Reliquie e basiliche
Le pagine che seguono saranno dedicate, da un lato, alla fortuna delle ‘reliquie’ di Costantino e alle manifestazioni del culto di queste dal VII secolo circa fino alla caduta dell’Impero bizantino, dall’altro alla diffusione e venerazione delle reliquie ‘di tradizione costantiniana’, cioè le reliquie della Passione di Cristo legate alla leggenda della loro riscoperta da parte di Elena. Si presterà attenzione in particolar modo alle espressioni di tale devozione in ambito artistico, tanto nelle arti suntuarie (reliquiari pensati per contenerle) quanto in architettura e nella decorazione monumentale (edifici destinati alla loro venerazione)1. È possibile che alla diffusione del culto di Costantino e di Elena, e alla conseguente erezione di cappelle o chiese dedicate al primo imperatore ‘cristiano’ e a sua madre a Bisanzio, non sia estraneo il proliferare di leggende che hanno come protagonisti i due sovrani, formatesi nel corso dei secoli. Racconti di questo tipo già si riscontrano ad esempio nella Cronaca di Giovanni Malalas e in Teodoro Anagnostes (VI secolo), nel Chronicon Paschale (VII secolo), nelle Parastaseis syntomoi chronikai (VIII secolo), e vengono ripetuti dalle cronache seriori. In queste compilazioni, uno spazio rilevante è dedicato al racconto della fondazione di Costantinopoli, infarcito di notazioni atte a destare stupore e ammirazione. Secondo Aleksandr Kazhdan, la formazione e l’arricchimento di queste leggende raggiunge il suo apice intorno all’800, mentre, a partire dal X secolo, momento in cui inizia a prevalere un più profondo interesse antiquario, vi sarebbe una interruzione di tale sviluppo2.
Non è noto a quando risalisse il primo vero e proprio bios dei due santi. Il manoscritto più antico che lo tramanda (il menologio contenuto nel palinsesto Cambridge University Library, Add. 4489) viene datato alla fine dell’VIII secolo, mentre le prime notizie di liturgie dedicate a costoro a Costantinopoli risalgono alla seconda metà del IX secolo, allo stesso tempo cioè delle prime apparizioni dei loro ritratti nelle decorazioni di chiese; è noto che canti per la liturgia in onore di Costantino e Elena furono composti dal patriarca Metodio e dall’imperatore Leone VI, ed è da osservare che i testi di questi canti comprendono il racconto della inventio della vera croce. Non sappiamo neppure quando fu istituita la festa di Costantino ed Elena, che si celebrava il 21 maggio ed era inclusa nel typikon della Grande Chiesa, nell’ambito della quale si svolgeva la cerimonia dell’Esaltazione della santa croce, celebrata a Gerusalemme già dal IV secolo, e poi introdotta a Costantinopoli dal VII. Secondo il typikon, in quel giorno si svolgevano celebrazioni in Santa Sofia, ai Santi Apostoli e nella chiesa dedicata a Costantino ed Elena presso il palazzo di Bonus, dove si venerava la croce. Faceva parte dell’insieme della stessa liturgia anche la venerazione della tomba che ne ospitava le spoglie3. Il culto di Costantino ed Elena e quello della vera croce, dunque, appaiono fin dalle origini strettamente legati. Giacché Costantino era considerato patrono dell’imperatore, è naturale che anche la croce divenga, nel tempo, simbolo e prerogativa imperiale.
Per quanto concerne le arti figurative, la prima attestazione a noi pervenuta del culto del primo imperatore ‘cristiano’, indicato come ‘santo’, è un incensiere, proveniente dal Libano o dalla Siria e ora in collezione privata, sulla cui superficie esterna sono raffigurati i busti di Cristo, della Vergine, di un angelo e di Costantino, qualificato dall’iscrizione ΜΕΓΑΛΟΥΣ ΥΠΕΡ ΑΝΑΠΑΥΣ[ΕΩΣ] ΚΑΡΙΛΟΥ ΠΡΟΣΕΝΕΓΚ[ΕΝ] ΤΟ ΑΓ[ΙΩ] ΚΟΣΤΑΝΤΙΝΩ. È abbigliato in vesti militari e sorregge nella mano una croce astile; attraverso confronti iconografici con i ritratti dell’imperatore e del busto di Cristo che compaiono su monete risalenti al secondo regno di Giustiniano II, l’incensiere viene datato da Marlia Mundell Mango al VII secolo4.
Come si ricava sia dalla testimonianza delle fonti sia dalle attestazioni iconografiche, il culto tanto della persona di Costantino quanto delle reliquie della Passione di Cristo si diffonde in anticipo rispetto al dilagare della crisi iconoclasta. Pertanto, il ruolo di quest’ultima nella diffusione del culto della croce (unico simbolo ammesso dagli iconoclasti nella decorazione degli edifici sacri), più volte richiamato dalla critica come determinante, deve essere in parte ridimensionato.
Costantino assurge così nel mondo bizantino al ruolo di santo, patrono del basileus, venerato, insieme alla madre Elena, nel mausoleo edificato dal figlio Costanzo presso i Santi Apostoli. Tale ‘santificazione’ però, avvenne probabilmente, non prima del VII secolo. Appare del resto significativo il fatto che, a parte il mausoleo stesso, secondo il corpus compilato da Raymond Janin, pressoché tutte le chiese o cappelle note poste sotto il vocabolo di S. Costantino nella città di Costantinopoli, datassero all’epoca mediobizantina5. Lo studioso francese ne menziona otto, tra chiese, cappelle, monasteri e metochia. La chiesa edificata, non lontano dai Santi Apostoli, presso il cosiddetto palazzo di Bonus (che sorgeva nei pressi della cisterna omonima), era probabilmente inclusa in un complesso monastico. Essa conservava la reliquia della croce di Costantino montata su un piedistallo, e vi era un altare a lui dedicato, sormontato da un ciborio d’argento; un secondo altare, nella stessa chiesa, era dedicato a Elena. Data la sua posizione, la visita a questa chiesa da parte dell’imperatore e l’adorazione del frammento di croce ivi esposto, avvenivano subito dopo la venerazione della tomba di Costantino. Un’altra chiesa con uguale dedica fu edificata da Basilio I all’interno del palazzo τῶν Πηγῶν. Di altre non si possiedono che informazioni incerte e frammentarie.
Un sarcofago rettangolare di porfido, collocato nella zona orientale del mausoleo circolare a lui destinato, a sua volta posto a est della basilica cruciforme dei Santi Apostoli, ospitava le spoglie di Costantino il Grande, «che per primo governò l’impero cristiano […] e che – dopo i dodici Apostoli – fu il tredicesimo araldo della fede ortodossa, nonché il fondatore di questa città cristiana»6. Le parole di Nicola Mesarite fotografano con nitidezza l’aspetto del sacello circolare, ultimato sotto il regno di Costanzo (337-361)7, destinato a fungere da heroon per l’autoproclamatosi isapostolos (sottolineando il proprio ruolo provvidenziale nel mondo), e per tutti gli isapostoloi a venire, cioè i suoi successori, cui viene conferita pari dignità rispetto, appunto, ai discepoli di Cristo, le cui reliquie erano state a loro volta traslate nella chiesa per volontà di Costantino. All’inizio del XIII secolo, quando Mesarite scrive, all’interno del mausoleo era ancora possibile contemplare, e venerare, le sepolture di numerosi imperatori. Si può immaginare che esse fossero disposte in circolo, una a fianco dell’altra, e che pertanto questo edificio – assieme al vicino heroon cruciforme di Giustiniano – si presentasse come un vero e proprio ‘pantheon’ degli imperatori bizantini, fino alla dinastia macedone (mentre, com’è noto, i Comneni eleggeranno a proprio luogo di sepoltura dinastico il monastero del Pantokrator): oltre a Costantino, secondo l’elenco fornito da Mesarite, vi erano infatti radunate le spoglie di Costanzo, Teodosio I, Pulcheria, Zenone, Anastasio, Basilio il Macedone, Leone VI, Teofano (moglie del precedente e venerata come santa), Costantino VII Porfirogenito, Niceforo Foca, Costantino VIII. Gli imperatori macedoni dimostrano così anche da questo punto di vista il proprio desiderio di legittimazione recuperando l’uso di essere seppelliti nel mausoleo dei Costantinidi, in piena sintonia con l’ideologia di revival alla base della «Rinascenza macedone». Particolarità della sepoltura di Costantino il Grande rispetto a tutte le altre era però che, nello stesso sarcofago, la tradizione voleva sepolti sia l’imperatore sia sua madre, Elena8. Il mausoleo era collegato direttamente alle tribune della basilica adiacente attraverso una scala esterna. Nel giorno della festa del santo la corte imperiale si recava presso la basilica dei Santi Apostoli e, introducendosi nel mausoleo di Costantino, il basileus vi incensava le tombe dei suoi predecessori9.
L’Apostoleion, di cui conosciamo l’aspetto nella sua versione giustinianea, si presentava come un vero e proprio grande reliquiario, non solo per il suo contenuto10, ma anche per la preziosità dei materiali impiegati. Oltre a ospitare altri sarcofagi imperiali (alcuni di essi erano di porfido), vi si dispiegava, infatti, una decorazione fastosa, composta di mosaici a fondo d’oro, nei quali era riprodotto un complesso ciclo iconografico comprendente sia scene della vita di Cristo (dodekaorton) sia episodi della vita degli apostoli. Tali mosaici tuttavia – prima ancora che da Nicola Mesarite, immortalati già nel X secolo nella celebre ekphrasis di Costantino Rodio11 – non facevano parte della decorazione del VI secolo, ma si trattava, come denuncia anche l’ampiezza del ciclo dedicato alla vita di Cristo, di una elaborazione di epoca posticonoclasta12.
