religione
Non deve suscitare meraviglia che anche a proposito della r. la riflessione di M. prenda avvio, oltre che dalle sue varie letture, dalle circostanze della sua biografia politica, e che quindi, per es., essa trovi spunti nell’organizzazione di una milizia cittadina, o si intrecci al giudizio sulla Chiesa di Roma, l’istituzione che così prepotentemente condizionava la scena politica contemporanea e dava sostanza storica a quella r. di cui M. poteva fare concreta esperienza.
A parte la copia giovanile del poema lucreziano, che poneva M. a contatto con un documento fondamentale del materialismo antico e decisivo per il formarsi di uno specifico atteggiamento nei confronti dei fenomeni religiosi e del loro impiego politico, atteggiamento che comunque solo in parte sarà il suo, il primo testo che possa essere messo a profitto per ricostruire le sue riflessioni in materia è la lettera del 9 marzo 1498 (Lettere, pp. 5-8) in cui sono analizzate due delle ultime prediche di Girolamo Savonarola: evidente il fastidio e fin l’avversione nei confronti di quella che è percepita come una strategia politica fondata su una torbida mistione di argomenti religiosi e apocalitticicon finalità pratiche di corto respiro. È qui in nuce il giudizio su Savonarola ‘profeta disarmato’ (Principe vi 23), ossia sul grave suo limite di politico dimidiato, che fece bensì ricorso a Dio e seppe indicare un futuro ai suoi, e in ciò fu vero profeta, ma non fu poi in grado di dotarsi dei mezzi per raggiungere quegli obiettivi, finendo così miseramente abbandonato da chi avrebbe dovuto seguirlo e sostenerlo.
Ma il fastidio personale nei confronti di quanto proviene dalla sfera della r., di cui non mancano larghe testimonianze nella sua biografia, nelle corrispondenze e nei testi letterari – testimonianze che in qualche modo andranno a cristallizzarsi nella leggenda del suo sogno (→ ‘sogno’ di Machiavelli) ante mortem – non impedisce che l’attenzione ai rapporti tra r. e politica rimanga costante, per quanto non centrale, negli anni del suo servizio presso la cancelleria fiorentina. Essa si svolge lungo due direttrici certo connesse ma che bisogna distinguere, per poi tornare a coglierne la saldatura che si realizza nei testi della maturità. Una prima direttrice è costituita dall’esperienza politico-diplomatica della Chiesa di Roma, che M. poté osservare da vicino lungo tutto l’arco della sua attività, ora seguendo la rapida parabola di Cesare Borgia o recandosi a Roma per il conclave dell’autunno del 1503, ora valutandone l’azione dalla più ampia specola europea, soprattutto nelle lunghe e importanti missioni presso la corte di Francia, da quella della seconda metà del 1500, quando aveva dovuto dar conto della sorprendente arrendevolezza che contro i propri interessi un re di Francia mostrava nei confronti dell’aggressiva politica di Alessandro VI, fino all’altra del 1510 allorché, in un amaro empito polemico, giunse ad augurarsi che Luigi XII venisse in Italia a rinnovare per il papato l’onta di Anagni, «acciò che ancora a cotesti preti toccassi di questo mondo qualche boccone amaro» (M. ai Dieci, 18 ag. 1510, LCSG, 6° t., p. 499). Comunque, pur nella percezione di una peculiarissima e sfuggente fisionomia istituzionale e delle difficoltà a dar conto della sua azione con i consueti strumenti dell’analisi diplomatica e politica, dall’esperienza diretta della Chiesa M. trarrà non solo un’inedita prospettiva d’insieme sulla storia d’Italia che, enunciata con nettezza nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I xii 15-21), sarà poi svolta nel primo libro delle Istorie fiorentine, ma anche lo stimolo a considerare in una nuova luce il valore politico della r. e la funzione delle istituzioni deputate al culto.
