GIANFIGLIAZZI, Rinaldo
Nacque a Firenze nel 1335 da Giannozzo di Giovanni e da Niccolosa di Rinaldo Casini. Eccettuato Maso degli Albizzi, fu l'uomo politico fiorentino in cui più compiutamente si incarnò il regime oligarchico nato nel gennaio 1382 sulle ceneri di quello dei ciompi. Non a caso al 20 genn. 1382 risale la sua investitura a cavaliere dello spron d'oro voluta dalla Parte guelfa e al 1° marzo dello stesso anno la sua elezione, primo della famiglia, a gonfaloniere di Giustizia, massima carica del Comune.
I Gianfigliazzi, iscritti all'arte dei mercanti, una delle arti maggiori, erano una delle più antiche e potenti casate di Firenze, tra le fondatrici del partito guelfo. Nel secolo XIII e nei primi decenni del successivo avevano praticato l'attività bancaria, specializzandosi nei grossi mutui a principi e signori feudali e operando, oltre che a Firenze, nel Sud della Francia; presumibilmente nel corso del Trecento il raggio d'azione e la portata della loro attività finanziaria diminuirono, dal momento che, a differenza di quanto era accaduto in precedenza, non erano più considerati tra le famiglie più ricche di Firenze. Per quanto attiene al loro ruolo politico, i Gianfigliazzi erano stati protagonisti della vita politica fiorentina per buona parte del secolo XIII, ma poi erano rimasti esclusi, in quanto magnati, dalle maggiori cariche interne al Comune in seguito all'emanazione degli ordinamenti di giustizia del 1293; tale situazione venne a cessare, almeno in via di diritto, nel giugno 1369, quando, mediante apposita petizione fatta approvare dai Consigli, furono "fatti di popolo" e non più soggetti alle limitazioni precedenti.
Niente si sa della formazione culturale del Gianfigliazzi. Giovanni Cavalcanti afferma che trascorse la giovinezza nel libertinaggio e nelle dissipazioni, ma ciò sembra in contrasto con il suo precoce matrimonio e con la fama di austero uomo politico che acquisì quasi subito dopo il precoce ingresso nella vita pubblica. Nel 1359 sposò Giovanna di Michele Salterelli, ricevendone una dote di 1130 fiorini. Nei primi mesi del 1366, quando gli fu richiesto il consenso a eseguire le ultime volontà del nonno (il padre Giannozzo era già morto), egli si trovava a San Miniato, Comune non ancora soggetto a Firenze, ove presumibilmente esercitava l'incarico di podestà.
L'epoca del vero e proprio ingresso nella vita pubblica del G. coincide con il gennaio 1382 e con la liquidazione del regime dei ciompi. Egli aveva tuttavia già in precedenza maturato le sue scelte: nel processo di polarizzazione della lotta politica verificatosi a Firenze nella seconda metà del '300, il G. era stato portato, per ceto sociale e per storia familiare, ad aderire alla fazione oligarchica, capeggiata dalla famiglia degli Albizzi, che si richiamava alla tradizione del Comune, proponendosi di frenare l'ammissione di "gente nuova" alla cittadinanza e di arginare la pressione delle arti minori diretta a erodere gli spazi di potere tradizionalmente riservati alle arti maggiori. Il G. mantenne però in seno alla fazione aristocratica (detta degli arciguelfi perché ne facevano parte i discendenti dei fondatori della parte guelfa e perché avevano in quest'ultima la propria roccaforte) sempre posizioni moderate, favorevoli al dialogo con la parte avversa e, in generale, alla pacificazione e alla concordia tra tutte le componenti della cittadinanza. Il G., al momento della sua prima elezione al gonfalonierato di Giustizia (1° marzo 1382; in seguito rivestirà la medesima carica altre tre volte: dal 1° luglio 1401, dal 1° luglio 1411 e dal 1° luglio 1419) era già uno degli uomini più autorevoli di Firenze, dotato di un largo seguito tra gli aderenti alle arti maggiori e alla parte guelfa. Lo si vede dal fatto che veniva chiamato a intervenire più frequentemente di altri alle consulte e alle pratiche, cioè ai consigli ristretti convocati dalla Signoria in carica per avere pareri sulle questioni di vitale importanza per la città. Questi consigli ristretti erano il mezzo principale offerto ai cittadini più autorevoli di intervenire con continuità nella vita politica cittadina, pur nella veloce turnazione delle principali cariche pubbliche. Il G. fu inoltre membro delle principali Balie, gli organi straordinari dotati di poteri assoluti, di cui si servì la fazione oligarchica per assicurare la traduzione della sua volontà politica in provvedimenti legislativi, aggirando l'opposizione dei Consigli. Negli stessi anni il G. cominciò a essere impegnato in frequenti e importanti missioni diplomatiche. Con altri due cittadini trattò l'acquisto di Arezzo nell'ottobre 1384; la trattativa fu condotta con tale abilità da meritarsi il plauso e le lodi di tutti i cronisti contemporanei (Rado, p. 111). Nel gennaio 1386 prese parte all'ambasceria inviata al papa Urbano VI, che aveva deciso di stabilire la sua sede prima a Lucca e poi a Perugia; tale spostamento di residenza avrebbe gravemente inficiato, secondo i governanti fiorentini, l'egemonia di recente stabilita dalla loro città su tutta l'Italia centrale, pertanto il compito del G. era quello di convincere il papa a tornarsene a Roma. Il G. prese parte anche alle ambascerie della primavera del 1388 a Ferrara e dell'autunno dello stesso anno presso Gian Galeazzo Visconti.