Fin dalla fondazione della capitale sul Bosforo, Costantino aveva perseguito un uso politico delle reliquie, prescrivendo che fossero poste in luoghi ‘strategici’ quali l’Apostoleion e il proprio mausoleo. Solamente due secoli più tardi, tuttavia, si diffonde la credenza che importanti reliquie fossero state riposte da Costantino nella statua che lo ritraeva in cima alla colonna porfiretica del foro e nel basamento della stessa. Infatti è la cronaca di Giovanni Malalas (VI secolo) a riferire per prima che la statua era stata trasportata a Costantinopoli da «Ilio, città della Frigia»13, e che sotto la colonna fosse seppellito il Palladio, statuetta che ritraeva Atena, che, secondo la leggenda, sarebbe stata condotta a Roma da Enea nella sua fuga da Troia e conservata nel tempio di Vesta come talismano della città (oltre alla Cronaca di Malalas, ne parlano il Chronicon Paschale nel secolo seguente e Costantino Rodio nel X). Secondo la tradizione, questa ‘reliquia pagana’ sarebbe stata trasferita dalla vecchia alla nuova Roma proprio da Costantino14, che l’avrebbe poi associata alle reliquie – provenienti dalla Terrasanta – delle dodici ceste della moltiplicazione dei pani e dei pesci (anch’esse inserite nel basamento), delle croci dei due ladroni, dei vasi degli unguenti, e dei chiodi della Crocifissione15. Questi ultimi avrebbero trovato la loro collocazione all’interno dei raggi della corona della statua.
Non è invece noto quando, sulla piattaforma basamentale della colonna, sia stata edificata la cappelletta o sacello dedicata a san Costantino16, la cui esistenza è nota a partire da alcuni passaggi del De cerimoniis e collegata al cerimoniale imperiale: secondo il testo, composto nel X secolo, l’imperatore vi si recava in occasione della festività della Natività della Vergine, dell’Annunciazione, il Lunedì di Pasqua, e per la celebrazione dei trionfi militari17. Il basamento della colonna porfiretica è oggi completamente illeggibile, date le profonde manomissioni di epoca turca, ma è possibile formarsi un’idea del suo aspetto precedente a tali alterazioni grazie a una serie di disegni cinquecenteschi, i più accurati dei quali sono quello anonimo contenuto nell’Album Freshfield (Cambridge, Trinity College Library), e quello dell’artista danese Melchior Lorichs18. Al loro tempo, tuttavia, la cappella era già scomparsa senza lasciare traccia, né gli scavi archeologici condotti nell’area ne hanno chiarito i dettagli. Una possibile ricostruzione dell’aspetto del sacello è stata suggerita da Cyril Mango19 a partire dalle parole del De cerimoniis: l’autore dell’opera infatti riferisce che nelle occasioni ufficiali l’imperatore era solito salire i gradini che conducevano alla piattaforma su cui si ergeva il basamento della colonna e fermarsi davanti all’ingresso della cappella, di fronte alla quale era posta una grande croce processionale; il patriarca, invece, entrava nella cappella e si sporgeva dalla finestra sul lato nord di questa per pronunciare le litanie20. Secondo Mango, la cappellina, a navata unica e forse dotata di una piccola abside, si trovava addossata al fianco nord del basamento ed era dunque accessibile dal lato ovest della piattaforma. Essa non viene più menzionata dopo il X secolo, ed è possibile che sia stata demolita nel corso dei restauri seguiti alla caduta della statua di Costantino, durante una tempesta di vento nel 1105, quando l’effigie del sovrano fu sostituita da una croce. Quanto all’epoca della sua costruzione, essa rimane incerta, ma doveva esistere almeno dal IX secolo, dal momento che la cerimonia del Lunedì di Pasqua descritta dal De cerimoniis e che lì si svolgeva era in uso già al tempo di Leone VI21.
Secondo la tradizione che risale a sant’Agostino, il ritrovamento della croce avvenne grazie all’intervento di Elena in collaborazione con il vescovo di Gerusalemme Macario. Tra i materiali rinvenuti vi sarebbero stati la croce di Cristo, quella di uno dei ladroni, la spugna, i chiodi, il titulus della croce, la corona di spine, la lancia. Solo alcuni furono inviati a Costantinopoli dalla stessa madre di Costantino. Molte di tali reliquie sono citate sporadicamente nelle descrizioni dei santuari costantinopolitani22. Si è già menzionata ad esempio la tradizione secondo cui la croce del buon ladrone avrebbe fatto parte delle reliquie nascoste al di sotto della colonna del foro di Costantino. Per quanto riguarda la santa lancia, se ne ha notizia dalle parole di Adamnano, che alla fine del VII secolo trascrive il racconto del pellegrino Arculfo:
Il medesimo Arculfo nondimeno vide anche la lancia con la quale il soldato colpì il fianco del Signore, mentre era appeso sulla croce. Questa lancia si trova nel portico della basilica di Costantino [scil. nell’atrio del Santo Sepolcro], inserita in una croce di legno, la cui asta è tagliata in due parti. Allo stesso modo tutta la città di Gerusalemme, recandosi a visitarla, la bacia e la venera23.
La presenza della lancia, dunque, alla metà del VII secolo è ancora attestata a Gerusalemme. Tuttavia doveva trovarsi a Costantinopoli nel X secolo, poiché il De cerimoniis menziona la venerazione di quest’oggetto durante la liturgia del Venerdì santo, come si vedrà oltre.
Le notizie relative ai chiodi sono invece disparate: dalla loro presunta trasformazione da parte di Costantino in elmo24 o in morso per il proprio cavallo, alla loro inclusione nei raggi della corona della statua, fino a una lunga tradizione medievale secondo cui uno di essi sarebbe conservato nel Duomo di Monza, inserito nella parte interna della cosiddetta ‘corona ferrea’25. Secondo la leggenda, uno dei sacri chiodi inviati da Elena dalla Terrasanta sarebbe stato adattato a morso del cavallo di Costantino; questo, in seguito, trasformato in una fascetta metallica, fu posto all’interno della corona, per fermare quattro delle sei placche d’oro con smalti e gemme.
Qui di seguito ci si soffermerà sulla reliquia ‘principe’ del tesoro di Elena, ossia la vera croce, la cui devozione ha dato luogo ad alcune tra le più alte realizzazioni dell’oreficeria medio e tardobizantina.
Secondo la notizia riportata da Socrate Scolastico (prima metà del V secolo) una reliquia della vera croce, inviata a Costantinopoli da Elena entro un cofanetto d’argento, era stata inserita per volontà di Costantino all’interno della statua che lo ritraeva, eretta sulla colonna del suo foro26. Mentre a Gerusalemme, dunque, il culto delle reliquie della Passione di Cristo prende piede assai presto, a Costantinopoli ciò non avviene subito, almeno a livello pubblico: Costantino infatti avrebbe «posto segretamente» la reliquia dentro la sua statua a mo’ di protezione della città27. Occorre attendere l’inizio del VI secolo per rintracciare la prima menzione di cerimonia pubblica con apparizione della reliquia della croce28. Il Chronicon Paschale, un secolo più tardi, offre la prima testimonianza di venerazione pubblica della reliquia della croce a Costantinopoli, che ebbe luogo in Santa Sofia. L’autore della cronaca pone questo episodio nel 614, ma studi recenti hanno proposto che ciò possa invece aver avuto luogo nel 629, in concomitanza con il recupero della reliquia da parte di Eraclio29. In quell’anno (628-629) l’imperatore recupera le reliquie della Passione dalle mani dei persiani e le riporta a Gerusalemme, da cui in seguito, nel 637-638, dopo l’invasione araba vengono trasferite a Costantinopoli30, e da allora, ricongiunte a quella già presente nella capitale, furono regolarmente esposte a venerazione nella Santa Sofia.
Anche per questo aspetto possiamo avvalerci della testimonianza di Arculfo, che nella seconda metà del VII secolo si reca anche a Costantinopoli e descrive il reliquiario in cui il sacro legno era contenuto: si trattava di un contenitore ligneo (una sorta di cassetta, forse decorata), a sua volta riposto in un armadio31.
La diffusione dei frammenti del sacro legno è incentivata anche dalla ‘sponsorizzazione’ che ne viene fatta da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Testimonianze in tal senso risalgono già a circa il 350, quando il vescovo di Gerusalemme Macario comincia a parlare, nei suoi sermoni, dell’importanza di possedere reliquie della vera croce32. Verso la fine del IV secolo, un vescovo occidentale, Paolino di Nola, afferma di possedere lui stesso una reliquia della croce, e ne invia un frammento a Sulpicio Severo, che sta intraprendendo la costruzione della basilica di Primuliacum33. I reliquiari destinati a contenere il prezioso legno assunsero le forme e dimensioni più disparate, talvolta persino architettoniche, se si può considerare come una sorta di grande reliquiario la stessa chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Tuttavia il formato più comune è quello di piccoli oggetti (stauroteche, enkolpia) trasportabili, che potessero essere esposti alla pubblica venerazione durante la liturgia o in occasioni speciali (reliquiari appositi o, talvolta, coperte di evangeliari), oppure essere indossati come amuleti. In quest’ultimo caso, oltre agli enkolpia da portare al collo34, se ne poterono ricavare gioielli di varie fogge, perfino fibule o cinture.
Si può affermare che lungo l’intero corso del Medioevo il culto della reliquia della vera croce non conosca soluzione di continuità, sia nel mondo bizantino che nell’Occidente europeo. La produzione di contenitori preziosi, esplicitamente destinati a contenerne la reliquia (stauroteche) è, di conseguenza, assai vasta e variegata. Si tratta di oggetti di oreficeria destinati, principalmente, alla conservazione e venerazione del sacro legno, ma in alcuni casi in associazione con altre reliquie di Cristo, della Vergine, dei luoghi santi. Un tentativo di classificare tipologicamente reliquiari della vera croce si deve ad Anatole Frolow35. Le tipologie di stauroteca maggiormente diffuse nel mondo bizantino (e formatesi probabilmente in ambito costantinopolitano) sono quelle «a tavola» o a cassetta, con o senza coperchio scorrevole, e «a croce a doppia traversa», esse sono anche le uniche forme specifiche proprie della stauroteca, in quanto ‘nate’ specificamente come teche del sacro legno. Molti di questi oggetti sono andati perduti, ma di taluni siamo a conoscenza grazie a testimonianze letterarie o grafiche36. Tuttavia il numero di manufatti conservati appartenenti a questa categoria è assai elevato.