Per altro verso – ed è il secondo asse della sua riflessione su questi temi – l’attenzione ai rapporti tra r. e politica prende corpo nel rilievo conferito a certe espressioni del culto che possono efficacemente collaborare con l’organizzazione civile e militare della società, come mostrano gli scritti composti nel 1506 per sostenere l’istituzione di una milizia cittadina. Si tratta di accenni assai rapidi e incidentali, ma da non trascurare alla luce delle preoccupazioni cui danno espressione, e soprattutto nella prospettiva degli importanti sviluppi consegnati ai testi della maturità. Notevole, in particolare, l’attenzione per la spettacolarizzazione di certi passaggi della vita pubblica, come le bandiere e i simboli, le parate militari e le feste, e l’invito a «mescolarci qualcosa di religione» (cfr. La cagione dell’Ordinanza, §§ 27 e segg., in SPM, p. 474), ma ancor più rilevante il tema, destinato a essere largamente ripreso nei Discorsi, del giuramento come forma primordiale nell’uso politico della r. (cfr. la Provisione della Ordinanza, §§ 58-59, in SPM, pp. 487-88). In tal modo la r. comincia a configurarsi nel pensiero di M. come la massima garante di quei «buoni costumi» che a loro volta possono essere intesi come una lunga e regolare abitudine alla moderazione politica, all’obbedienza civile, al rispetto dell’autorità.
Questo nodo di riflessioni troverà il suo approdo più elaborato e compiuto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio ma è operante anche nel Principe, dove risulta salda l’acquisizione che la r. è un elemento fondamentale nella prassi politica e, più in particolare, nella costruzione e nel mantenimento di quell’‘apparire’ di cui un principe savio deve sempre essere l’accorto signore. Memorabile in tal senso ciò che si legge in uno dei momenti più alti e drammatici della precettistica machiavelliana, lì dove vengono declinate le «qualità» di cui il principe non può non mostrarsi adornato:
Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria, a parere di avere, che questa ultima qualità (Principe xviii 16).
Non sfuggirà certo la cura nel distinguere la sostanza dall’apparenza, senza che a quest’ultima sia negata l’importanza che in politica non può non spettarle. Sono linee che hanno il loro autentico luogo di fondazione e chiarificazione teorica nei cruciali capitoli del primo libro dei Discorsi consacrati all’uso politico della r. presso i Romani, dove la dialettica intrinseca all’uso politico della r. mostra come l’apparenza capovolge la realtà: se questa, la realtà, prevede che chi della r. fa un uso politico non ne partecipi, quella invece, l’apparenza, impone che della r. ci si mostri partecipi al massimo grado. Nel cap. xxi del Principe spicca per la sua forza esemplificativa il mirabile ritratto di colui che M. giudica «el primo re de’ cristiani», Ferdinando il Cattolico: per tutte le sue imprese, anche per quelle di più inaudita crudeltà, il sovrano spagnolo sempre si servì del «mantello» della religione.
Oltre che opera di pensiero politico, il Principe è però anche una sfida lanciata al proprio presente e l’appello a un’azione politica immediata affinché un’«occasione», che le circostanze nascondono e rivelano al tempo stesso, non sia lasciata passare invano. E quest’«occasione» ha il suo centro generatore nella circostanza che la famiglia dei Medici, ripreso il potere in Firenze nel settembre 1512, sia dopo poco giunta al vertice della Chiesa di Roma con l’ascesa al soglio pontificio del capofamiglia Giovanni, dall’11 marzo 1513 papa Leone X. In effetti, nella seconda metà del 1513 – ossia all’epoca che possiamo ritenere della concezione e della sostanziale composizione del Principe – la situazione era indeterminata e confusa, ma suscitatrice di forti attese e speranze poiché la congiunzione tra la Chiesa e la casa dei Medici, con membri laici alla ricerca di nuovi spazi politici, sembrava a M. (e non a lui solo) un’occasione di azione e di riscatto. Era peraltro una situazione che poteva mostrare, e in ogni caso mostrava a M., sorprendenti analogie con quel tentativo di creazione di un forte Stato centro-italiano che era stato perseguito un decennio prima da Cesare Borgia: come Cesare aveva potuto contare sui danari e il prestigio politico-diplomatico di Alessandro VI, così anche il mediceo «principe nuovo» a cui è indirizzato l’opuscolo machiavelliano avrebbe avuto il sostegno del fratello papa. E ciò era tanto più vero in quanto il pontificato giunto nelle mani di Leone X era ancor più politicamente forte e centrale in Italia e in Europa di quello di Alessandro VI: era insomma «potentissimo», come scrive M. concludendo il cap. xi, De principatibus ecclesiasticis, interamente consacrato alla Chiesa, e, con l’excursus sulla storia del papato nel sec. 15° che ne occupa la maggior parte, autentica premessa storico-politica per l’exhortatio finale a liberare l’Italia dai barbari, nonché probabile primo finale dell’opera.
