RIFIUTI
Secondo il dPR del 10 settembre 1982 n. 915 i r. sono definiti come "qualunque sostanza od oggetto derivante da attività o da cicli naturali, abbandonato o destinato all'abbandono"; secondo una prima definizione della CEE (1975) per r. s'intende "qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi od abbia l'obbligo di disfarsi in virtù delle disposizioni nazionali vigenti"; la CEE ha successivamente modificato tale definizione in: "qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi" (1991, n. 156). L'allegato alla direttiva comprende 16 categorie di sostanze formanti i r., dai prodotti fuori norma o scaduti, ai residui di produzione o consumo, di processi industriali, di lavorazione/sagomatura, di procedimenti antinquinamento, a sostanze contaminanti o la cui utilizzazione è giuridicamente vietata, ecc.
Secondo la normativa italiana i r., come sopra definiti, si distinguono in: urbani; speciali; tossici e nocivi.
I r. urbani provengono da fabbricati o da altri insediamenti civili e possono essere non ingombranti o ingombranti (quali beni di consumo durevoli, arredamento, ecc.). Sono r. speciali: i residui di lavorazioni industriali, di attività agricole, artigianali, commerciali e di servizi non assimilabili, per quantità e qualità, a quelli urbani; i r. da ospedali e simili, non assimilabili a quelli urbani (il D.M. 25 maggio 1989 definisce come r. di strutture sanitarie assimilabili a quelli urbani i residui di cucina e di pasti ai degenti, con esclusione di quelli provenienti da reparti per malattie infettive, i campioni di medicazioni e r. biologici previa disinfezione, con esclusione di quelli da reparti per malattie infettive); i materiali da demolizioni, costruzioni e scavi, macchinari e apparecchiature deteriorati e obsoleti; i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti; i residui del trattamento dei r. e della depurazione degli effluenti. I r. speciali definiti rari sono quelli contenenti amianto, policlorofenili, pile, farmaci scaduti, prodotti tossici, infiammabili, per i quali sono previsti sistemi particolari di raccolta, di trattamento e di smaltimento.
I r. tossici e nocivi sono r. speciali contenenti sostanze tossiche o pericolose per la salute o per l'ambiente (arsenico, mercurio, piombo, fenoli, solventi clorurati, sostanze aromatiche policicliche, ecc.) in quantità superiori a valori soglia fissati da speciale legge.
I r. industriali solidi costituiscono una classe a parte, con caratteristiche diverse da quelle dei r. urbani; sono spesso in quantità elevata, di composizione differente a seconda delle lavorazioni dalle quali provengono. Parte di questi r. inerti, non tossici, non pericolosi, viene smaltita in discariche, altri invece che possono costituire materia prima per altre lavorazioni vengono ceduti, per lo più, a ditte che li valorizzano. Questa valorizzazione, o rilavorazione, di solito non viene fatta all'interno della stessa ditta produttrice, perché richiederebbe l'installazione di impianti o di lavorazioni addizionali con l'ottenimento di prodotti diversi da quelli dell'originario campo d'attività e di commercializzazione. Sono previste presso le Camere di commercio borse che offrono queste materie prime secondarie, come pure su riviste specializzate vengono indicati i singoli prodotti disponibili con relativa specificazione delle quantità, delle caratteristiche, ecc. (v. oltre: Materie prime secondarie).
Nella tab. 1 sono riportate le quantità di r. speciali e urbani prodotti in Italia nel 1988 e nel 1991. I dati sono basati sulla documentazione ufficiale fornita dalle regioni, integrata da elaborazioni del ministero dell'Ambiente. La produzione di r. solidi urbani (RSU), pari a 350 kg/abitante/anno è nella media dei valori dei paesi della Unione Europea, che variano dai 230 del Portogallo e i 282 della Spagna ai 468 della Germania. Nella tab. 2 è riportata la ripartizione per regione dei r. urbani e speciali di origine civile, in Italia, relativi all'anno 1991. I valori dei r. speciali assimilabili a quelli urbani presentano incertezze (sono stati elaborati dal ministero dell'Ambiente su informazioni non complete fornite da regioni, associazioni di categoria, ecc.).
La composizione chimica e merceologica dei r. urbani varia notevolmente con le abitudini delle popolazioni e con l'evoluzione socio-economica; nella tab. 3 sono riportati i dati di una indagine del CNR effettuata agli inizi degli anni Ottanta su circa 300 campioni prelevati nelle diverse aree geografiche del territorio e che si possono ritenere ancora validi (nell'ultima colonna sono riportati dati di una recente ricerca effettuata per la città di Cagliari dal Centro ingegneria sanitaria ambientale). Dai dati della tab. 1 si vede che dal 1988 al 1991 la quantità dei r. urbani è cresciuta da 17 a 20 milioni di t/anno. Questo comportamento è comune a tutto il mondo ed è dovuto prevalentemente all'aumento della carta stampata (pubblicità, giornali, rotocalchi) e degli imballaggi. In USA si calcola che dal 1980 al 1986 la quantità di carta finita nei r. urbani sia passata da 42 a 50 milioni di t e quella della plastica da 7,6 a 10, 3 milioni di t. Nella tab. 4 è riportata la composizione dei RSU delle principali città europee.
L'elevata quantità di RSU che si forma ogni anno e che occorre eliminare pone problemi molto seri alle amministrazioni comunali, regionali e nazionali. In Italia insieme ai RSU vanno smaltiti anche 3 milioni di t di r. solidi assimilabili ai RSU e 3 milioni circa di fanghi provenienti dagli impianti di depurazione di acque civili.