In queste righe sarà necessario operare una sintesi e ci si soffermerà, soprattutto, sulle stauroteche di produzione bizantina e orientale (oggi conservate in collezioni occidentali, dove in molti casi giunsero già nel Medioevo), rinunciando a trattare in maniera estesa quelle realizzate in Occidente, sulle quali la bibliografia generale è assai vasta e nota37. Del resto, se in Occidente la grande esplosione di questo culto avviene in concomitanza con le crociate, momento in cui aumenta esponenzialmente la produzione di reliquie dei luoghi santi (e perfino di oggetti, spesso veri e propri edifici, che riproducono i santuari di Terrasanta, in particolar modo il Santo Sepolcro, cui era annessa la grotta del ritrovamento della vera croce), e non solo di semplici ‘souvenirs’ legati ai pellegrinaggi, la loro diffusione nel mondo bizantino è assai più precoce.
Già alla seconda metà del VI secolo data il dono offerto dall’imperatore Giustino II (565-578) e dalla moglie Sofia al papa Giovanni III, oggi montata su una base barocca e conservata nel Tesoro di S. Pietro in Vaticano38. Vi troviamo alcune caratteristiche ricorrenti anche su croci-stauroteca di epoca più tarda. Sui bracci patenti, su cui sono incastonate pietre preziose (ma probabilmente frutto di una sostituzione, laddove in origine dovevano apparire delle perle) corre l’iscrizione in latino che ne ricorda la provenienza; la reliquia è posta all’incrocio dei bracci, ora racchiusa da un disco d’oro appartenente a un restauro ottocentesco, mentre sul verso, eseguiti a sbalzo (tecnica tipica per il retro di questo tipo di oggetti) compaiono clipei raffiguranti, al centro, l’agnello mistico, alle estremità dei bracci orizzontali i ritratti di Giustino e Sofia, a quelle dei bracci verticali, per due volte, il busto di Cristo; la superficie rimanente è campita da elementi vegetali. Altri reliquiari della vera croce sono conservati anch’essi in Vaticano, nel Museo Sacro. La croce smaltata di Pasquale I (817-84), dotata anche di teca cruciforme in argento sbalzato, è un notevole esempio di stauroteca cruciforme interamente rivestita di smalto cloisonné pieno, probabilmente di produzione romana, ma che ricorda nella forma oggetti coevi di origine bizantina, come la cosiddetta croce di Beresford-Hope (Londra, Victoria and Albert Museum), la quale rientra però nella categoria della croci pettorali, di dimensioni assai inferiori39. Ancora in Vaticano, la stauroteca in legno a cassetta con l’effigie di san Giovanni Crisostomo viene invece assegnata al X-XI secolo40.
La decorazione eseguita a filigrana sia sul recto che sul verso è anch’essa frequente sulle croci-stauroteca. Ad esempio quella nel tesoro dell’abbazia di Cava dei Tirreni, che mostra motivi astratti e allusivi (si veda il cantharos), i simboli della Passione e rosoncini alle estremità41. Si tratta di una piccola croce pettorale (altezza 100 mm), ascritta all’XI secolo e la cui provenienza oscilla tra Costantinopoli e un laboratorio italomeridionale. Altre croci, da riferire probabilmente a una produzione di ambito locale, sono quella della cattedrale di Gaeta e quella di Cosenza (Tesoro della Cattedrale), donata alla sede vescovile calabrese da Federico II nel 1221, ma di manifattura più antica (XI-XII secolo)42.
In una grande messe di oggetti appartenenti a questa categoria di reliquiari, si distingue quello che si può considerare come uno dei manufatti più lussuosi, e giustamente celebri, tra i reliquiari della vera croce di produzione mediobizantina: la stauroteca oggi nel Museo del Duomo di Limburg an der Lahn, in Renania43, che si trova in Germania fin dal 1207, dove fu portata dal cavaliere Heinrich von Ulmen dopo la quarta crociata. Essa è, di fatto, il risultato dell’assemblaggio di due diversi reliquiari, realizzati a distanza di pochi decenni l’uno dall’altro. La vera e propria reliquia del sacro legno, infatti, è inclusa in una struttura cruciforme e a doppia traversa in legno di sicomoro, incastonata in una sorta di ‘legatura’ in oro, adorna di perle agli angoli, e ulteriormente impreziosita da pietre preziose alla giuntura centrale (parte di tali elementi è di restauro), che nasconde i preziosi frammenti. Sul retro corre un’iscrizione che ricorda gli imperatori Costantino VII e suo figlio Romano II e che dunque data il manufatto agli anni 945-959. Successivamente, questo primo reliquiario fu inserito in un contenitore più grande, a forma di cassetta rettangolare dotata di coperchio scorrevole e di un anello in alto per consentirne l’esposizione. Come recita l’iscrizione che corre sulla cornice del coperchio, quest’operazione fu voluta dal proedros Basilio, potente funzionario che ricoprì cariche elevatissime sotto i regni di Costantino VII Porfirogenito, Niceforo Foca e Giovanni Zimisce, e fu tutore di Basilio II e Costantino VIII durante la loro minore età, fino alla sua estromissione da parte di Basilio II e successiva morte in esilio nel 985. L’intervento condotto sulla stauroteca risale verosimilmente proprio all’ultima fase della carriera del potente eunuco. Si tratta di un’opera eccezionale, sia come qualità sia quanto a valore simbolico, a ragione ritenuto capolavoro dell’oreficeria del X secolo. La cassetta, costituita da un’anima lignea rivestita di una lamina d’argento dorato, è di grandi dimensioni, misurando 48 × 35 × 6 cm. L’oggetto chiuso mostra, sul coperchio, un’elaborata decorazione a smalto cloisonné sia pieno che incassato e dischi di pietre preziose, al centro della quale, su nove placchette dorate, sono raffigurati Cristo in trono affiancato da Giovanni Battista e l’arcangelo Gabriele, a sinistra, e dalla Vergine e l’arcangelo Michele, a destra; al di sopra e al di sotto, le figure dei dodici apostoli; nella cornice sono poi inseriti i busti di santi vescovi e militari. Nel vano interno si dispiega la corte celeste, formata dalle schiere angeliche (Dominazioni e Potestà), qui poste come a guardia delle reliquie custodite nei dieci scomparti sottostanti, che affiancano su tutti i lati il sacro legno. Ciascuna di esse è identificata da un’iscrizione, dalle quali sappiamo che vi sono contenuti: le fasce di Gesù Cristo, la corona di spine, il sudario, il velo (lention) e la veste purpurea di Cristo, la spugna, i capelli di san Giovanni Battista, il velo (maphorion) e la cintura della Vergine. Sui fianchi e sul retro la decorazione è realizzata a sbalzo: la faccia posteriore mostra una grande croce fogliata, che ripete il senso del contenuto del reliquiario. È evidente che una tale dimostrazione di reliquie in un contenitore tanto lussuoso corrispondeva a una deliberata dimostrazione del proprio potere da parte del committente.
Si è spesso pensato, per queste stauroteche a cassetta, a un utilizzo in contesti militari, ovvero che, come avveniva per le icone con i Santi guerrieri, l’imperatore portasse con sé in guerra la reliquia della vera croce per propiziare la propria vittoria. Quest’uso, attestato sia da fonti scritte che iconografiche, si può tuttavia escludere per la stauroteca di Limburg, proprio in ragione delle sue caratteristiche ‘tecniche’ e del suo valore simbolico che, messo in relazione con gli altri capolavori prodotti per Basilio proedros, fa ritenere più verosimile un suo significato ‘politico’ di autocelebrazione del committente (palese dalle parole dell’iscrizione sul coperchio), che si sarebbe manifestata piuttosto durante la pubblica esposizione della reliquia nei giorni di festa.
Nella chiesa di S. Francesco a Cortona, inserita in una cornice più tarda, si conserva una stauroteca d’avorio a tavola, portata in Toscana da Frate Elia44. Sul recto, al centro della scena è l’andito che ospita la reliquia; in alto e in basso sono visibili sei clipei, in cui sono ritratti, in alto, Cristo tra due arcangeli e, in basso, Costantino (al centro), Elena (a sinistra) e Longino (a destra); i rettangoli di risulta tra i bracci della croce sono occupati dalla Vergine e san Giovanni Battista (in alto) e dai santi Stefano e Giovanni Evangelista (in basso). Sul verso, l’iscrizione che corre sulla cornice ricorda la donazione dell’oggetto da parte dello skeuophylax di Santa Sofia, Stefano, al suo convento d’origine, forse un monastero costantinopolitano dedicato a san Giovanni; un’altra epigrafe è formata da caratteri disposti in forma di croce e ricorda un imperatore Niceforo, in cui è da riconoscere Niceforo II Foca (963-969)45. L’iconografia del recto appare di grande interesse, poiché non solo vi sono ritratti Costantino ed Elena, ma in essa Costantino è posto in rapporto diretto con Cristo, rapporto sottolineato dalla disposizione assiale dei due ritratti46. Siamo di fronte a un caso eccezionale. Infatti, la presenza dei ritratti di Costantino ed Elena nella decorazione delle stauroteche se, da un lato, si riferisce iconograficamente ai due gruppi statuari (in cui comparivano appunto i due sovrani in piedi ai lati di una croce) collocati da Costantino a Costantinopoli, l’uno nel foro e l’altro sul milion, dall’altro hanno la specifica funzione di attribuire alla reliquia autenticità e valore di prerogativa imperiale. I due compaiono generalmente stanti, ai lati del braccio verticale inferiore della croce, abbigliati con vesti imperiali, e sostituiscono, in questi casi, i protagonisti della scena della crocifissione.