Il fatto che il Principe sia stato composto avendo in mente Giuliano de’ Medici come dedicatario ha senza dubbio orientato M. nella scelta del Valentino quale modello di «principe nuovo». Anche Giuliano, al pari del Borgia, avrebbe infatti potuto contare sul prestigio immenso del fratello papa, sulla imponente struttura diplomatica della Chiesa, la più efficiente e moderna in Europa, su un gran numero di signori armati quali non offriva alcun altro Stato italiano (cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice, un corpo e due anime. La monarchia papale nella prima età moderna, 1982). Era stata questa la «fortuna» del Valentino; perché anche un Medici non avrebbe potuto farne la propria «occasione»? Alla ricerca di un’esemplarità ben calibrata sulla concreta realtà in cui «il principe nuovo» era chiamato a operare, introducendo un forte squilibrio strutturale nella sua opera (il modello non è Francesco Sforza, esempio di «principe nuovo» fin dal primo capitolo, e principe per virtù e armi proprie, ma colui che lo fu per fortuna e con le armi d’altri), M. costruisce l’idealizzazione di un personaggio che, in effetti, aveva percorso un cammino che per un buon tratto avrebbe potuto essere quello di Giuliano. A quest’ultimo dunque metteva innanzi come degno di imitazione l’esempio di chi, trovatosi in una situazione del tutto analoga, aveva poi lucidamente operato con la massima energia per capovolgere il destino di fragilità al quale lo consegnava la genesi non virtuosa della propria costruzione politica. Questa è la ragione per cui nel Principe Chiesa e papi appaiono in una luce sostanzialmente diversa, e non priva di una qualche ambiguità, rispetto a quella che la medesima materia riceve in altre opere machiavelliane. Oggettivamente, e non solo nella considerazione di M., la Chiesa che giunse a Leone X era in una condizione di potenzialità politiche quali prima non aveva avute, e quali poco dopo non riuscì più ad avere. Era una condizione che durò poco nella realtà delle cose; e durò poco anche nei testi di M., come mostra la feroce polemica antiecclesiastica che dopo la parentesi del Principe riprende violenta in ogni sua opera, e forse tanto più violenta e feroce quanto più forte era stata la delusione a cui il fallimento pratico del Principe era andato incontro.
Gli elementi della riflessione machiavelliana sulla r. e la Chiesa di Roma confluiscono in pagine cruciali dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dove si intrecciano giudizi storici e analisi teoriche di singolare profondità e novità, ma anche non poco tormentate e dagli esiti non univoci. L’opera è aperta da una trattazione organica (i primi diciotto capitoli) intorno alle condizioni che rendono possibile la genesi del vivere politico nelle sue varie forme, le ragioni del loro differenziarsi, del loro mantenersi e crescere potenti e, infine, del loro decadere; questa trattazione ospita un’importante sezione (la più ampia di tutta l’opera, con cinque capitoli, dall’xi al xv) dedicata alla «religione de’ Romani».
Se in un primo momento M. traccia un quadro della genesi delle società umane, e di Roma in particolare, che non comporta la presenza della r., poi invece con il cap. ix apre una nuova prospettiva, quella «degli ordinatori di quella republica» e «di quelli ordini che alla religione o alla milizia riguardassero» (I ix 2). Con ciò la sua attenzione si dirige alle figure dei primi ordinatori di Roma, Romolo (→ Romolo e i re di Roma) e Numa Pompilio (→), ossia di coloro la cui eccezionale e solitaria virtù fu in grado di imprimere nella società l’originario impulso positivo e la sostanziale «bontà» che ne avrebbe determinato il destino storico:
E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di nuovo fuora degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione (I ix 5).
