendere il nesso tra le due epoche rimanendo sul piano storico, pur tenendo nel debito conto l'esperienza della ventennale dittatura, l'ha fornita lo Chabod con la Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, certamente crociana come ispirazione - il giudizio sull'Italia risorgimentale non differisce sostanzialmente da quello del Croce - ma con un accento pessimistico del tutto originale, recentemente sottolineato da G. Sasso. Scrivendo tra il 1940 e il 1951 quelle pagine, mentre il destino dell'Europa andava fatalmente compiendosi, Chabod dovette sentire particolarmente vicino il dramma del continente europeo dopo il 1870, allorché la Machtpolitik bismarckiana sembrò dominare incontrastata nei rapporti fra le potenze, e gli ideali coltivati nel mezzo secolo precedente apparvero oggetto di irrisione e di compatimento. Nell'Europa di Bismarck e nell'Italia postunitaria, Chabod colse lo svuotarsi progressivo del mondo risorgimentale e dei suoi ideali quarantotteschi, l'involuzione del principio di nazionalità, fautore di libertà, nel nazionalismo oppressore dei popoli. Al posto del convenzionale quadro della belle époque, Chabod delineava in tal modo una società che celava in sé i germi che l'avrebbero distrutta, assai distante, comunque, dalla vecchia Europa ottocentesca ispiratrice delle burckhardtiane riflessioni sul piccolo stato ch'egli aveva a lungo meditato.
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