Questo tema è assai comune sui reliquiari della vera croce almeno a partire dal X secolo, e viene riproposto in numerosi esempi, ma con poche varianti. La ‘formula’ classica, sia pure in scala dimensionale ridotta, compare ad esempio sul Trittico di Stavelot (New York, Pierpont Morgan Library)47. Il maggiore dei due piccoli trittici bizantini a smalto cloisonné (fine XI-inizio XII secolo) inseriti in un altarolo, anch’esso a trittico, di fattura mosana (eseguito circa mezzo secolo più tardi), mostra l’andito cruciforme in cui è conservato il sacro legno. Ai lati della croce sono ritratti Costantino ed Elena, entrambi qualificati come «hagioi» e accompagnati, in alto, da due arcangeli e, sugli sportelli, da quattro santi militari. Gli sportelli del trittico mosano sono arricchiti da pietre preziose e decorati da sei dischi a smalto champlevé, che raffigurano rispettivamente, quelli sullo sportello di sinistra, tre episodi relativi alla conversione di Costantino: il sogno, la battaglia di ponte Milvio e il battesimo; quelli a destra, la scoperta della croce da parte di Elena: l’inchiesta presso gli ebrei, il ritrovamento e il riconoscimento della vera croce.
Una variante rispetto allo schema comune è offerta, nella seconda metà del XII secolo, dalla Stauroteca di Esztergom (Ungheria)48, che è concepita come un’icona. Si tratta infatti di una tavola, dove, attorno all’andito centrale che alloggia la reliquia, si dispongono le scene realizzate a smalto: nel registro più alto, i due angeli; Costantino ed Elena, in piedi e in vesti imperiali, colti nell’atto di indicare il sacro legno, sono disposti non ai piedi della croce, ma a ridosso delle estremità dei due bracci orizzontali di essa; il registro inferiore infatti è occupato da due scene narrative: Cristo condotto al Calvario e la Deposizione dalla Croce. La cornice della tavola, eseguita a repoussé, è un’opera più tarda, probabilmente del XIII o XIV secolo.
Vale la pena ricordare undici reliquiari a forma di croce doppia, o a doppia traversa, trovati in musei e tesori europei e non raggruppati come prodotto di una stessa officina operante a Gerusalemme alle dipendenze dei canonici del Santo Sepolcro49. A Costantinopoli, tradizionalmente, era stato inviato il frammento più grande della vera croce, e la gran parte delle reliquie provengono da lì. Come si è visto, dopo il recupero della reliquia da parte di Eraclio durante la riconquista di Siria e Palestina, anche il frammento che un tempo si trovava a Gerusalemme fu portato nella capitale. Ma in seguito anche i crociati ritrovarono, miracolosamente, la croce a Gerusalemme, anche se essa non avrebbe dovuto trovarvisi, e dunque in Europa inizia, a partire dall’XI secolo, una nuova diffusione di reliquie della vera croce (provenienti da Gerusalemme), che si ponevano, per così dire, in ‘concorrenza’ con quelle provenienti da Costantinopoli. È in questo contesto che si inseriscono le undici croci gerosolimitane, inviate come dono del patriarca o del re a potenti occidentali50.
Il culto di Costantino e delle reliquie rinvenute da Elena sono strettamente legati alla tradizione della fondazione di chiese a Costantinopoli da parte dell’imperatore. Non si tratterà qui il problema, a lungo e tuttora dibattuto, delle fondazioni cristiane di Costantino nelle città dell’Impero. Si prenderanno in esame solo le fondazioni costantiniane direttamente legate al culto delle reliquie, e il loro destino dal VII secolo in poi, oltre a tutti quegli edifici sorti ex novo in epoca iconoclasta o posticonoclasta e destinati a fungere da ‘scrigni’ per la conservazione delle reliquie.
In primis, deve essere considerata la Santa Sofia: è qui infatti che originariamente era conservata la reliquia della vera croce, e dove la vede Arculfo, in una cassa di legno sistemata all’interno di un armadio, dal quale veniva estratta in determinate occasioni. Altre chiese, a Costantinopoli, destinate alla raccolta di reliquie, si trovavano all’interno del palazzo imperiale.
Attestata per la prima volta nel 76951, questa chiesa si trovava all’interno del Grande palazzo, precisamente nella zona del Bukoleon, complesso di edifici datati per lo più al VI-VII secolo, che insistevano su un terrazzamento affacciato sul Mar di Marmara e caratterizzato dalla presenza, nelle sue vicinanze, di un faro, da cui appunto la chiesa deriva il suo nome. Nella stessa zona del palazzo si trovavano una serie di ambienti, di carattere sia privato (l’appartamento dell’imperatore) sia pubblico: il Chrysotriklinos, cioè la sala d’udienza del palazzo, il tesoro palatino (phylax), altri oratori fatti edificare da Basilio I e Leone VI, e tali ambienti erano in collegamento diretto con la Nea Ekklesia52.
Non si conosce l’aspetto che la chiesa presentava originariamente, ma, al contrario, si è ben informati della sua decorazione successiva alla ricostruzione operata da Michele III, grazie alle parole di Fozio nell’omelia pronunciata nell’864, la decima nel corpus omiletico del patriarca53. Si trattava di un edificio di piccole dimensioni, coperto da una cupola (dunque verosimilmente a croce inscritta con cupola poggiante su quattro colonne), alla sommità della quale si affacciava l’immagine di Cristo attorniato da angeli, mentre il catino absidale era occupato dalla Vergine orante. La presenza di entrambe le immagini, per quanto frequente nella decorazione delle chiese mediobizantine, secondo Paul Magdalino, è da ritenere particolarmente significativa per la chiesa del Faro, dedicata alla Vergine, ma destinata a conservare le più importanti reliquie di Cristo54, tra cui quella della croce, un frammento della quale vi fu deposto da Costantino VII Porfirogenito. Il resto della decorazione era costituito da figure iconiche di apostoli, martiri, profeti e patriarchi. Si sa anche che era dotata di un nartece55 e terminava in tre absidi56.
La chiesa del Faro diviene la cappella palatina per eccellenza, in cui si svolgevano cerimonie imperiali come l’investitura della zoste patrikia57 e le nozze dei sovrani, e in cui l’imperatore assisteva alle liturgie della Settimana Santa e della Pasqua, tra cui quella del Venerdì Santo, del cui rito faceva parte l’adorazione della santa lancia, mentre la venerazione solenne della reliquia della vera croce aveva luogo in questa chiesa nella domenica di Mezza Quaresima e il 1° agosto58. Stando al De cerimoniis, tuttavia, nella prima metà del X secolo la chiesa del Faro non ha ancora assunto la caratteristica di grande reliquiario delle iera leipsana che avrà in seguito: la stessa reliquia della croce non era conservata in questo luogo, bensì nello skeuophylakion del Grande Palazzo, da cui veniva estratta nelle occasioni di cui sopra, trasportata nello skeuophylakion della chiesa del Faro e di lì esposta, una parte, nella chiesa stessa, altre due parti rispettivamente nella chiesa di Santo Stefano (anch’essa nel Grande Palazzo) e nella Nea.
Dopo il trasporto a Costantinopoli, nel 944, del Mandylion di Edessa, per interessamento dell’imperatore Romano I Lecapeno, e la sua collocazione dapprima, forse, nella chiesa di Cristo alla Chalke (da lui fondata), e in seguito nella chiesa del Faro59, tutte le reliquie di Cristo che giungeranno a Costantinopoli andranno ad arricchire le due chiese palatine, in particolare durante i regni di Niceforo II Foca e Giovanni Zimisce, i principali responsabili della riconquista all’impero di territori in Siria e Palestina. Tale espansione militare in Oriente generò un nuovo consistente afflusso di reliquie dai luoghi santi. In effetti, il primato assoluto della chiesa del Faro come ricettacolo delle più preziose reliquie imperiali giunse, probabilmente, con Basilio II, desideroso di ristabilire la precedenza, al di sopra delle altre, della chiesa di (ri)fondazione macedone, nata dalle ceneri dell’iconoclastia. Furono definitivamente traslate qui le reliquie fin allora preservate alla Chalke, e tale destinazione fu data per scontata per tutte le successive acquisizioni60, aumentandone così il patrimonio, nel corso dei secoli X-XII, fino a renderla quella ‘Sainte-Chapelle’ cui si ispirerà Luigi IX per l’allestimento del santuario parigino, due secoli dopo, facendovi trasferire da Bisanzio una gran quantità di reliquie della Passione. Tra queste, naturalmente, quelle della santa croce, racchiuse nei loro reliquiari d’argento e d’oro61.
L’afflusso di reliquie a Costantinopoli, e dunque alla chiesa palatina, si ridusse fino a interrompersi, a causa della nuova perdita dei territori riconquistati, a partire dalla seconda metà dell’XI secolo. In tale periodo, in particolare dopo l’inizio delle crociate, la chiesa del Faro, in quanto ricettacolo delle reliquie del Signore, venne sfruttata nella competizione di Costantinopoli con i luoghi santi, affermando che la sua esistenza valesse a classificare la città come Nuova Gerusalemme. Il fatto che vi si conducessero in visita gli ospiti più rappresentativi, anche quando gli imperatori iniziarono a risiedere di preferenza alle Blacherne, ha fatto sì che ne sia stata conservata la descrizione nei resoconti di molti visitatori occidentali, che ci consentono di conoscerne il patrimonio62. Nel XII secolo, la visita di Amalrico di Gerusalemme è registrata da Guglielmo di Tiro, che ci informa di come nella chiesa fosse possibile venerare, oltre alla croce e la lancia, i chiodi, la spugna, la canna, la corona di spine e il sudario63 di Cristo.