In effetti, la diversità di esiti nelle vicende storiche messe a confronto nei primi capitoli, e di quelle in particolare delle contese sociali a Roma e a Firenze – che era stato uno dei temi cruciali dei capitoli immediatamente precedenti –, si spiega sul fondamento e in ragione della «bontà» della materia sociale; la quale «bontà» a sua volta appare a M. concepibile come il frutto della sapiente attività normativa attraverso la quale, fin dall’inizio di un ciclo di vita politica, sono preparate le condizioni capaci di impedire che le lotte civili degenerino rapidamente nella spirale della corruzione e della distruzione. La «bontà» degli «umori» è un presupposto che è mancato a Firenze, e in generale al mondo moderno, e di cui invece Roma fu dotata grazie all’opera avveduta dei suoi primi «ordinatori» (quello civile, Romolo, e soprattutto quello religioso, Numa). Spinto dal confronto che gli si veniva imponendo tra Roma e Firenze, tra Roma e il mondo moderno, M. avverte insomma che come aveva cominciato a delinearla nei primi capitoli l’esemplarità romana non era in grado di dar ragione fino in fondo di quel che era accaduto a Firenze e nel mondo moderno. Per darne veramente ragione bisognava determinare che cos’è e come si costituisce la «bontà» della materia sociale, e quindi quel limite che sancisce la preminenza del sentimento di obbligazione alla patria sull’interesse della parte e sugli egoismi individuali. Ora, nella determinatezza delle sue analisi, questo limite è costituito dai «buoni costumi», i quali nel loro significato strettamente politico sono la condizione per ricevere la forza obbligante delle leggi; e altro non sono, tali «buoni costumi», che l’effetto della religione.
È questo il nodo di problemi attraverso il quale, nel delineare la perfetta repubblica, viene riconsiderato il ruolo dell’azione individuale; ossia di quanto, pur nella sua forma repubblicana, un «vivere civile» risulta debitore alla forza, alla sapienza, alla capacità d’iniziativa e persino di creare miti del singolo; del singolo che è solo, quando ordina un «vivere civile» (cap. ix); o che solo deve riuscire a essere se vuol riordinarlo quando il processo della decadenza ha avviato il suo corso (capp. xvi-xviii). Insomma, la virtù del singolo è veramente autentica, come dimostra l’esempio di Romolo, il legislatore politico, e più ancora quello di Numa, il legislatore religioso, quando riesce a creare nello Stato e nella società le condizioni strutturali che nel lungo periodo consentono di sormontare gli inevitabili vuoti della virtù individuale e di mantenere la conflittualità sociale entro i limiti della «civiltà».
La connessione tra il tema degli ordinatori e quello della r. appare dunque chiara: alla considerazione machiavelliana la r. si configura non tanto come un elemento strutturalmente ancorato nell’anima umana o un bisogno primario e primitivo della psiche individuale e collettiva, quanto piuttosto, e anzitutto, come il frutto condotto a maturazione dalla sapiente e lungimirante opera di un «legislatore», che è politico e religioso a un tempo:
E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate; perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui. Però gli uomini savi che vogliono tòrre questa difficultà ricorrono a Dio (I xi 11-12).
Ecco perché fin dall’inizio il tema viene introdotto nella prospettiva di colui che la r. la deve, se non proprio inventare, certo strutturare e stabilire in ordinamenti visibili. Su che cosa, propriamente, sia la r. M. dà una essenzialissima risposta: essa è «timore di Dio». Per trasformare questa vaga mistura di paure ancestrali e di sensi di inferiorità in fondamento di obbligazione politica e di vincolo sociale la prudenza del legislatore, come mostra la storia romana, dispone di diversi strumenti: anzitutto il giuramento, ma poi anche gli oracoli e i pronostici, e quindi, in maniera più generale, i «miracoli», che coloro che sono «prudenti» devono sempre aver cura di ‘favorire’ e ‘accrescere’ (I xii 8).