Per quanto riguarda i sistemi utilizzabili per lo smaltimento di questi r. ne esistono diversi: compostaggio, produzione di biogas, termotrasformazione (pirolisi, gassificazione, incenerimento), discarica.
Il compostaggio, cioè la trasformazione dei r. in un prodotto fertilizzante del terreno (v. nettezza urbana, App. IV, ii, p. 588) ha lo svantaggio di fornire un prodotto non facilmente collocabile sia per la bassa densità, che comporta un costo di trasporto elevato, sia perché contiene quantità elevate di inerti inorganici (vetro, ecc.) e perché non sempre si riescono a contenere nei limiti di legge alcuni componenti nocivi (metalli pesanti, ecc.). Un decreto del ministero dell'Ambiente del 29 maggio 1991 prevede una raccolta differenziata degli scarti vegetali e animali, umidi e secchi; dai primi si potrebbero ottenere composti di caratteristiche migliori, mentre i secondi, con più alto potere calorifero, migliorerebbero i processi di termotrasformazione.
I sistemi di termotrasformazione sono diversi, dalla pirolisi alla combustione totale, con o senza recupero d'energia, e produzione d'energia elettrica. Si tratta di sistemi complessi che però offrono il grande vantaggio di ridurre dell'85÷90% il peso dei r. fornendo un residuo (cenere) del 10÷15% smaltibile in discarica o anche con qualche utilizzazione secondaria, e consentendo di recuperare gran parte del calore di combustione (v. incenerimento, in questa Appendice).
Le discariche sono costituite da una grossa ''vasca'' scavata in un terreno a elevate caratteristiche impermeabili, rivestita di più strati di laminati plastici che impediscono la fuoriuscita di liquidi in grado d'inquinare il sottosuolo e le falde acquifere. Le discariche sono munite di diversi accorgimenti costruttivi: canali di drenaggio, vasca di raccolta del percolato, sistemi per convogliamento dei gas all'esterno e loro combustione, dispositivi di monitoraggio, ecc. Le discariche si suddividono in diverse categorie: di 1ª categoria sono quelle dove possono essere smaltiti RSU, r. assimilati a quelli urbani, fanghi non tossici o nocivi; la categoria 2A è solo per i r. inerti; la categoria 2B è per i r. speciali e tossici nocivi che non contengano sostanze tossiche in concentrazione superiore ai limiti fissati; la categoria 2C è per i r. speciali e tossico-nocivi in concentrazioni superiori a quelle di cui al tipo 2B; la categoria 3 riguarda impianti con caratteristiche di sicurezza particolarmente elevate per quei r. per i quali non risultino adattabili diversi e adeguati sistemi di smaltimento.
La scelta del sistema di smaltimento dipende da diversi fattori: quantità dei r., loro composizione e natura, ecc. In Italia secondo il rapporto del ministero dell'Ambiente la destinazione dei r. urbani e assimilati avverrebbe per il 90% circa in discariche, per il 6% per incenerimento e per il restante 4% per trattamenti (compostaggio, ecc.). La quantità di r. smaltiti in impianti autorizzati dal ministero dell'Ambiente è in tab. 5. Nelle discariche di 1ª categoria sono comprese anche 217 non in regola con la normativa vigente, ma autorizzate in via eccezionale, per ragioni di ''emergenza'', dai sindaci; oltre questi dati si hanno molte discariche non autorizzate, non controllate e abusive; il loro numero non è noto, ma non sarebbero meno di 3000÷4000 (il ministero dell'Agricoltura nel 1988, da un rilevamento effettuato su parte dei comuni, ne avrebbe individuate circa 6000 abusive, per una superficie di 1500 ha). Le discariche abusive non offrono alcuna garanzia; sono di solito costituite da cave abbandonate o da grosse ''buche'' ricavate da scavi praticati nel terreno senza alcun sistema o dispositivo di protezione, spesso situate in terreni coperti da vincoli idrogeologici, paesaggistici, ecc., e vi confluiscono r. di ogni tipo, compresi quelli tossici e comunque pericolosi.
Rispetto agli altri sistemi di smaltimento, le discariche offrono il vantaggio di potere risolvere situazioni di emergenza e rappresentano un comodo sistema per rinviare la soluzione razionale dello smaltimento dei r. da parte di organi amministrativi. Esse tuttavia si esauriscono rapidamente, deteriorano il paesaggio, deprezzano le zone circostanti, sviluppano gas maleodoranti, concentrano roditori; inoltre il reperimento di nuove localizzazioni si fa sempre più difficile e lo scarso controllo sulla loro gestione favorisce abusi e irregolarità.
Poiché lo smaltimento, se razionalmente effettuato, risulta in ogni caso un sistema costoso e che non può valere all'infinito, si impone la necessità di trovare altri metodi. Il primo al quale si dovrebbe tendere sarebbe quello di non produrre rifiuti. Se ciò costituisce un paradosso lo stesso non può dirsi della tendenza a frenare o ridurre la produzione di r. attraverso modifiche nelle ''abitudini'', il riciclaggio di frazioni di r. che lo consentano, l'adozione del concetto che chi inquina deve provvedere al disinquinamento. In questi ultimi decenni è prevalso il sistema dell'''usa e getta''; la pubblicità ha fatto largo uso di contenitori di ogni tipo per ''rivestire'' in maniera gradevole, attraente, accattivante, anche senza necessità, prodotti di ogni tipo, aumentando spesso il volume e la superficie dei contenitori per realizzare la più ampia ''lavagna'' sulla quale introdurre i messaggi di vendita, e ciò ha favorito la produzione di rifiuti. Cercare oggi di limitare questi sistemi comporta spesso difficoltà, ma non è sempre impossibile previo il concorso di tutti, dai produttori ai consumatori, specie se alcune iniziative vengono rese obbligatorie e gravate di contributi a carico di chi produce o di chi deve smaltire i rifiuti.