L’unico autore bizantino a parlare dell’aspetto della chiesa del Faro nel XII secolo è Nicola Mesarite, tesoriere (skeuphylax) delle chiese del Grande Palazzo nel 1200 durante la rivolta dell’usurpatore Giovanni Comneno, che descrive la chiesa come una seconda Terrasanta, e più ancora come un’Arca, in cui le dieci reliquie principali costituiscono una sorta di decalogo64. Egli ne descrive anche tutti quegli arredi preziosi che attiravano i rivoltosi (che egli convince a non profanare il santuario): le porte argentee, il ciborio a forma di piramide sostenuto da quattro colonnine d’oro e d’argento, le croci ricoperte d’oro e tempestate di perle e pietre preziose, le colombe d’oro sospese sull’altare e dalle ali ricoperte di perle e smeraldi, che sorreggevano nel becco croci, anch’esse di perle. Mesarite non descrive alcuno dei mosaici menzionati nel IX secolo da Fozio, ma si limita a fare riferimento alla presenza di scene della vita di Cristo in relazione alle reliquie (cui non faceva alcun cenno Fozio): secondo Magdalino, è possibile che una parte dei mosaici, forse quelli del settore più basso delle pareti, fosse stata nel frattempo sostituita o integrata con alcune scene cristologiche, oppure queste ultime potevano essere state realizzate sotto forma di icone65. Quanto all’esposizione delle reliquie stesse, l’anonimo del manoscritto Tarragonensis 55 afferma che, tranne il Mandylion (che rimaneva sempre chiuso nella sua custodia), tutte le reliquie venivano mostrate ai fedeli66. Anche Antonio di Novgorod67 e altri osservatori occidentali stilano lunghi elenchi delle reliquie che videro di persona68.
Durante il regno latino, molte reliquie della chiesa del Faro, con i loro scrigni preziosi, vengono inviate in Occidente69. In seguito, non si ha più notizia della chiesa.
In conclusione di questa disamina, è necessario accennare a un altro aspetto del culto delle reliquie di tradizione costantiniana, ovvero quello delle ‘reliquie per eccellenza’: i luoghi santi. Il VII secolo, come è stato più volte ribadito, si apre con un evento drammatico per le regioni orientali dell’Impero: la conquista persiana di Gerusalemme (614), capeggiata da Cosroe, in occasione della quale la città viene saccheggiata di alcuni dei suoi tesori più preziosi, tra cui la vera croce di Cristo, portata a Ctesifonte. La reliquia sarà recuperata quindici anni più tardi, ma non farà ritorno a Gerusalemme se non per breve tempo, poiché per ragioni di sicurezza si deciderà presto di trasferirla a Costantinopoli, in seguito alla conquista da parte del califfo Umar70. Di questa importantissima reliquia e della sua storia successiva si è già ampiamente parlato, ma è indispensabile sottolineare l’importanza, soprattutto simbolica, del suo recupero sullo sviluppo successivo, come della storia, anche della produzione artistica legata ai luoghi santi.
Per quanto concerne l’architettura, si prenderanno in esame solo quelle fondazioni costantiniane direttamente connesse al culto delle reliquie della Passione a loro volta collegate alla tradizione del loro ritrovamento da parte di Elena, e in particolare il destino di tali edifici dopo l’invasione della Terrasanta da parte dei persiani, all’inizio del VII secolo. A parte la basilica dell’Eleona sul monte degli Ulivi, di cui relativamente poco si conosce per l’epoca successiva al 614 (quando il complesso subisce danni legati al saccheggio della città), è utile ricordare le vicende che coinvolsero i due principali edifici di Costantino in Terrasanta: il Santo Sepolcro e la Natività di Betlemme.
Dedicato nel 336 da Costantino sul luogo della scoperta della tomba di Cristo71, il complesso del Santo Sepolcro fu incendiato dai persiani durante il saccheggio di Gerusalemme nel 614; la sua ricostruzione venne promossa, dopo il suo recupero da parte dei bizantini, dal patriarca Modesto. In seguito, quando la città cadde di nuovo in mano musulmana (638), i santuari cristiani rimasero tuttavia in uso e furono regolarmente oggetto di culto da parte dei pellegrini. Preziosa per questa fase è la testimonianza, ben nota, di Arculfo, vescovo gallo pellegrino in Terrasanta nella seconda metà del VII secolo. Come già ricordato, il suo racconto de visu è ascoltato e trascritto da Adamnano di Iona, e comprende anche un celebre disegno raffigurante la pianta schematica del complesso. Arculfo descrive sia la rotonda dell’Anastasis con la sottostante edicola che racchiudeva il Santo Sepolcro72, sia la chiesa costruita sul luogo del Calvario e il suo spettacolare arredo:
Verso oriente, invece, un’altra grandissima chiesa fu costruita nel luogo che in ebraico è chiamato Golgota. Nella parte superiore è sospeso alle funi un grande candeliere circolare di bronzo con lampade, sotto il quale è collocata una grande croce d’argento, innalzata nel medesimo luogo in cui un tempo fu piantata la croce di legno, sulla quale patì il Salvatore del genere umano […]73; sia, infine, la cappella costruita sul luogo del ritrovamento della croce di Cristo e di quelle dei due ladroni74.
Nella seconda metà del X secolo, i rapporti tra cristiani e musulmani iniziano a farsi più tesi, fino a culminare, nel 1009, nella distruzione della chiesa della Resurrezione (la Rotonda dell’Anastasis) a opera del califfo fatimide d’Egitto al-Hakim. L’iniziativa della ricostruzione che segue del Santo Sepolcro viene comunemente attribuita a Costantino IX Monomaco (1042-1055), sulla base della testimonianza di Guglielmo di Tiro75. Tuttavia, l’entità dei lavori promossi da Costantino IX deve forse essere ridimensionata. La ricostruzione è esplicitamente menzionata nella Chronica di Giovanni Scilitze: lo storico bizantino, dopo aver descritto l’incendio del santuario da parte dei Saraceni durante il regno di Niceforo Foca76, riferisce che, durante il regno di Romano III Argiro (1028-1034), il figlio e successore del califfo, al-Zahir, concesse ai cristiani di poter ricostruire la chiesa (già oggetto di interventi non sistematici a partire dal 1012), e che l’imperatore si premurò di inviare maestranze per farla riedificare magnificamente; ma Romano non poté realizzare l’impresa per il sopraggiungere della morte, e fu Michele, il suo successore, a compiere l’opera77. L’intervento di Costantino IX è pertanto, secondo Martin Biddle, piuttosto da interpretare come la conclusione dei lavori e del progetto già iniziato ufficialmente dal suo predecessore Michele IV Paflagone (1034-1041), sulla base della menzione di Scilitze; ma anche sulla base della testimonianza di Yahya di Antiochia che riferisce dei negoziati di pace tra al-Zahir e Romano III, i quali includevano la possibilità da parte dell’imperatore di ricostruire la chiesa a sue spese, ma che furono interrotti dalla morte di Romano, e poi ripresi e conclusi da Michele IV con il nuovo califfo al-Mustansir nel 1037-1038; nonché considerando le testimonianze dei pellegrini di quegli anni, che alludono all’edificio come già in fase di ricostruzione78.
Che Costantino IX, anche se non fosse lui il responsabile della ricostruzione, cercasse di porsi come ‘nuovo Costantino’, è evidente sotto molti punti di vista. Innanzitutto vi è la tradizione secondo la quale il katholikon della Nea Moni di Chios fosse modellato sul mausoleo di Costantino79; il fatto poi che avesse sovvenzionato una scuola per lo studio del diritto romano80; inoltre un panegirico di Michele Psello paragona Costantino Monomaco a Costantino I (sottolineandone l’omonimia) nella sua attività di abbellimento e potenziamento delle infrastrutture nella città di Costantinopoli81. In ogni caso, chiunque ne sia stato il promotore, il progetto ricostruttivo del Santo Sepolcro è assai più modesto dell’edificio costantiniano. La basilica a est del Sepolcro, di fatto, non fu ricostruita, cosicché il fulcro del complesso divenne a tutti gli effetti la rotonda dell’Anastasis, mentre l’atrio che separava quest’ultima dalla basilica orientale fu circondato da cappelle, che celebravano i vari momenti della Passione di Cristo e ne custodivano reliquie. Attraverso una scala era possibile scendere in una cappella sotterranea che commemorava l’inventio della vera croce da parte di Elena, mentre altre cappelle e sacelli sorsero sul sito del Calvario e a nord e a sud della rotonda stessa. Il tutto venne realizzato con ampio uso di materiali di spoglio.
L’ultimo importante ampliamento del Santo Sepolcro risale all’epoca crociata e, consacrato probabilmente negli anni Sessanta del XII secolo82, fu caratterizzato da forme tipicamente romaniche: a est, al posto dell’atrio con cappelle e dell’abside bizantina, fu aggiunto un transetto, con cupola all’incrocio dei bracci, che terminava a Oriente in un profondo coro con deambulatorio a cappelle radiali. L’ingresso, aperto nella facciata meridionale del transetto, presenta una notevole elaborazione plastica ed elementi decorativi che fondono stilemi propri del repertorio occidentale (gli archi, dal profilo acuto, con marcati sguanci, e con ghiera a bugnato), bizantino (i capitelli ‘a foglie mosse dal vento’), islamico (le decorazioni degli archi), e forse elementi di spoglio. Possediamo alcune notizie anche in merito all’estesa decorazione interna del Santo Sepolcro della fase crociata. Il pellegrino Teodorico, intorno al 117283, ci informa che l’abside conteneva una rappresentazione dell’Anastasis, forse corrispondente, nell’iconografia, alla decorazione dell’abside bizantina, e il cui unico elemento conservato è il mosaico raffigurante l’Ascensione di Cristo al Calvario84.