L’analisi di tali strumenti chiarisce che quelle manifestazioni della r. che vengono così decisivamente in aiuto della politica non hanno una genesi autonoma, non costituiscono un immediato e spontaneo patrimonio dell’anima dei popoli; sono piuttosto, tali manifestazioni, esse stesse il prodotto di una specifica volontà politica e il risultato di una coercizione esercitata nel nome di un dio. In tal senso il rapporto tra r. e politica si rivela complesso e, per così dire, circolare: la politica ha sì bisogno della r., ma quella r. di cui la politica ha bisogno è a sua volta un prodotto della stessa prudenza politica (la prospettiva cambierà sensibilmente – a testimonianza della tormentata riflessione machiavelliana su questi temi – negli esempi di giuramento offerti in Discorsi I lv 9-15, a proposito delle popolazioni germaniche, ove M. si mostra più incline a cogliere nella r. un elemento autentico e profondo nella vita di un popolo, un fattore genuino di autoidentificazione e di spontanea coesione politica).
Un’ulteriore conseguenza che l’uso della r. in politica rivela è che del suo carattere fondamentale – la paura di un dio –, se necessariamente deve esserne permeato chi ne è il destinatario, non necessariamente però deve parteciparne chi ne è l’autore. L’uso politico della r. rivela un profondo divario che si stabilisce, ora, fra l’ordinatore, con i pochi di cui non può non avvalersi, e tutti gli altri; ora, e più spesso, fra l’«umore» della nobiltà e quello della plebe. Ma comunque, questo è l’essenziale, attraverso tale divisione passa la possibilità stessa di fare un uso politico della religione.
Il divario che l’uso politico della r. implica e richiede si rende ancor più manifesto, fino a essere esplicitamente teorizzato come tale, nell’altra caratteristica che M. riconosce propria di tale uso: la finzione. La necessità del fingere si mostra in pieno nel secondo grande strumento che i Romani seppero forgiare per l’uso politico della r.: gli oracoli. Parlando degli oracoli e di «tutte le altre [...] cerimonie, sacrifici e riti» che costituivano il fondamento della r. romana, M. perviene a fissare una ‘regola’ politica dal valore assoluto:
Debbono adunque i principi d’una republica, o d’uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono mantenergli; e, fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e per conseguente buona e unita. E debbono tutte le cose che nascano in favore di quella, come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l’opinione dei miracoli che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio e’ si nascano, e l’autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque (I xii 7-9).
La ‘regola’ che è qui fissata dice non tanto che non ha alcun rilievo l’eventuale contenuto di verità di una r., al quale perciò non devono portare interesse «i principi d’una repubblica o d’uno regno»; ma, più semplicemente e radicalmente, tale ‘regola’ stabilisce che il problema della verità o della falsità di una r. è, in quanto tale, un problema mal posto. Poiché se, oltre che «prudenti», «i principi d’una repubblica o d’uno regno» sono anche «conoscitori delle cose naturali», sapranno altresì che sette e religioni sempre e comunque esisteranno; e l’autentico problema politico sarà piuttosto quello di convogliare i sentimenti e le energie che esse suscitano nell’animo degli uomini in una direzione politicamente utile e costruttiva.
Con tali premesse, si comprende perché sulla assoluta necessità di una corretta amministrazione e valorizzazione del culto M. venga insistendo, attraverso variazioni e riprese continue, in tutti i capitoli dedicati alla r., delineando non solo il ruolo positivo che essa svolge in una società, ma anche le conseguenze distruttive che il suo mancato rispetto comporta: «E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d’esse» (I xi 18).
Da questo sfondo teorico scaturisce l’invettiva contro la Chiesa di Roma, accusata, per un verso, di aver offerto tali esempi di corruzione che i popoli che più le sono vicini, e cioè gli «Italiani», sono divenuti «sanza religione e cattivi» (I xii 17); e, per l’altro, di aver esercitato una potente e costante azione antiunitaria lungo tutta la storia d’Italia, consegnandone le sorti a un destino minore sulla scena della politica europea (Discorsi I xii 15-21). L’originalità, e anche la forza singolare della polemica antiecclesiastica di M., non è tanto nell’individuazione e nella deprecazione di una linea di condotta che molti prima di lui avevano deprecato sia sul versante etico sia su quello politico, sebbene nessuno (a parte forse Marsilio da Padova) con pari radicalità e nessuno giungendo a connettere i due aspetti con altrettanta consapevolezza; l’autentica originalità dell’invettiva machiavelliana e la fonte della sua intrinseca violenza polemica consistono piuttosto nella durissima condanna che, attraverso il confronto contestuale con la r. di Roma antica, subisce la stessa r. di cui la Chiesa romana è, come M. si esprime, il «capo». In effetti, mai un giudizio storico-politico e anche etico sulla Chiesa era stato inserito nel quadro di una radicale condanna del cristianesimo in quanto tale; una condanna che se nei capitoli sulla r. del primo libro dei Discorsi vive implicitamente nel confronto con la grande r. civile fondata da Numa, nel secondo libro diviene esplicita ed espressa sul fondamento di una visione della realtà e delle «cose naturali» che di quella cristiana risulta la consapevole e radicale negazione, per giungere quindi, nel cap. i del terzo libro, a chiamare in causa, attraverso i santi Francesco (→ Francesco d’Assisi) e Domenico, Cristo stesso.