L'industria chimica, per es., ritenuta fortemente inquinatrice, messa di fronte alla necessità di adottare costosi impianti di disinquinamento per assicurare il rispetto dei ristretti limiti fissati da tassative norme di legge per lo scarico di effluenti gassosi e liquidi, ha provveduto in molti casi a modificare o variare il proprio sistema di produzione in modo da raggiungere con minore spesa, o fatica, i limiti fissati. Già fin dal 19° secolo la produzione del carbonato sodico, effettuato col processo Leblanc, caratterizzato da sottoprodotti inquinanti (che in Inghilterra avevano provocato la prima legge antinquinamento), venne sostituita col processo Solvay caratterizzato da sottoprodotti non inquinanti. Più recentemente il sistema di fabbricazione del biossido di titanio all'acido solforico è stato sostituito con quello al cloruro (v. titanio, App. IV, iii, p. 646) che evita di produrre i cosiddetti fanghi rossi, difficili da smaltire. Analogamente l'estrazione della cellulosa dal legno col processo al bisolfito di calcio è stata sostituita con quello al bisolfito di magnesio che meglio si presta all'inertizzazione degli effluenti. Recentemente la società chimica BASF ha dichiarato di aver ridotto di 600.000 t i residui di lavorazioni chimiche attraverso talune modifiche e miglioramenti apportati a processi di lavorazione e di avere riciclato altre 800.000 t di sottoprodotti come materie prime per altre lavorazioni.
La stessa via seguita dall'industria chimica, con vantaggi tecnico-economici talora sensibili, può (e deve) essere seguita in molte delle attività che generano prodotti destinati a finire, almeno in gran parte, nei RSU. Già si hanno per es. alcuni segnali di riduzione degli imballaggi o di norme che obbligano il riutilizzo di parte dei rifiuti.
Gli imballaggi costituiscono una classe di prodotti che contribuiscono largamente alla formazione dei RSU. Secondo l'Istituto italiano per l'imballaggio nel 1990 il consumo di imballaggi in Italia è stato di 10,5 milioni di t (la produzione un po' più alta, circa 12,6 t), ripartiti come in tab. 6, che riporta anche la destinazione: consumatori finali (famiglie, piccoli rivenditori, artigiani) o distribuzione (grossi centri di vendita). I prodotti che finiscono ai consumatori finali si ritrovano quasi interamente nei RSU, mentre quelli della distribuzione, che sono più facili da localizzare, selezionare e ricuperare, finiscono solo per il 50% circa nei RSU. Perciò si può calcolare che dei 10,5 milioni di t imballaggi consumati, circa 7 milioni di t siano destinati a finire in discariche; essi rappresentano il 40% del legno, il 72% della carta e cartoni, il 90% delle materie plastiche, il 65% del vetro, l'85% dei metalli impiegati. Il problema della loro diminuzione all'origine è stato affrontato per es. dall'industria dei detersivi in polvere che usavano (alcune usano ancora) fustini di dimensioni relativamente grandi, largamente superiori al volume del contenuto; con l'adozione di prodotti concentrati è stato ridotto del 50% circa il consumo del cartone, risparmiando anche sui costi di allestimento, di movimentazione, di stoccaggio, di trasporto, con un aumento della produttività e una sensibile riduzione del volume degli imballaggi destinati alle discariche.
In tab. 7 sono riportati i consumi di materie plastiche negli imballaggi a perdere in Italia. Un produttore di yogurt ha potuto risparmiare diverse t/anno di polistirene semplicemente riducendo lo spessore dei contenitori in plastica. Il latte, che in passato veniva venduto in bottiglie di vetro a rendere, oggi è venduto prevalentemente in contenitori di cartone a perdere; ciò ha apportato notevoli benefici alle centrali del latte ma contribuisce anche alla crescita dei RSU. Si calcola che nella sola Europa si abbia un consumo di 8,6 miliardi di involucri di cartone, pari a circa 4 milioni di m 3/anno di rifiuti. Sono in corso campagne sperimentali per sostituire i contenitori di carta con bottiglie di plastica, specie di policarbonato, che per la loro robustezza e resistenza chimica si prestano a essere riutilizzate dopo avere praticato tutti i trattamenti usati per le bottiglie di vetro. In Svezia, per favorire l'uso di queste bottiglie, vengono offerti alle centrali del latte in leasing i macchinari necessari per il lavaggio e il riempimento delle bottiglie e se ne assicura l'acquisto a fine uso, in modo che le bottiglie scartate, invece di andare alla discarica, possano essere riutilizzate per prepararne di nuove.
Il problema della riduzione dei r. provenienti da imballaggi, data la sua vastità e la tendenza ad accrescersi annualmente, ha cominciato a interessare anche alcune autorità. La CEE ha approntato una direttiva che prevede entro 10 anni dall'approvazione un recupero del 90% dei r. e un ricircolo del 60% dell'imballaggio.