Degli interventi post-giustinianei condotti nella basilica di Betlemme, la testimonianza più rilevante è offerta dalla decorazione musiva. La primitiva basilica eretta sulla grotta ritenuta il luogo di nascita di Gesù era decorata da una ricca stesura musiva pavimentale, in parte conservatasi, anche se probabilmente essa risaliva a un intervento successivo a quello di Costantino. Il secondo edificio, di cui si è preservata in gran parte la struttura architettonica, riferita al VI secolo, era dotato di un’estesa decorazione musiva sia all’interno della grotta che sulle pareti dell’edificio, la cui sopravvivenza è attestata da fonti di VII, IX e X secolo. Di essa oggi non rimane traccia, poiché sostituita interamente in epoca crociata, nel XII secolo85. Tale intervento dovette consistere in un rifacimento della decorazione esistente, nel rispetto dell’iconografia, con la sola aggiunta di un mosaico con la nascita di Cristo, nella grotta, parzialmente conservato. Quanto alla ridecorazione della chiesa, i mosaici e le pitture che ne rivestono le pareti costituiscono oggi il ciclo decorativo più ampio e completo che si sia conservato in Terrasanta, nonché un rilevante esempio di pittura di ‘stile dinamico’ comneno. Lo schema decorativo mediobizantino è stato qui trasposto nello spazio di una basilica paleocristiana86: la Vergine nel catino, l’Annunciazione sull’arco absidale, il dodekaorton nel bema e nel transetto, e sul resto delle pareti gerarchie angeliche, antenati di Cristo e Santi. Esso viene qui però arricchito con elementi di origine occidentale, come l’albero di Iesse, che compariva (oggi è perduto) nella controfacciata, ed elementi originali, quali le rappresentazioni dei concili ecumenici e provinciali sulle pareti della navata centrale, la cui presenza aveva lo scopo di sottolineare il perfetto equilibrio delle due nature, umana e divina, di Cristo, secondo i dettami dell’ortodossia. Tre epigrafi ancorano l’esecuzione di questi mosaici ad alcune date (comprese tra il 1130 e il 1191) e ne nominano i committenti e l’artista. La più ricca di notizie si trova sulla parete sud del bema, indica l’anno 1169 e nomina l’artista Efrem (dal nome, un locale) come autore dell’opera, e i committenti: l’imperatore Manuele Comneno, Amalrico re di Gerusalemme e il vescovo di Betlemme Raoul. Una quarta iscrizione, in siriaco, venuta alla luce negli anni Ottanta, nomina un altro artista, Basilio, e conferma l’estrazione, almeno in parte, locale delle maestranze.
1 La bibliografia sul tema delle reliquie di Costantino e di tradizione costantiniana, sui contenitori per esse realizzate, e sugli edifici destinati alla loro esposizione e conservazione, che comprendono anche i santuari edificati sugli stessi luoghi santi di costantiniana memoria è ampia ed eterogenea, comprendendo diversi ambiti della produzione artistica medievale e in diverse fasi cronologiche. Se ne darà conto di volta in volta, nelle sue linee essenziali, trattando i singoli argomenti nelle pagine che seguono.
2 Cfr. A. Kazhdan, Constantine Imaginaire. Byzantine Legends of the Ninth Century about Constantine the Great, in Byzantion, 57 (1987), pp. 196-250; R. Scott, The Image of Constantine in Malalas and Theophanes, in New Constantines. The Rhythm of Imperial Renewal in Byzantium, 4th-13th Centuries, Papers from the Twenty-Sixth Spring Symposium of Byzantine Studies (St. Andrews March 1992), ed. by P. Magdalino, Aldershot 1994, pp. 57-71.
3 Cfr. N. Teteriatnikov, The True Cross flanked by Constantine and Helena. A Study in the Light of the Post-Iconoclastic Re-evaluation of the Cross, in Δελτίον της Χριστιανικής Αρχαιολοικής Εταιρείας, s. 4, 18 (1995), pp. 169-188. H.A. Klein, Constantine, Helena, and the Cult of the True Cross in Constantinople, in Byzance et les reliques du Christ, éd. par J. Durand, B. Flusin, Paris 2004, pp. 31-59.
4 M.M. Mango, Imperial Art in the Seventh Century, in New Constantines, cit., pp. 109-138, in partic. 135-136.
5 R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin, première partie, Le siège de Constantinople et le patriarcat œcuménique, III, Les églises et les monastères, Paris 1953, pp. 305-308.
6 Nicola Mesarite, XXXIX 3, cfr. Nikolaos Mesarites: Description of the Church of the Holy Apostles at Constantinople, Greek Text Edited with Translation, Commentary and Introduction by G. Downey, in Transactions of the American Philosophical Society, n.s., 47 (1957), pp. 853-922, in partic. 891.
7 Sulla fase costantiniana e prima edificazione del mausoleo e dell’Apostoleion si veda il contributo di C. Barsanti in questa stessa opera.
8 Sono ancora le fonti mediobizantine a riferire che i due corpi erano venerati insieme: ad esempio Antonio di Novgorod (Itinéraires russes en Orient, traduits pour la Société de l’Orient Latin par Mme B. de Khitrowo, Genève, Imprimerie Jules-Guillaume Fick, 1889, pp. 85-111). Questa circostanza sembra essere stata importante per la promozione del culto di entrambi i santi, giacché i pellegrini potevano recare loro omaggio contemporaneamente nello stesso luogo.
9 R. Janin, La géographie, cit., p. 305.
10 C. Mango, Constantine’s Mausoleum and the Translation of Relics, in Byzantinische Zeitschrift, 83 (1990), pp. 51-62, e Id., Constantine’s Mausoleum: Addendum, in ivi, p. 434 (rist. in Id., Studies on Constantinople, Aldershot 1993, n. V).
11 E. Legrand, Description des œuvres d’art et de l’Église des Saints Apôtres de Constantinople. Poème en vers iambiques par Constantin le Rodien, in Revue des études grecques, 9 (1896), pp. 32-103. Per le descrizioni di Costantino Rodio e di Nicola Mesarite dei mosaici della chiesa dei Santi Apostoli, si veda C. Mango, The Art of the Byzantine Empire, 312-1453. Sources and Documents, Toronto 1986, pp. 199-201, 232-233.
12 C. Barber, Figure and Likeness. On the Limits of Representation in Byzantine Iconoclasm, Princeton 2002; L. Brubaker, Inventing Byzantine Iconoclasm, London 2012.
13 S. Bassett, The Urban Image of Late Antique Constantinople, Cambridge 2004, pp. 192-193. Fonti ancora più tarde (i Patria Constantinoupoleos nel X secolo) affermano che la statua raffigurava in origine Apollo Helios. Cfr. Id., The Urban Image, cit., pp. 201-204.
14 Chronicon Paschale. 284-628 AD, ed. by Mi. Whitby, Ma. Whitby, Liverpool 1989, p. 16.
15 R. Janin, Constantinople byzantine. Développement urbain et répertoire topographique, Paris 1964, pp. 77-80 con citazione delle fonti letterarie. La ricerca del mitico Palladio e delle reliquie delle ceste fu l’obiettivo dei primi scavi ‘archeologici’ condotti sul sito della colonna da M.C. Vett. Cfr. C. Mango, Constantine’s Porphyry Column and the Chapel of St. Constantine, in Δελτίον της Χριστιανικής Αρχαιολοικής Εταιρείας, 10 (1980-1981), pp. 103-110.
16 R. Janin, La géographie, cit., p. 306; C. Mango, Constantine’s Porphyry Column, cit.
17 Constantin VII Porphyrogénète, Le livre des cérémonies, éd. par A. Vogt, I, Paris 1939-1967, pp. 67-68, e Commentaire, pp. 73-74; J. Ebersolt, Sanctuaires de Byzance. Recherches sur les anciens trésors des églises de Constantinople, Paris 1921; C. Mango, Constantine’s Porphyry Column, cit., p. 105.
18 Su entrambi i disegni si veda C. Mango, Constantinopolitana, in Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts, 80 (1965), pp. 305-336 (rist. in Id., Studies on Constantinople, cit., n. II). Sulla colonna nel Foro di Costantino e il sacello, si veda anche il contributo di C. Barsanti in questa stessa opera.
19 C. Mango, Constantine’s Porphyry Column, cit., in partic. pp. 107-110.
20 Constantin VII Porphyrogénète, Le livre des cérémonies, cit., pp. 67-68.
21 C. Mango, Constantine’s Porphyry Column, cit., p. 109.
22 Sulle reliquie conservate a Costantinopoli nel Medioevo cfr. P. Riant, Exuviae Sacrae Constantinopolitanae, 2 voll., Genevae 1877-1878 (ed. anast. éd. par J. Durand, Paris 2004).
23 Adomnano di Iona, I luoghi santi, a cura di M. Guagnano, Bari 2008, pp. 116-117: «Idem Arculfus nihilominus et illam conspexit lanceam militis qua latus Domini in cruce pendentis ipse percusserat. Haec eadem lancea in porticu illius Constantini basilicae inserta habetur in cruce lignea, cuius astile in duas intercisum partes; quam similiter tota Hierusolimitana frequentans osculatur et veneratur civitas».
24 Socrate Scolastico, cfr. S. Bassett, The Urban Image, cit., p. 192.
25 A. Lipinsky, La corona ferrea. Storia, documenti iconografici e un capitolo della moda della gioielleria tardo-romana, VII Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina (Ravenna 27 marzo-8 aprile 1960), Ravenna 1960, pp. 191-236. Angelo Lipinsky la ritiene un lavoro tardoromano, e non più tardo come invece sosteneva la letteratura tradizionale, che fa capo a X. Barbier de Montault, Inventaires de la basilique royale de Monza, in Bulletin monumental, V, 46 (1880), p. 627; e a N. Kondakoff, Geschichte und Denkmäler des byzantinischen Emails, Frankfurt a.M. 1892, pp. 236-239; M. Sordi, Dall’elmo di Costantino alla corona ferrea, in Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), II, a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1992, pp. 883-892; La corona ferrea nell’Europa degli imperi, 3 voll., a cura di G. Buccellati, Milano 1995-1998.
26 Si veda S. Bassett, The Urban Image, cit., p. 192.
27 Ibidem; per giunta, Socrate afferma che la notizia gli è stata semplicemente riferita, ma che «quasi tutti gli abitanti di Costantinopoli la ritengono vera». Si veda anche Chronicon Paschale, cit., p. 16.