Si può dire allora che l’atteggiamento di M. nei confronti della r. e delle istituzioni chiamate a conferirle visibilità e sostanza storica non ha nulla né del reciproco riconoscimento di autonome sfere di competenza, quale in certa misura era proprio della tradizione della cancelleria fiorentina, la tradizione che risaliva a Coluccio Salutati ed era stata poi di un Leonardo Bruni e di un Poggio Bracciolini, presso i quali era diffuso un marcato senso della distinzione, che se non è ancora la precisa consapevolezza moderna di un regime di separazione giuridica tra Stato e Chiesa, si presenta tuttavia come la gelosa percezione dell’autonomia del potere cittadino, da difendere nei confronti delle ingerenze della Chiesa; né, per altro verso, il suo atteggiamento può essere considerato come un precorrimento di posizioni propugnatrici di uno Stato che abbia completamente evacuato dal proprio ambito la sfera della religione. Al contrario, attraverso l’idealizzazione della storia di Roma arcaica M. teorizza una comunità politica che garantisca ampio spazio a tutto ciò che riguarda la r. e il culto, subordinandone però l’amministrazione al fermo e totale controllo da parte della gerarchia politica.
Il secondo libro dei Discorsi si apre con un gruppo di capitoli – il proemio e i primi cinque ‘discorsi’ – nei quali M. mette alla prova di una radicale chiarificazione teorica i grandi temi che avevano costituito la trama del primo libro, in particolare l’eccellenza di Roma e il senso autentico della sua ‘imitabilità’ per i moderni (il che comportava la necessità di dar conto delle ragioni della sua fine). La riflessione sulla r. e il giudizio sul cristianesimo assumono in questo quadro un ruolo cruciale. Si trattava di dar conto di come e perché, per la sua specifica qualità, la r. dei moderni avesse prodotto effetti tanto diversi, e anzi opposti, rispetto a quella dei «Gentili», fino a spegnere quell’attaccamento ai valori della «città» e quell’«amore per la libertà» che invece M. reputa così generali nel mondo antico. Donde la necessità, scendendo al fondo della questione, di considerare in che modo i contenuti del cristianesimo si fossero tradotti in «costumi» civili e politici. Ne conseguiva l’ulteriore necessità di spiegare l’avvicendarsi delle r. – il «variare delle sètte» –; necessità che a sua volta induceva M. ad affisare l’immutabile scenario di un mondo eterno (→ eternità del mondo) entro il quale «sètte» e cicli di civiltà si succedono. Questa per sommi capi la materia svolta, in un personalissimo intreccio di motivi teorici e polemici, nei primi cinque capitoli del secondo libro.
Come premessa M. addita lo spettacolo di una mitica Italia tutta abitata da popoli liberi e fieri (nel quale è certo agevole scorgere in filigrana l’immagine capovolta dell’Italia contemporanea), ponendo chiaramente la questione del come tale amore per la libertà sia nato e del perché sia poi andato perduto:
Pensando dunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti, la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall’antica, fondata dalla diversità della religione nostra dalla antica. Perché, avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo; onde i Gentili, stimandolo assai e avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrifizi loro alla umiltà de’ nostri, dove è qualche pompa più delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva l’azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi moltitudine d’animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo e in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini per andarne in Paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle (II ii 26-34).