La Germania ha preceduto la CEE: nel 1991 ha varato una legge (legge Töpfer) la quale stabilisce che tutti gli imballaggi, di qualunque tipo, debbono essere recuperati, possibilmente reimpiegati, e comunque riutilizzati come materiali o fonti d'energia; le operazioni di recupero, reimpiego, riutilizzazione debbono essere a carico e sotto la responsabilità del sistema privato (cioè di chi ha prodotto e distribuito i beni imballati); il settore di smaltimento pubblico è esonerato da queste operazioni e dallo smaltimento di questi tipi di rifiuti. Per i contenitori usati sono previsti punti di raccolta presso i centri di vendita; per gli imballaggi per liquidi alimentari, detersivi, prodotti di pulizia è stabilito un deposito di mezzo marco da restituire al ritorno del vuoto; per gli imballaggi utilizzati per la vendita sono istituiti centri di raccolta presso i punti commerciali. È prevista la possibilità da parte dei negozi di evitare la raccolta degli imballaggi al loro interno se non dispongono di locali adatti; in tal caso possono stabilire punti di raccolta esterni, da soli o in associazione con altri. Un consorzio fra tutte le aziende commerciali e industriali organizza e finanzia la raccolta differenziata dei vari materiali, che saranno riciclati a cura di altri consorzi specifici per i singoli materiali (materie plastiche, vetro, legno, acciaio ecc.).
Un altro settore di r. al quale il produttore viene interessato al recupero e al riciclaggio è quello dell'auto. In Europa circolano circa 140 milioni di veicoli; di questi ogni anno il 10% circa viene demolito: le parti metalliche, dopo selezione per ricavare i pezzi di maggiore pregio, vengono pressate e inviate alle fonderie mentre le altre parti (gomma, materie plastiche, tessuti, vetri) costituiscono un misto che in gran parte o totalmente finisce in discarica. Il costo di questo smaltimento è sensibile (dell'ordine delle 100 lire/kg) e in continua crescita, sicché presto non sarà più redditizio per lo smantellatore (i cosiddetti ''sfasciacarrozze'') ritirare le macchine da smantellare. I produttori di auto considerano con preoccupazione il problema e si sta avviando il recupero dei componenti in plastica il cui impiego, dai pochi kg per auto di 15÷20 anni fa, è salito anche a 100÷120 kg. Per facilitare il recupero si pensa di unificare i polimeri usati per uno stesso tipo di manufatto destinato ai vari modelli di una stessa casa costruttrice; ciò consentirebbe di riciclare i vari componenti, riottenendo manufatti con caratteristiche abbastanza costanti. Per semplificare la cernita dei prodotti, i costruttori dovrebbero ridurre al minimo i tipi di materie plastiche impiegate, marcandole opportunamente per renderne più agevole il riconoscimento ai demolitori. Le materie plastiche più usate nell'auto sono poche: polipropilene (i diversi tipi possono arrivare a 25÷30 kg per auto), cloruro di polivinile, elastomeri, poliammidi; si va estendendo sempre più l'impiego di polimeri termoplastici rispetto ai termoindurenti perché più facili da riciclare. La maggior parte dei paraurti oggi è ottenuta da polipropilene rinforzato con fibre di vetro. Il loro recupero è facile e possono essere riciclati riproducendo gli stessi manufatti senza scadimenti nelle caratteristiche meccaniche o estetiche. Paraurti con resine riciclate vengono già montati in diverse macchine; polipropilene riciclato già viene usato anche per parti esterne (in vista) della carrozzeria, raggiungendo caratteristiche superficiali conformi alle severe specifiche dell'industria dell'auto. La maggior parte delle fabbriche di auto sta indirizzandosi a riciclare le materie plastiche (ma non solo queste) delle auto in demolizione o, addirittura, a provvedere per proprio conto all'intera demolizione in centri appositamente attrezzati. In Germania è già obbligatorio per i costruttori di auto riciclare (entro il 1994) il 25% dei materiali plastici contenuti nelle auto e ridurre a poche varietà le materie plastiche usate.
Questo concetto di ritirare e riciclare parte dei componenti si va estendendo anche ad altri settori: una fabbrica di calcolatori (Digital Equipment Corp.) progetta le carcasse dei propri apparecchi in maniera da renderle facilmente smontabili e impiega polimeri fra loro compatibili in modo da poter essere facilmente recuperati e riutilizzati; granulandoli direttamente, senza alcuna separazione, e miscelandoli con materiale vergine, produce tegole per coperture di edifici. Analogamente la Siemens Nixdorf ritira dal mercato i propri apparecchi usati per recuperarne il contenuto di policarbonato.
Per favorire il riciclaggio di alcuni tipi di componenti dei RSU evitandone l'invio ai sistemi di smaltimento, in Italia sono stati creati (DL 19 luglio 1989) consorzi nazionali obbligatori (previsti dalla l. 9 novembre 1988 n. 475) per il riciclaggio dei contenitori e imballaggi in vetro, metallo e plastica. Partecipano ai consorzi importatori e produttori dei materiali destinati alla fabbricazione di tali contenitori, nonché importatori, produttori, utilizzatori e distributori degli stessi. Il consorzio per la plastica ha incontrato inizialmente difficoltà perché la raccolta differenziata ha tardato a decollare.