Questi rappresentava già una pericolosa minaccia per l'equilibrio politico dell'Italia centrale, in quanto dopo aver consolidato il suo potere in Lombardia, aveva cominciato a tessere trame con i più diretti concorrenti di Firenze, i Comuni di Pisa e di Siena. Di lì a poco, nell'aprile 1390, si ebbe infatti guerra aperta tra i due potentati, che, tra varie vicende, era destinata a risolversi solo con la morte del Visconti nel 1402 e che per Firenze ebbe anche molteplici ripercussioni interne.
Nell'ambito della prima guerra antiviscontea, il G. fu inviato nei primi mesi del 1391 in Francia, insieme con Giovanni Ricci, presso il conte Giovanni di Armagnac, per accordarsi sulle condizioni del suo aiuto militare ai Fiorentini: il progetto di Firenze e dei suoi alleati era quello di stringere le armate viscontee nella tenaglia di un duplice attacco, affidato da sudest al capitano Giovanni Acuto (John Hawkwood) e da ovest all'Armagnac. I due oratori fiorentini scesero poi in Lombardia insieme con l'Armagnac e le sue truppe e - nella sconfitta da questo subita ad Alessandria nel luglio dello stesso anno - furono presi prigionieri; il G., caduto in potere del marchese del Monferrato, poté poi riscattarsi e recuperare la libertà. Nella primavera del 1394, essendo state intavolate trattative dirette tra Firenze e il Visconti, il G. fu di nuovo inviato oratore al Visconti, insieme con Ludovico Albergotti. Il problema contingente che i due oratori dovevano cercare di risolvere era convincere il Visconti a desistere dalla sua decisione di deviare il corso del Mincio, per colpire Mantova; il signore di questa città aveva infatti sottoscritto due anni prima la lega antiviscontea con Firenze e con altri potentati, e di recente aveva cominciato a costruire un ponte sul Mincio per intralciare il trasporto delle truppe da parte del Visconti. L'ambasceria fiorentina non sortì però alcun effetto e la deviazione del Mincio fu effettivamente realizzata, anche se una piena del fiume nel 1395 vanificò tutta l'operazione. Il G. condusse altre ambascerie nel dicembre 1396 a Bologna e nel 1399 a Roma e in altre città, allo scopo di guadagnare adesioni alla cosiddetta Lega francese, costituita in funzione antiviscontea fin dall'aprile 1392.
Ma nonostante i suoi successi oratori e diplomatici e il largo seguito che riusciva quasi sempre a ottenere nelle riunioni consiliari, la posizione del G. all'interno del "reggimento" non si consolidò fino alla metà degli anni Novanta del Trecento: per esempio nel 1386 fu oggetto di una denuncia anonima che lo accusava di adulterio e di simpatie ghibelline; nel marzo 1394 commise un grave errore tattico, promettendo la figlia Maddalena in sposa ad Altobianco Alberti, la cui famiglia era appena stata esclusa dalle cariche pubbliche per volere degli Albizzi. Egli cercò allora di sconfessare tale promessa, ma per l'ostinazione della figlia il matrimonio fu ugualmente celebrato nel 1396. In questa occasione fu molto criticato, come anche quando sostenne in una pratica le pretese del Comune di Firenze sui territori intorno a Castrocaro; egli fu accusato da diversi cittadini di avere nella questione un interesse personale, mentre invece egli scrisse sdegnato a Donato Acciaiuoli che era mosso solo dalla volontà di tenere alto l'onore di Firenze (Brucker, 1977, p. 277).