È appena il caso di mettere in guardia nei confronti di alcune espressioni di cautela che pur M. impiega qui, come quella, di tradizionale impronta scritturale, sul cristianesimo «verità e vera via», o l’altra, poco più oltre nel testo, sulla «nostra religione» interpretabile secondo lo spirito della «virtù» e non quello dell’«ozio» (II ii 35). In realtà in tutto il capitolo, pur attraverso una comprensibile retorica della prudenza, opera l’intenzione di pareggiare nel loro valore le r., giudicandole tutte alla luce di un medesimo criterio, che è quello della loro funzionalità politica (cfr. Preus 1979; Sasso 1993). Prova ne sia il fatto che l’unico cenno a uno specifico contenuto della «verità» che il cristianesimo avrebbe additata all’uomo moderno riguarda la conoscenza del premio ultraterreno, del paradiso: dell’acquisto di tale conoscenza è detto semplicemente che esso ha reso «il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati», ossia è immediatamente risolto nella dimensione dei suoi effetti politici.
La questione della r. è dunque al centro del confronto tra antico e moderno: tra antico e moderno, tra virtù romana e generale corruzione moderna, il criterio della differenza, nella determinatezza della trattazione machiavelliana, non è che nella diversa «educazione», e dunque nella diversa r. che spettò insorte agli antichi e ai moderni. È su questo fondamento che M. dà vita alle stesse nozioni di antichità e di modernità, e declina i motivi di quell’aspra polemica antimoderna – antimoderna proprio in quanto esplicitamente anticristiana – che è il tono unificante del secondo libro dei Discorsi.
Il tema dell’amore degli antichi per la libertà, con la concezione mondana e antiascetica della vita che lo sottendeva, e quello dell’affermazione del cristianesimo, con la sua ambigua ideologia del contemptus mundi e della demonizzazione dell’utile che ha «effeminato» il mondo e «datolo in preda agli uomini scelerati», vengono quindi a costituire nei primi capitoli del secondo libro dei Discorsi i due volti di una stessa questione, intorno alla quale M. connette approfondimenti storico-teorici di grande rilievo. In effetti, al di là della contrapposizione polemica, l’ulteriore problema che gli si poneva era di giustificare l’estinzione di quell’amore, e l’affermarsi di una concezione della vita così radicalmente differente. Se è la diversità delle r. e delle conseguenti «educazioni» che spiega il diverso atteggiamento dei popoli nei confronti della libertà e dei valori della «città», come è però possibile che una r. come quella cristiana abbia potuto insediarsi negli animi dei fieri popoli dell’antichità? Una prima spiegazione avanzata da M. è di carattere storico-politico, e consiste nel fatto che «lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti i viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere insieme né riordinare alla vita civile» (II ii 38-39). Insomma, alla fine il cristianesimo poté far breccia nei popoli dell’antichità perché Roma, avendoli tutti conquistati e resi servi, aveva sradicato dai loro petti l’amore e il gusto per la libertà, in modo tale che neppure dopo la dissoluzione dell’impero romano quell’amore e quel gusto poterono riprendere vigore.
La schiavitù nella quale Roma aveva condotto il mondo non è però l’unico argomento avanzato per spiegare come e perché si fosse estinto l’amore per la libertà presso gli antichi, e il cristianesimo si fosse insediato lì dove una volta regnavano tante libere repubbliche.
Storia, natura e memoria nel «variare delle sètte» (Discorsi II V). A tal punto M. doveva avvertire l’urgenza di chiarire il senso dell’affermazione del cristianesimo, che a distanza di pochissimi capitoli, nel cap. v del secondo libro, sperimenta una diversa direzione di indagine affrontando l’imporsi del cristianesimo non più in prospettiva storico-politica, a lui sicuramente più congeniale, bensì in quella filosofico-cosmologica, certo più radicale ma anche a lui meno consueta.
Al centro di questo singolare capitolo è la teoria dell’eternità del mondo (→), alla quale, sia pure in forma obliqua, M. dà la sua convinta adesione. Accolta questa tesi, M. se ne serve per abbozzare una cosmologia ben differente da quella che è propria al cristianesimo. Infatti la memoria storica è breve non perché, come vuole il racconto biblico e come impone la stessa idea di creazione, sia oggettivamente limitato il suo contenuto, cioè il tempo storico da far oggetto di memoria; ma è breve perché periodicamente intervengono fattori, umani e naturali, che ne distruggono intero o quasi intero il contenuto. Si intravvede sullo sfondo una cosmologia del tutto congruente con l’antropologia che M. aveva delineata nel cap. ii del primo libro: lì infatti erano stati indicati gli inizi lentissimi, e tali comunque da inscriversi in un’antichità ben più ampia di quella biblica, di una umanità ferina che, a poco a poco e senza alcuna guida provvidenziale, veniva trovando gli istituti della civiltà politica e sociale.