I singoli prodotti da riciclare hanno diversa provenienza: sia di preconsumo (scarti di lavorazione, ecc.) sia di post-consumo (raccolta effettuata presso centri di distribuzione, rifiuti solidi urbani o rifiuti assimilati). Il riciclaggio di alcuni prodotti, specie di pre-consumo, era praticato anche prima della costituzione dei consorzi obbligatori; così la carta da macero costituita da carta stampata usata (giornali, elenchi telefonici, libri, riviste, ecc.) o dai residui di stamperie, legatorie, ecc. veniva incettata da raccoglitori che la inviavano alle cartiere che ne assorbivano oltre 2 milioni di t/anno (in parte proveniente da importazioni). Per il vetro nel 1977 fu tentato un primo esperimento di raccolta differenziata: a Parma si raccolsero 750 t circa di vetro cavo. Il successo portò a estendere ad altre città la raccolta e nel 1985 si arrivò a raccogliere in Italia 467.000 t. Diversa è la possibilità di riciclaggio di prodotti post-consumo che debbono essere raccolti presso i grandi centri di vendita (supermercati, ecc.) o separati dai RSU alla discarica o, meglio ancora, attraverso una raccolta selezionata. Quest'ultimo sistema, che potrebbe consentire il recupero dei singoli materiali separati, comporta difficoltà poiché implica la collaborazione dei singoli consumatori che devono disporre di più recipienti di raccolta, uno per ogni tipo di prodotto; inoltre i costi sono molto elevati. D'altra parte una separazione dei singoli prodotti dai r., come si ottengono nei cassonetti o negli altri mezzi di raccolta, comporta problemi ancor più complessi, anche se di altro tipo, con costi anch'essi elevati e con prodotti che risultano più sporchi e perciò richiedono un più accurato processo di pulitura per poter essere riutilizzati.
Alla raccolta differenziata e alla selezione dei r. dovrebbero provvedere le Regioni e i Comuni sulla base degli indirizzi fissati dal ministero dell'Ambiente (con DM 29 maggio 1991) che prevede per i r. urbani e assimilati la separazione della frazione umida (vegetali, ecc.) destinabile alla preparazione di composti o di biogas, da quella secca (dalla quale si dovrebbero recuperare i materiali utilizzabili e/o energia). Questa raccolta differenziata non ha dato ancora risultati di rilievo, salvo qualche discreta realizzazione, in centri di media grandezza, spesso con sistemi di separazione parziale. Mancano ancora criteri per una scelta razionale dei sistemi da seguire e l'assicurazione che a separazione avvenuta si possa disporre della collocazione delle singole frazioni raccolte, a prezzi prestabiliti. Risultati soddisfacenti sono stati ottenuti per il vetro cavo, che presenta caratteristiche particolari; più scarsi per le materie plastiche, la carta, i metalli.
Per le materie plastiche la raccolta e il riciclaggio si prospetta favorevole per le bottiglie, i film, gli espansi. Il consumo di bottiglie cresce continuamente (per bevande, per detergenti liquidi, per prodotti tecnici, per cosmetici); dal 1989 al 1990 il numero dei contenitori consumati è cresciuto di 500.000 unità (tab. 8). Le bottiglie per bibite e acque minerali sono fatte prevalentemente di polietilenteftalato (PET) e di policloruro di vinile (PVC); si va tuttavia estendendo anche l'uso del polipropilene. Si calcola attualmente un recupero del 30% circa. Con il PET biorientato, che presenta caratteristiche meccaniche elevate, si preparano bottiglie da 1 litro, ma anche da 1,5 e 2 litri, che si prestano per un impiego più volte ripetuto; una volta ritirate, il materiale, condizionato e addizionato di polimero vergine, può essere utilizzato per stampare nuove bottiglie. I film, che rappresentano una frazione importante degli imballaggi in materia plastica, si prestano facilmente a essere recuperati (gran parte finiscono presso la grande distribuzione) e riciclati negli stessi impianti che li hanno generati, in miscela con polimero vergine.
In agricoltura si consumano circa 100.000 t/anno di film in politene a bassa densità per serre mobili; se ne riescono a recuperare circa 40.000 t (il trasporto del film usato è comunque difficoltoso per il volume occupato, e il comprimerlo non sempre risulta facile; inoltre i riciclatori lo accettano mal volentieri per la presenza di terriccio e le conseguenti costose operazioni di lavaggio).
La raccolta differenziata e il riciclaggio per ottenere nuovi manufatti, o la combustione con recupero d'energia (procedimenti non sempre sostitutivi) riescono a ridurre la massa dei materiali da inviare in discarica. Le obiezioni che di solito si muovono al recupero di materie plastiche riguardano gli aspetti economici, specie quando il recupero riguarda materie plastiche di basso valore commerciale (poliolefine, PVC, ecc.); il costo della raccolta, della separazione, del condizionamento, della rilavorazione risulta piuttosto elevato, superiore a quello del prodotto ottenuto da materia prima vergine. Occorre anche tener conto che molto spesso si ha un ''declassamento'' della materia plastica ottenuta: col polimero di recupero si preparano cioè materiali di minore valore commerciale. In molti impianti di recupero si cominciano ad accumulare grossi quantitativi di materie plastiche miste che attendono di trovare un remunerativo impiego o un concorso finanziario di qualche ente.
Si comincia a parlare con sempre maggiore insistenza di un'altra forma di riciclaggio: quello chimico. Esso consiste nel riscaldare una materia plastica o una miscela di materie plastiche già usate a temperatura non tanto elevata, per non provocarne la distruzione, ma sufficiente a provocare la rottura, controllata, delle catene polimeriche in modo da ottenere prodotti a basso peso molecolare da utilizzare come gas combustibile, come gas di sintesi, come monomeri per nuovi polimeri, come ''olio'' da idrogenare, ecc. Oltre alla pura e semplice rottura delle catene polimeriche si sono sperimentate anche altre tecniche (idrolisi, glicolisi, metanolisi, ecc.) che in qualche caso possono portare alla riformazione dei monomeri che sono serviti originariamente a formare il polimero. Naturalmente la cosa non è semplice e può variare caso per caso. Si possono tuttavia ottenere prodotti di maggiore valore commerciale con operazioni e impianti tipici dell'industria chimica, senza prodotti inquinanti. Diverse industrie produttrici di polimeri stanno operando con impianti pilota su diverse materie plastiche di recupero. Il sistema favorirebbe la trasformazione anche dei polimeri termoindurenti, più difficili da riciclare rispetto ai termoplastici.