28 Teodoro Anagnostes, cfr. N. Teteriatnikov, The True Cross, cit.
29 H.A. Klein, Constantine, Helena, and the Cult, cit., pp. 31-59.
30 Histoire d’Héraclius par l’évèque Sebèos, traduite de l’arménien et annotée par F. Macler, Paris 1904, p. 91.
31 Adomnano di Iona, I luoghi santi, cit., pp. 164-167. Molto probabilmente la reliquia, quando non esposta, veniva conservata insieme agli altri tesori della Grande Chiesa nel piccolo sekreton, la stanza sopra la rampa della galleria sud. Cfr. J. Lowden, Early Christian and Byzantine Art, London 1997, pp. 163-165.
32 Makarios, Die 50 geistlichen Homilien des Makarios, hrsg. von H. Dörries, H. Klostermann, M. Kroeger, Berlin 1964.
33 Paolino di Nola, Le lettere, a cura di G. Santaniello, vol. II, Marigliano 1992, pp. 198-203.
34 Come la croce pettorale di Adaloaldo, nel Tesoro del Duomo di Monza, cfr. R. Farioli Campanati, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia dal VI all’XI secolo, in Bizantini in Italia, a cura di G. Cavallo, V. von Falkenhausen, R. Farioli Campanati et al., Milano 1982, pp. 137-426, in partic. 411 n. 210.
35 A. Frolow, Les reliquaires de la vraie croix, Paris 1965.
36 K. Krause, The ‘Staurotheke of the Empress Maria’ in Venice. A Renaissance replica of a lost Byzantine Cross reliquary in the Treasury of St. Mark’s, in Die kulturhistorische Bedeutung byzantinischer Epigramme, Akten des internationaler Workshop (Wien 1.-2. Dezember 2006), hrsg. von W. Hörandner, A. Rhoby, Wien 2008, pp. 37-53; A. Rhoby, Byzantinische Epigramme auf Ikonen und Objekten der Kleinkunst, Wien 2010. Ad esempio, la stauroteca fatta realizzare da Manuele I Comneno nel 1174, per la spedizione da lui organizzata contro i turchi e che egli presenta agli occidentali come una crociata, è nota dal codice Marc. Gr. 524 (cfr. P. Magdalino, The Empire of Manuel I Komnenos, 1143-1180, Cambridge 1993, in partic. pp. 96-97).
37 Tra gli studi generali consacrati ai reliquiari della vera croce, tra Oriente e Occidente, è necessario far riferimento almeno all’opera fondamentale di A. Frolow, La relique de la vraie croix. Recherches sur le développement d’un culte, Paris 1961; Id., Les reliquaries, cit.; più recentemente, H.A. Klein, Byzanz, der Westen und das “wahre“ Kreuz. Die Geschichte einer Reliquie und ihrer künstlerischen Fassung in Byzanz und im Abendland, Wiesbaden 2004, con una ricca bibliografia; K. Krause, Immagine-reliquia: da Bisanzio all’Occidente, in Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova (catal.), a cura di G. Wolf, C. Dufour Bozzo, A.R. Calderoni Masetti, Genova-Milano 2004. Si veda anche K. Wessel, Die byzantinische Emailkunst vom 5. bis 13. Jahrhundert, Recklinghausen 1967. A parte gli studi dedicati alle singole opere, poi, sono da segnalare i cataloghi di mostre (svoltesi nell’ultimo trentennio) e di collezioni (che raccolgono stauroteche di provenienza bizantina, oltre che manufatti occidentali): Age of Spirituality. Late Antique and Early Christian Art, Third to Seventh Century (catal.), ed. by K. Weitzmann, New York 1979; The Glory of Byzantium. Art and Culture of the Middle Byzantine Era. A.D. 843-1261 (catal.), ed. by H.C. Evans, W.D. Wixom, New York 1997; Byzantium. Faith and Power (catal.), ed. by H.C. Evans, New York 2004; Ornamenta ecclesiae. Kunst und Künstler der Romanik (catal.), hrsg. von A. Legner, III, Köln 1985; Byzantine Art, an European Art (catal.), Athens 1964; per le collezioni francesi si veda Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises (catal.), éd. par J. Durand, Paris 1992; per la Gran Bretagna, Byzantium. Treasures of Byzantine Art and Culture from British Collections (catal.), ed. by D. Buckton, London 1994; per la Russia A. Bank, Byzantine Art in the Collections of Soviet Museums, Leningrad-Moscow 1985; per l’Italia si rimanda ai cataloghi delle singole collezioni, e in particolare: W.F. Volbach, Il tesoro della cappella del Sancta Sanctorum, Città del Vaticano 1941; Il Tesoro di San Marco. Il Tesoro e il Museo, a cura di H.R. Hahnloser, Firenze 1965-1971.
38 R. Farioli Campanati, La cultura artistica, cit., p. 409 n. 204, cui si rimanda per brevi schede relative anche ad altri manufatti consimili.
39 Per entrambe, si veda J. Lowden, Early Christian, cit., pp. 169-174. La cosiddetta stauroteca Fieschi-Morgan (New York – Metropolitan Museum of Art) rientra nello stesso ambito cronologico, stilistico e geografico, ma ha la forma di una piccolissima cassetta rettangolare con coperchio a scorrimento; T.F. Mathews, 34. The Fieschi Morgan Staurotheke in The Glory of Byzantium, cit., p. 74.
40 A. Weyl Carr, 35. Staurotheke, in The Glory of Byzantium, cit., pp. 76-77.
41 A. Lipinsky, La stauroteca aurea della Badia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni, in Apollo, 1 (1961), pp. 99-107.
42 R. Farioli Campanati, La cultura artistica, cit., p. 419 n. 248; M. Rotili, Arte bizantina in Calabria e Basilicata, Cava de’ Tirreni 1980, in partic. pp. 190-191; M.P. Di Dario Guida, La stauroteca di Cosenza e la cultura artistica dell’estremo sud nell’età normanno-sveva, Cava de’ Tirreni 1984.
43 La bibliografia su quest’oggetto è assai ampia. Tra gli studi principali: J. Rauch, Die Limburger Staurothek, in Das Münster, 8 (1955), 7-8, pp. 201-218; F. Schenk zu Schweinsberg, Kunstgeschichtliche Probleme der Limburger Staurothek, in ivi, pp. 219-234; J.M. Wilm, Die Wiederherstellung der Limburger Staurothek, in ivi, pp. 234-240; M. Ross, Basil the Proedros Patron of the Arts, in Archaeology, 11 (1958), pp. 271-275; E. Follieri, L’ordine dei versi in alcuni epigrammi bizantini, in Byzantion, 34 (1964), pp. 447-467; A. Lipinsky, Le grandi stauroteche dei secc. X-XII, in Felix Ravenna, s. 3, 45 (1967), pp. 45-78, in partic. 53; W. Michel, Die Inschriften der Limburger Staurothek, in Archiv für mittelrheinische Kirchengeschichte, 28 (1976), pp. 23-43; C. Rizzardi, La stauroteca di Limburg an der Lahn nella cultura artistica costantinopolitana, in XXIV Corso di Cultura sull’Arte Ravennate e Bizantina, 24 (1977), pp. 303-321; H. Belting, Kunst oder Objekt-Stil? Fragen zur Funktion der “Kunst“ in der “Makedonischen Renaissance“, in Byzanz und der Westen. Studien zur Kunst des Europäischen Mittelalters, hrsg. von I. Hutter, Wien 1984, pp. 65-83, in partic. 82; J. Koder, Zu den Versinschriften der Limburger Staurothek, in Archiv für mittelrheinische Kirchengeschichte, 37 (1985), pp. 11-31; Constantine VII Porphyrogenitus and his Age, 2nd International Byzantine Conference (Delphi 22-26 luglio 1987), ed. by A. Markopoulos, Athens 1989: L. Bouras, ῾O Bαςίλειος Λεκαπηνὸς παραγγελιοδότης ἔργων τέκνης, pp. 397-434, in partic. 410-434; J. Koder, ‘O Kωνσταντίνος Πορφυρογένητος καὶ ἡ σταυροθήκη τοῦ Λίμπουργ, pp. 165-184; N.P. Ševčenko, The Limburg Staurothek and its Relics, in Θυμίαμα στὴ μνήμη τῆς Λασκαρίνα Mπούρα, I, Athina 1994, pp. 289-294; H.A. Klein, Byzanz, der Westen und das “wahre” Kreuz. Die Geschichte einer Reliquie und ihrer künstlerischen Fassung in Byzanz und im Abendland, Wiesbaden 2004; K. Krause, Immagine-reliquia, cit., pp. 209-235; A. Ginnasi, La stauroteca di Limburg an-der-Lahn: devozione e lusso nel mondo bizantino, in ACME. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 62 (2009), pp. 97-130; L. Bevilacqua, Basilio ‘parakoimomenos’, l’aristocrazia e la passione per le arti sotto i Macedoni, in La Sapienza bizantina. Un secolo di ricerche sulla civiltà di Bisanzio all’Università di Roma, Atti della giornata di studi (Roma 10 ottobre 2008), a cura di A. Acconcia Longo, G. Cavallo, A. Guiglia, A. Iacobini, Roma 2012, pp. 183-202.
44 A. Cutler, The Hand of the Master: Craftsmanship, Ivory and Society in Byzantium (9th-11th Centuries), Princeton 1994. A. Klein, Die Elfenbein-Staurothek von Cortona im Kontext mittelbyzantinischer Kreuzreliquiarproduktion, in Spätantike und byzantinische Elfenbeinbildwerke im Diskurs, hrsg. von G. Bühl, A. Cutler, A. Effenberger, Wiesbaden 2008, pp. 167-190. Per l’iscrizione cfr. N. Oikonomides, The Concept of ‘Holy War’ and Two Tenth-Century Byzantine Ivory, in Peace and War in Byzantium. Essays in Honor of George T. Dennis, S.J., ed. by T.S. Miller, L. Nesbitt, Washington DC 1995, pp. 61-86; A. Rhoby, Byzantinische Epigramme, cit., pp. 331-334 n. E123, fig. 94 a p. 525.