Nelle questioni interne il G. si dimostrava abbastanza moderato, anche quando c'era da decidere sulle misure punitive nei confronti degli organizzatori dei non rari complotti che punteggiarono la vita interna di Firenze in coincidenza con le guerre viscontee. Alla sua moderazione e alle proposte conciliatrici nelle questioni interne faceva da contraltare il suo atteggiamento in politica estera, campo in cui si distinse come costante e intransigente assertore di azioni di forza, sia che si trattasse di allargare i confini del dominio fiorentino, sia che si trattasse di difendersi coraggiosamente - e talvolta disperatamente - dall'aggressivo espansionismo visconteo. Egli propugnava una risposta militare alla sfida milanese, anche se ciò comportava duri e prolungati sacrifici economici per i Fiorentini, che, sprovvisti di una milizia civica, dovevano affidare le loro sorti alle costose milizie mercenarie. Le misure fiscali predisposte per finanziare le spese militari erano molto invise all'opinione pubblica e anche a qualcuno della stessa classe dirigente, ma venivano sempre coraggiosamente sostenute dal G., facendo ricorso alla sua veemente ed efficace oratoria. Della necessità di questi sacrifici egli dette personalmente l'esempio quando nel 1391 si dovette ricorrere, oltre alle normali prestanze, a una contribuzione straordinaria per armare un esercito in grado di opporsi a quello milanese; egli, che non aveva alle spalle un cospicuo patrimonio familiare, vi contribuì con la notevolissima somma di 9000 lire.
La fedeltà del G. al regime oligarchico era assoluta: i suoi frequenti richiami al patriottismo e ai valori civici, alla supremazia degli interessi pubblici su quelli privati, la sua fluente e accalorata oratoria, che gli aveva meritato il soprannome di Gallo, la sua costante e strenua salvaguardia delle tradizioni comunali offrirono materia di riflessione agli esponenti dell'umanesimo fiorentino. Essi videro in lui il campione della "florentina libertas", il cui mito era destinato a perdurare ancora per decenni dopo la fine delle guerre viscontee. La sua ripresa sul piano politico, dopo gli incidenti di percorso degli anni Ottanta e dei primi Novanta, si dovette a Maso degli Albizzi, capo della fazione oligarchica, di cui era anche amico personale. Si conservano due lettere del G. all'Albizzi che denotano grande familiarità tra i due; il G. fu scelto come sindaco in occasione dell'investitura a cavaliere del primogenito dell'Albizzi; a quest'ultimo fu legato anche dal matrimonio tra uno dei suoi figli e una figlia di Rinaldo degli Albizzi.
Dalla metà degli anni Novanta del Trecento in poi il G. e l'Albizzi saranno accomunati tanto nel giudizio degli osservatori stranieri che nei complotti dei fuorusciti e dei nemici politici; anzi, nei non rari complotti del fuoruscitismo politico fiorentino l'eliminazione fisica del G., più ancora di quella dell'Albizzi, appare come uno degli obiettivi principali e i motivi ne sono facilmente spiegabili: se infatti Maso degli Albizzi era il leader indiscusso della fazione oligarchica, lo si doveva soprattutto alle ingenti ricchezze e ai legami familiari e matrimoniali, mentre la preminenza del G. all'interno del regime si fondava unicamente sulle sue capacità personali e sulle doti carismatiche che avevano facilmente ragione degli indecisi e di coloro che non erano politicamente schierati. Egli era inoltre sospettato dai suoi avversari e anche da osservatori stranieri di aspirare a farsi signore di Firenze (per esempio Iacopo Appiani, signore di Pisa riferì questa opinione agli ambasciatori fiorentini nel 1396).
Dopo la fine delle guerre viscontee nuove minacce e nuove fonti di tensione apparvero all'orizzonte di Firenze, e sempre il G. si schierò su posizioni di intransigenza nei confronti di tutti quei potentati che potevano rappresentare, anche indirettamente, una minaccia per Firenze. Per esempio, nel 1406, dopo l'acquisto di Pisa da parte dei Fiorentini, poiché i Genovesi tardavano a liberare le fortificazioni di Porto Pisano, il G. si pronunciò a favore di una guerra immediata contro Genova; la stessa preferenza per un'azione militare e la stessa sfiducia per le trattative diplomatiche il G. ebbe modo di esprimere più volte nel corso del lungo e difficile conflitto tra Firenze e il re Ladislao di Napoli; anche in questo caso né la pressione delle difficoltà economiche né la difficile situazione militare di Firenze - che non riceveva aiuti sufficienti dai suoi alleati - poterono convincere il G. a intavolare accordi di pace con Ladislao, come è testimoniato nelle innumerevoli pratiche, convocate per decidere di volta in volta i passi da compiere nei confronti del re.
Con i primi anni del Quattrocento, la sua presenza nella vita politica fiorentina si era fatta - se possibile - ancora più intensa: nel solo periodo 1403-14 egli prese la parola in più di cento pratiche, numero di interventi raggiunto, oltre che da lui, solo da altri quattro leader del regime.