Materie prime secondarie. - Premessa. - Con il termine Materie Prime Secondarie (MPS), introdotto in Italia dalla l. 9 novembre 1988, n. 475, si individuano i residui da attività produttive suscettibili di essere riutilizzati quali materie prime in attività diverse da quelle di provenienza. Al fine di agevolare il riutilizzo, le MPS, secondo la legge citata, dovevano essere assoggettate a procedure autorizzative e di controllo semplificate rispetto a quelle previste per i rifiuti. Il decreto del ministero dell'Ambiente (26 gennaio 1990) che introduceva tali agevolazioni ha avuto tuttavia breve durata, in quanto veniva per buona parte annullato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 512 del 15-30 ottobre 1990. Per effetto di tale sentenza in pratica è venuto a mancare qualsiasi riferimento per tutta la parte relativa alle procedure autorizzative di competenza regionale.
La situazione di vuoto normativo che la sentenza citata ha determinato è stata aggravata da una successiva sentenza della stessa Corte (n. 5 del 27 marzo 1992), che ha ritenuto che le MPS siano da considerarsi a tutti gli effetti r. (e quindi soggetti a tale normativa) almeno fino a che non siano stati completati tutti gli atti previsti dalla l. 475/1988, che introduceva le MPS. Quest'ultima sentenza in particolare ha determinato il pressoché totale blocco di tutte le attività di recupero, con notevoli aggravi economici per le aziende e un aumento consistente della quantità di r. collocata in discarica (e quindi un'aumentata ''pressione'' dei r. sul territorio).
Il ministero dell'Ambiente ha cercato di ricostituire un quadro di certezze, in particolare per quanto riguarda: la disciplina delle varie fasi di stoccaggio provvisorio, trasporto, trattamento, riutilizzo; le procedure autorizzative e di controllo; le procedure per l'approvazione dei progetti di nuovi impianti destinati al recupero di materie prime e di energia, proponendo in data 3 novembre 1993 un nuovo decreto legge, reiterato in data 10 marzo 1994, che, se convertito in legge, potrebbe finalmente colmare l'attuale vuoto normativo e dare nuovo impulso al riutilizzo dei r. come MPS o come fonte di energia.
La normativa nazionale. - Il DL 10 marzo 1994 n. 169 risulta fortemente innovativo in merito alla qualificazione giuridica delle MPS. Da tempo si discute nel nostro paese se esse devono essere considerate r. e quindi risultare soggette alla normativa che li regola (dPR 10 settembre 1982, n. 915), oppure devono essere considerate sottoprodotti e quindi non soggette ad alcuni degli obblighi imposti dalle leggi sui rifiuti. La questione viene risolta, nel decreto legge, istituendo una disciplina specifica per il riutilizzo dei residui provenienti dai cicli di produzione e di consumo; le MPS sono quindi una categoria a se stante (né r., né sottoprodotti) regolate appunto da una specifica disciplina.
Altre sono le caratteristiche di originalità del decreto legge citato. Innanzitutto esso ha carattere transitorio; infatti nel circoscrivere il campo di applicazione del provvedimento alle attività finalizzate al riutilizzo di residui derivanti dai cicli di produzione e di consumo si specifica che si tratta di una disciplina transitoria in attesa dell'attuazione delle direttive comunitarie 156/1991 e 689/1991 e dell'applicazione del regolamento CEE 259/1993, nonché di una più puntuale definizione e classificazione dei r. derivante dall'attuazione delle direttive predette. Il decreto esclude dal suo campo di applicazione i residui di lavorazione dell'industria alimentare disciplinati da specifiche norme igienico-sanitarie, i semilavorati costituenti residui di produzione e di consumo e, in linea di principio, i materiali quotati in listini e mercuriali e comunicati al ministero dell'Ambiente alla data di entrata in vigore del decreto. Con particolare riferimento a questi ultimi è prevista un'apposita procedura per la ricognizione positiva dei materiali quotati nelle varie Camere di commercio che, qualora rispondano a precise specifiche merceologiche, potranno continuare a essere esclusi dal campo di applicazione del provvedimento stesso.
Viene poi introdotta una procedura semplificata per le operazioni di trattamento, stoccaggio e riutilizzo, come materia prima o come fonte di energia, dei residui provenienti dai cicli di produzione e consumo. Tale procedura, che prevede una semplice comunicazione di inizio attività all'autorità di controllo, è tuttavia applicabile solo a quelle categorie di r. inserite in una lista positiva da predisporsi da parte del ministro dell'Ambiente, di concerto con il ministro dell'Industria. In attesa dell'adozione del suddetto decreto ministeriale vengono sottoposte, con effetto immediato, al semplice obbligo di comunicazione le operazioni di trattamento, stoccaggio e riutilizzo dei residui individuati, con riferimento alla provenienza e alla destinazione, nell'elenco allegato al decreto del 26 gennaio 1990. È infine prevista la possibilità di un aggiornamento periodico di tale elenco. La tab. 9 riporta le principali categorie di residui utilizzabili come MPS. Le tabb. 10 e 11 riportano, rispettivamente, le tipologie e le caratteristiche degli impianti di utilizzazione dei principali residui usabili come fonte di energia, accompagnate da alcune note su criteri e vincoli che la normativa impone per consentirne il riutilizzo.