45 Per l’iscrizione: A. Guillou, Recueil des inscriptions grecques médiévales d’Italie, Rome 1996 pp. 16-18, n. 15; A. Rhoby, Byzantinische Epigramme, cit.
46 N. Teteriatnikov, The True Cross, cit., p. 182.
47 J. Lafontaine-Dosogne, L’influence artistique byzantine dans la région Meuse-Rhin du VIIe au début du XIIe siècle, in Byzantine East, Latin West: Art-Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, ed. by C. Moss, K. Kiefer, Princeton 1995, pp. 181-192; W.M. Voelkle, 301. The Stawelot Triptych, in The Glory of Byzantium, cit., pp. 461-463.
48 J.C. Anderson, 40. The Esztergom Staurotheke, in The Glory of Byzantium cit., p. 81; P. Hetherington, Studying the Byzantine Staurothèque at Esztergom, in Through a Glass Brightly: Studies in Byzantine and Medieval Act and Archaeology presented to David Buckton, ed by C. Entwistle, Oxford 2003, pp. 82-94 (rist. in Id., Enamels, Crowns, Relics and Icons, Burlington 2008, numero IX).
49 Cfr. A. Cadei, Gli ordini di Terra Santa e il culto per la Vera Croce e il Sepolcro di Cristo in Europa nel XII secolo, in Arte medievale, 1 (2002), pp. 51-69; G. Curzi, La croce dei crociati: segno e memoria, in La Croce. Iconografia e interpretazione (secoli I-inizio XVI), Atti del convegno internazionale di studi (Napoli 6-11 dicembre 1999), a cura di B. Ulianich, II, Napoli 2007, pp. 127-147.
50 A. Cadei, Gli ordini di Terra Santa, cit.; G. Curzi, La croce dei crociati, cit. Le due più antiche sono quella, in argento dorato, di Stoccarda (Landesmuseum) e quella nel Santo Sepolcro di Barletta, inserita in una teca più tarda. Appartengono a questo gruppo anche: la croce del Tesoro della Cattedrale di Gerace; la croce del Tesoro di Conques; quella, di provenienza ignota, oggi al Louvre; la croce del Tesoro della Cattedrale di Tournai; la croce dell’abbazia di Scheyern in Baviera; quella ora al Museo d’Arte di Cleveland; quella proveniente dall’abbazia di Carboeiro e oggi a Santiago de Compostela; la croce di Augusta (da Keisheim); quella di Agrigento, tutte collocabili tra il terzo decennio del XII e l’inizio del XIII secolo. Cfr. J. Folda, The Art of the Crusaders in the Holy Land. 1098-1187, Cambridge 1995.
51 Cioè al tempo di Costantino V (741-775), che è forse da ritenere il responsabile della sua prima costruzione, si veda R. Janin, La géographie, cit., pp. 241-245; P. Magdalino, L’église du Phare et les reliques de la Passion à Constantinople (VIIe/VIIIe-XIIIe siècles), in Byzance et les reliques du Christ, XXe Congrès international des études byzantines (Paris 19-25 Août 2001), éd. par J. Durand, B. Flusin, Paris 2004, pp. 14-30, in partic. 20-23.
52 C. Barsanti, Le chiese del Grande Palazzo di Costantinopoli, in Medioevo: la chiesa e il palazzo, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma 20-24 settembre 2005), a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2007, pp. 87-100.
53 R.J.H. Jenkins, C.A. Mango, The Date and Significance of the Tenth Homily of Photius, in Dumbarton Oaks Papers, 9/10 (1956), pp. 123-140. Per il testo dell’ekphrasis di Fozio si veda C. Mango, The Art, cit., pp. 185-186.
54 P. Magdalino, L’église du Phare, cit.
55 De cerimoniis, I, 24 fa riferimento a questo spazio nel corso della liturgia del Giovedì santo.
56 Nikolaos Mesarites, Die Palastrevolution des Johannes Komnenos, ed. A. Heisenberg, Würzburg 1907. Si veda R.J.H. Jenkins, C.A. Mango, The Date and Significance, cit.
57 Su questo titolo onorifico si veda N. Oikonomides, Les listes de préséances byzantines, Paris 1972.
58 Si tratta di notizie riferite dal De cerimoniis; cfr. P. Magdalino, L’église du Phare, cit., pp. 18-19.
59 S.G. Engberg, Romanos Lekapenos and the Mandylion of Edessa, in Byzance et les reliques du Christ, cit., pp. 123-142; P. Magdalino, L’église du Phare, cit., pp. 24-25; Mandylion. Intorno al Sacro Volto, cit.
60 In particolare la lettera di Cristo ad Abgar, ivi collocata nel 1032 da Romano III Argiro (scomparsa poi nel 1185 nei tumulti durante il rovesciamento di Andronico I), e la Pietra della Deposizione dalla croce (che fino a quel momento si trovava a Efeso), posta nella chiesa del Faro da Manuele I Comneno nel 1169-1170. Cfr. P. Magdalino, L’église du Phare, cit., p. 25.
61 J. Durand, La relique et les reliquaires de la Vraie Croix du trésor de la Sainte-Chapelle de Paris, in La Croce. Iconografia, cit., III, pp. 341-367.
62 Talvolta persino con la composizione di falsi, a scopo ‘pubblicitario’, come la lettera di Alessio I Comneno a Roberto di Fiandra, che include una lista delle reliquie possedute a Costantinopoli. Cfr. P. Riant, Exuviae, cit., II, pp. 203-210.
63 Willelmi Tyrensis Archiepiscopi, Chronicon, éd. par R.B.C. Huygens, II, Turnholti 1986 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, 63 A), pp. 944-945: «Interiores etiam palatii partes, penetralia nonnisi domesticis suis pervia, lares quoque secretioribus usibus dedicatos, basilicas vulgaribus inaccessas hominibus, thesauros et universorum desiderabilium repositiones avitas eis tanquam familiaribus suis precipit reserari, sanctorum etiam reliquias, dispensationis quoque domini nostri Iesu Christi preciosissima argumenta, crucem videlicet, clavos, lanceam, spongiam, arundinem, coronam spineam, sindonem, sandalia exponi iubet: non est archanum, non est mysticum a temporibus beatorum Augustorum Constantini, Theodosii, Iustiniani in abditis sacri cubiculi repositum, quod eis non reveletur familiariter».
64 Nikolaos Mesarites, Die Palastrevolution, cit., pp. 19-49.
65 P. Magdalino, L’église du Phare, cit., p. 29.
66 K. Ciggaar, Une description de Constantinople dans le Tarragonensis 55, in Revue des Etudes Byzantines, 53 (1995), pp. 117-140, in partic. 120.
67 Itinéraires russes, cit. pp. 97-98.
68 P. Riant, Exuviae, II, cit., pp. 232-233: per le testimonianze di altri osservatori occidentali intorno al XII secolo.
69 Ibidem.
70 A. Frolow, La Vraie Croix et les expéditions d’Héraclius en Perse, in Revue des études byzantines, 11 (1953), pp. 88-105; più recentemente: W.E. Kaegi, Heraclius. Emperor of Byzantium, Cambridge 2003.
71 Eus., v.C. III 29-40. Si veda il saggio di A. Paribeni in questa stessa opera.
72 Adomnano di Iona, I luoghi santi, cit., pp. 108-113, libro I, cap. II.
73 Ivi, pp. 114-115, libro I, cap. V.
74 Ivi, cap. VI.
75 H. Vincent, F-M. Abel, Jérusalem. Recherches de topographie, d’archéologie et d’histoire. II Jérusalem nouvelle, Paris 1914, pp. 83-300, in partic. 248-259; V.C. Corbo, Il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Aspetti archeologici dalle origini al periodo crociato, 3 voll, Gerusalemme 1981-1982; R. Ousterhout, Rebuilding the Temple: Constantine Monomachus and the Holy Sepulchre, in Journal of the Society of Architectural Historians, 48 (1989), pp. 67-78.
76 Jean Skylitzès, Empereurs de Contantinople, éd. par B. Flusin, J.-C. Cheynet, Paris 2003, p. 234.
77 Ivi, p. 321.
78 M. Biddle, The Tomb of Christ, Stroud 1999 (trad. it. Il mistero della tomba di Cristo, Roma 2000).
79 C. Bouras, Nea Moni on Chios. History and Architecture, Athens 1982, pp. 139-145.
80 M. Angold, Imperial Renewal and Orthodox Reaction: Byzantium in the Eleventh Century, in New Constantines, cit., pp. 231-246; si veda anche ivi, P. Magdalino, Introduction, pp. 1-9, in partic. 6.
81 P. Gautier, Basilikoi logoi inédits de Michel Psellos, in Siculorum Gymansium, 33 (1980), pp. 717-771, in partic. 741-745, n. 5. Cfr. H. Maguire, Imperial Gardens and the Rethoric of Renewal, in New Constantines, cit., pp. 181-197.
82 M. Biddle, Il mistero, cit., pp. 112-121.
83 Theodoricus, Libellus de locis sanctis, d. Circa 1772, Cui Accedunt Breviores Aliquot Descriptiones Terræ Sanctæ, hrsg. von T. Tobler, pp. 5-12.
84 M. Piccirillo, s.v. Gerusalemme, in Enciclopedia dell’arte medievale, VI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1995, pp. 565-584.
85 Per la vicenda architettonica e la storia degli scavi e restauri della basilica, dell’ottagono e della grotta, si rimanda alla copiosa bibliografia sull’argomento. H. Vincent, F.-M. Abel, Bethléem. Le Sanctuaire de la Nativité, Paris 1914; B. Bagatti, Gli edifici sacri di Betlemme, Gerusalemme 1952. Sulla decorazione musiva e pittorica: B. Kühnel, Wall Painting in the Latin Kingdom of Jerusalem, Berlin 1988; J. Folda, The art of the Crusaders, cit., in partic. pp. 347-378.
86 B. Kühnel, s.v. Betlemme, in Enciclopedia dell’arte medievale, cit., III, Roma 1992, pp. 463-468.