Nello stesso periodo prese parte alle ambascerie più importanti, come quella del 1402 presso il re di Germania Roberto di Baviera che si trovava a Padova a svernare con i resti del suo esercito già sconfitto da Gian Galeazzo Visconti in una scaramuccia presso Brescia, per tentare di convincerlo a rimanere in Italia e mantenere viva la speranza di un attacco collegato contro il Visconti. In questa occasione il G. fu creato dal re conte palatino, con facoltà, tra l'altro, di legittimare i figli naturali e di creare notai. Nel gennaio 1404, mentre era membro dei Dieci di balia, fu nominato commissario in campo contro Pisa, il cui acquisto, dopo la fine delle guerre viscontee, era diventato il principale obiettivo della politica estera fiorentina. In quest'occasione egli sottoscrisse, a nome del Comune di Firenze, una tregua di otto giorni con l'inviato di Gabriele Maria Visconti, subentrato al padre nel protettorato della città. Partecipò anche alla solennissima ambasciata inviata nel 1408 a papa Gregorio XII per impegnarlo a porre fine allo scisma e, in occasione delle trattative per permettere il passaggio del pontefice dalla Toscana, mise a disposizione uno dei suoi figli, Iacopo, come ostaggio per garantire la sicurezza del papa. Nel 1424, nonostante l'età avanzata, fu uno dei sindaci eletti dal Comune di Firenze per chiedere al re d'Aragona il rimborso dei danni patiti dalla colonia di mercanti fiorentini in Napoli.
Innumerevoli le cariche pubbliche da lui rivestite all'interno del Comune: oltre alla massima carica della Repubblica, da lui detenuta per ben quattro volte, fu membro dei Sedici gonfalonieri di compagnia nel 1399, per tre volte membro dei Dodici buonuomini, per sei volte dei Dieci di balia, la commissione straordinaria istituita per la prima volta nel 1393 con compiti di direzione della politica estera. Fu anche podestà di Arezzo nel 1408 e vicario di Firenzuola nel 1413 (il registro delle sentenze da lui emesse in questa carica, redatto dal suo notaio Bartolomeo di ser Giovanni da San Miniato, fu pubblicato da Gaetano Poggiali, Serie de' testi di lingua stampati che si citano nel Vocabolario degli accademici della Crusca, I, Livorno 1813, p. 7).
Era membro dei Dieci di balia quando morì a Firenze il 4 sett. 1425.
Fu sepolto in S. Trinita ed ebbe al suo funerale le insegne del Comune e della Parte guelfa. Dal suo matrimonio con Giovanna Saltarelli ebbe almeno cinque figli: Antonio, premorto al padre, Giovanni, Francesco, Iacopo e Maddalena; alcuni di loro ebbero a soffrire la pena dell'esilio quando, nel 1434, la fazione albizzesca fu sbaragliata da Cosimo de' Medici.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Raccolta Sebregondi, 2573; Manoscritti, 287, ad ind.; Priorista Mariani, V, c. 1075; Balie, 17, c. 65; 19, c. 3v; Conventi soppressi, 224, filza 222, cc. 263 ss.; Ufficiali della Grascia, 188, c. 73v; Firenze, Bibl. naz., Poligrafo Gargani, 349 s.; G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, a cura di F.L. Polidori, II, Firenze 1839, pp. 461 s.; Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze, a cura di C. Guasti, Firenze 1867-73, I-II, ad ind.; G. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Firenze 1875, I, pp. 374, 394 s., 467; II, p. 72; C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, II, Roma 1893, pp. 375, 388; III, ibid. 1896, pp. 53, 147; IV, ibid. 1905, p. 251; Delizie degli eruditi toscani, XX (1785), p. 164; Le consulte e pratiche della Repubblica fiorentina nel Quattrocento. 1401, a cura di E. Conti, Pisa 1981, ad ind.; … 1404, a cura di R. Ninci, Roma 1992, ad ind.; …1405-1406, a cura di L. De Angelis - R. Ninci - P. Pirillo, ibid. 1996, ad ind.; A. Rado, Maso degli Albizzi e il partito oligarchico in Firenze dal 1382 al 1393, Firenze 1926, pp. 58, 73 s., 77-79, 111, 116, 169, 195 s.; D. Bueno de Mesquita, Giangaleazzo Visconti duke of Milan (1352-1402), Cambridge 1941, pp. 160, 166, 254 ss.; L. Martines, The social world of the Florentine humanists, Princeton 1963, ad ind.; Id., Lawyers and statecraft in Renaissance Florence, Princeton 1968, ad ind.; G. Brucker, Renaissance Florence, New York 1969, pp. 111, 139, 153, 156, 238; G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze e altri saggi, Milano 1972, pp. 188 s., 202; G. Brucker, The civic world of early Renaissance Florence, Princeton 1977, ad indicem.