Le direttive comunitarie. - La Direttiva del Consiglio della Comunità Europea del 18 marzo 1991, che, modificando la precedente direttiva del 1975 relativa ai r., tende a eliminare ogni disparità tra le legislazioni degli stati membri, affronta in modo più puntuale il problema del riciclo e della riutilizzazione dei rifiuti. La Direttiva impone infatti agli stabilimenti industriali di adottare misure appropriate per promuovere sia il recupero dei r. mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo o ogni altra azione intesa a ottenere materie prime secondarie, sia l'uso di r. come fonte di energia.
Per realizzare tali obiettivi, la Direttiva impone agli stati membri di: sviluppare specifici piani di gestione dei r.; adottare disposizioni affinché ogni detentore di r. provveda, ove possibile, al recupero; incentivare il recupero attraverso la semplificazione delle procedure autorizzative per gli stabilimenti e le imprese che recuperano i rifiuti. La Direttiva elenca inoltre le operazioni di recupero alle quali si applicano le disposizioni in essa contenute, consentendo da un lato l'immediata applicazione e assicurando dall'altro un recepimento omogeneo da parte degli stati membri. Le operazioni che comportano una possibilità di recupero sono elencate in tab. 12.
Esperienze nel riutilizzo dei rifiuti. - Numerose sono le esperienze in Italia e all'estero sul recupero di materia e di energia da residui di attività industriali. Il riutilizzo è per lo più reso possibile dalla disponibilità di tecnologie innovative economicamente compatibili; l'economicità del processo di recupero è infatti un fattore essenziale nell'orientare le industrie verso il riutilizzo piuttosto che verso lo smaltimento. A conferma, si riportano alcune tra le esperienze più significative e precisamente, per quanto riguarda il recupero di materia: il riutilizzo di materiali plastici, di contenitori per liquidi, di r. da cantiere, di r. speciali fangosi e oleosi; per quanto riguarda il recupero di energia: l'impiego di r. organici tossici come combustibili ausiliari per la produzione del cemento.
Un valido esempio di riutilizzo di materiali plastici è rappresentato dalla produzione del Reflex, un materiale plastico derivato da plastiche miste. Elemento caratterizzante il processo produttivo è la separazione dei manufatti a composizione poliolefinica (polietilene) da quelli a composizione non poliolefinica (polietilentereftalato, polistirene, plastiche termoindurenti). Le due categorie di componenti presentano punti di fusione e caratteristiche chimico-fisiche molto diverse tra loro; la loro separazione e la successiva ricombinazione in rapporti diversi da quello iniziale consentono di ottenere materiali con caratteristiche d'impiego molto diversificate. Un aspetto decisamente positivo del processo è la possibilità di adottare, per lo stampaggio e l'estrusione, i sistemi tradizionalmente utilizzati per le plastiche vergini. Tra i manufatti di elevata qualità prodotti in Reflex rientrano cabine balneari e chioschi per la spiaggia; il materiale è praticamente inalterabile e consente risparmio di manutenzione periodica rispetto ai manufatti in materiali tradizionali.
Un interessante esempio di riutilizzo di contenitori per liquidi è costituito dall'esperienza in corso in Germania sui contenitori in materiale poliaccoppiato carta/polietilene/alluminio. L'esperienza, che trova un forte incentivo nel decreto Töpfer che obbliga i fabbricanti al ritiro degli imballaggi usati, ha già portato alla realizzazione di un primo impianto pilota e alla produzione di alcuni manufatti. Il processo produttivo si basa su una frammentazione del poliaccoppiato, senza preventiva separazione nei suoi componenti, e nella successiva pressatura a caldo. Ne risulta un materiale multicolore dotato di buona resistenza meccanica (il polietilene, fondendo, fa da collante tra i vari frammenti) e impermeabile all'acqua. Le prime applicazioni sono le stesse dell'agglomerato in legno; il nuovo materiale risulta al momento più costoso ma è nettamente avvantaggiato in quegli usi nei quali è favorita la sua elevata resistenza all'umidità, come nel caso dei listelli per il parquet.
In alcuni paesi europei e negli Stati Uniti sono state effettuate interessanti esperienze nel riciclaggio di r. da cantiere edilizio, che evidenziano la possibilità, da un lato, di recuperare alcuni componenti quali gli inerti, il legname, il ferro, ecc. e, dall'altro, di minimizzare le quantità conferite in discarica. La produzione di r. proveniente da cantiere è attualmente stimata nei paesi europei in circa 700 kg per abitante e per anno; la loro qualità è estremamente disomogenea e non si può escludere la presenza, a volte fisiologica, a volte abusiva, di frazioni di r. altamente pericolosi. Dato il sensibile aumento dei costi di discarica, i produttori di r. da demolizioni edilizie trovano sempre più conveniente effettuare operazioni di trattamento che tendano, da un lato, a isolare i r. maggiormente pericolosi in modo da poter accedere con la parte restante a discariche economicamente meno onerose, dall'altro, a selezionare i r. nelle sue componenti merceologiche al fine di agevolarne il riutilizzo. L'economicità delle operazioni è, al momento, più legata alla riduzione degli oneri di messa in discarica che non al valore di mercato dei materiali recuperati. Al fine di agevolare il riutilizzo dei r. da cantiere, alcuni paesi europei, quali la Danimarca e la Germania, hanno introdotto una tassazione differenziata in discarica per r. selezionati o non. La percentuale di riciclaggio nei paesi europei è molto variabile e, con riferimento al 1991, va dal 12÷13% in Danimarca e in Francia a oltre il 50% in Olanda. Per quanto riguarda l'Italia non risultano avviate iniziative volte alla cernita e al riutilizzo dei r. da cantiere. All'origine di tale atteggiamento vi è presumibilmente l'incertezza normativa che porta a confondere i r. che si producono durante la costruzione con quelli provenienti dalle demolizioni; poiché per quest'ultima categoria è consentita la messa a dimora in discariche di categoria 2A o l'uso come materiali di riempimento e per la formazione di rilevati, la stessa sorte subiscono anche i r. da costruzione, spesso diversi per composizione e per potenzialità inquinante. Un trattamento tipo di r. da cantiere si compone delle seguenti fasi: zona di arrivo; zona di prima selezione basata sulla diversa dimensione dei materiali; trattamento delle frazioni selezionate per via magnetica (materiali ferrosi), pneumatica (materiali leggeri quali carta, legno, ecc.), meccanica (frazione inerte).
Un'interessante possibilità di riciclaggio di r. industriali ad alto potere calorifico è rappresentata dall'utilizzo in forni per la produzione di laterizi. Il processo appare corretto anche sotto il profilo ambientale, poiché le sostanze organiche risultano totalmente distrutte, dati i tempi elevati di permanenza a temperature intorno a 1100°C, mentre eventuali metalli pesanti vengono legati dall'argilla durante il trattamento termico, in modo altamente stabile. Esperienze compiute in Italia in un impianto industriale della potenzialità di 200 t al giorno alimentato con impasto argilloso contenente il 10% di r. di varia provenienza (fanghi organici, fanghi prevalentemente inorganici, morchie, emulsioni oleose, bagni esausti) hanno dimostrato la possibilità di ottenere prodotti finali di buona qualità con minime alterazioni nella composizione e nelle caratteristiche di rilascio di composti di interesse ambientale (per es. per lisciviazione di acque piovane acide). L'indagine ha anche consentito di dimostrare che l'utilizzo di r. speciali, del tipo e nelle proporzioni sopra indicate, non comporta variazioni significative nella qualità delle emissioni gassose durante il processo di cottura. Le difficoltà all'adozione di questa tecnica di riciclaggio sono state a tutt'oggi quasi insormontabili in quanto, per i motivi detti in precedenza, la normativa imponeva all'impianto produttivo di ottenere una preventiva autorizzazione come impianto di smaltimento dei r. per poter mescolare r. combustibili alla propria alimentazione tradizionale. Il decreto del ministero dell'Ambiente del 3 novembre 1993, semplificando notevolmente le procedure, apre interessanti prospettive all'impiego di r. ad alto potere calorifico negli impianti di produzione dei laterizi.
Infine un'alternativa possibile all'incenerimento tal quale di r. pericolosi è costituita dalla termodistruzione nei forni di cottura del clinker, forni nei quali si raggiungono temperature intorno a 1500°C. Le esperienze in Italia sono al momento molto limitate, per gli stessi motivi, già detti, che ostacolano l'utilizzazione dei r. nella produzione di laterizi. Diversa è la situazione in altri paesi europei e nel Nord America. In particolare in Francia e Belgio, secondo dati del 1990, un'aliquota non inferiore al 30% del fabbisogno energetico delle cementerie era assicurato dall'utilizzo di r. liquidi ad alto potere calorifico e tale aliquota era destinata a crescere fino a valori del 60÷70%.
Le problematiche connesse con la utilizzazione di r. nei forni di cottura del clinker sono essenzialmente di natura ambientale, in quanto gli elementi potenzialmente dannosi alla formazione di un clinker di buona qualità (sodio, potassio, magnesio) sono di norma assenti dai r. utilizzati come combustibili alternativi. Numerosi composti potenzialmente pericolosi possono essere presenti nelle emissioni dei forni di cottura, specie allorché a essi si avviano categorie di r. particolarmente resistenti alla termodistruzione, contenenti per es. composti organoclorurati. Dai dati di letteratura si osserva come non sempre i forni di cottura del clinker alimentati con r. sono in grado di rispettare i limiti previsti dalle direttive comunitarie per gli inceneritori dei rifiuti solidi urbani. Le difficoltà maggiori riguardano i microinquinanti organici, in particolare le dibenzodiossine e i dibenzofurani, e alcuni metalli o composti metallici caratterizzati da elevata volatilità, quali il mercurio, il selenio, il cloruro di piombo. Si è anche osservato che una combustione estremamente efficiente può eliminare totalmente il problema dei microinquinanti organici, mentre per l'abbattimento dei metalli volatili occorre integrare il ciclo di trattamento in uso nei cementifici con una fase di lavaggio a umido.
Il riutilizzo di r. combustibili nei forni di cottura del clinker è quindi una alternativa di indubbia fattibilità tecnico-economica, ma essa richiede una attenta valutazione delle implicazioni ambientali, dell'idoneità dell'impianto e delle sue modalità di conduzione, specie allorché si trattino rifiuti con le caratteristiche sopra dette.
Bibl.: G. Andreottola, F. Brunetti, R. Canziani, Smaltimento di rifiuti tossici nelle cementerie: esperienze internazionali e possibili prospettive, in Rifiuti Solidi, 6, 2 (marzo-aprile 1992); IVR Notizie - Notiziario dell'Istituto Valorizzazione e Riciclo dei Materiali, 1992, n. 1-2 e n. 21; E. Renaldi, C. Di Palo, M. Zagaroli, M. Rotatori, Impiego di rifiuti speciali nella produzione di laterizi, in Rifiuti Solidi, 7, 4 (luglio-agosto 1993); G.P. Mazza, I rifiuti da cantiere edilizio: possibilità di riciclaggio, ibid., 7, 6 (novembre-dicembre 1993); M. Nicolai e altri, Minimization, recycling and reuse of demolition waste, in REC '93, International Recycling Congress, vol. 2, Ginevra 1993.