Se decisamente anticristiano è il motivo teorico di un mondo eterno e sottratto nel suo fondamento a qualsiasi disegno provvidenziale, non meno anticristiana si rivela la discussione di quell’altro insieme di fattori che impediscono alla memoria storica di oltrepassare certe dimensioni. La convinzione che ogni ciclo di civiltà sia sostanzialmente immemore della serie di quelli precedenti, se non addirittura di quello immediatamente precedente, è infatti fondata sulla constatazione che, con gli elementi naturali, a spegnere le «memorie de’ tempi» concorrono potentemente anche «le variazioni delle sètte e delle lingue». Nel quadro di un mondo eterno, eterno è anche l’avvicendarsi delle r., il «variare delle sètte», come M. dice con espressione certo dal suono empio, quando vi si includa, come egli vi include, il cristianesimo. A suo giudizio il cristianesimo in nulla si sottrae a questa vicenda, della quale anzi è in sommo grado esemplificativo: anche al cristianesimo, come a ogni altra «sètta», appartiene il carattere politico reso evidente dalla lotta durissima che esso condusse contro la «sètta» precedente, e dunque contro la civiltà pagana.
Qualitativamente e strutturalmente equiparato alle altre «sètte», il cristianesimo è semmai singolare nel senso di una sua specifica difettività funzionale: infatti esso ha bensì agito come la r. romana agì nei confronti di quella etrusca, cioè con la medesima volontà di cancellazione, ma ha parzialmente fallito nel suo intento poiché non fu capace di forgiarsi un nuovo strumento linguistico, e conseguentemente «i capi della religione cristiana» si videro costretti a scrivere la loro «legge» con lo stesso idioma dei Romani.
Nella prospettiva cosmologica elaborata nel cap. v del secondo libro, il cristianesimo è dunque condotto a far paragone di sé non più con la sola r. degli antichi, ma con la stessa struttura eterna del cosmo, a cospetto della quale non è che un’articolazione del tutto transeunte, e anzi ormai transitura. Pertanto, in questa prospettiva, così diversa da quella elaborata appena tre capitoli prima, l’affermazione del cristianesimo non è ricondotta alle conseguenze della schiacciante vittoria romana, ma è considerata come un’articolazione necessaria della vita del cosmo.
Nel cap. v del secondo libro dei Discorsi riceve una sorta di grandiosa conferma in chiave cosmologica e di filosofia della storia quanto, in un diverso orizzonte, era in qualche modo già stato indicato nel cap. ii: la differenza tra antico e moderno si fonda nella differenza di r. e non si lascia comprendere altrimenti che come differenza di religione. In definitiva sono proprio le «sètte» che danno il loro carattere alle epoche, ed è il loro «variare» che ne scandisce il succedersi. Ecco perché l’imitazione politica di Roma antica porta nel suo seno un altro e più radicale motivo, quello della polemica anticristiana. Il programma di una integrale imitazione di Roma richiedeva di essere preceduto, proprio in virtù della sua radicalità, dalla critica di quel fenomeno che della Roma antica aveva segnato la fine.
Quanto più procedeva nella critica del cristianesimo, avviata nel primo libro con la trattazione della r. dei Romani e con l’invettiva contro la Chiesa, tanto più M. si rendeva conto che nell’affermazione del cristianesimo andava individuata la radice della modernità. Criticarlo sul serio, e dar conto delle ragioni della sua affermazione, voleva dire guadagnare un orizzonte nel quale l’imitazione dell’antico cessasse di essere decorativa ed edonistica, e si facesse autentica e integrale, come era stato programmaticamente indicato fin dal proemio del primo libro. Tra la necessità dell’imitazione e la polemica anticristiana il nesso è sostanziale. Comunque, all’apice del suo impegno teorico e culturale, la polemica anticristiana si incrina e in qualche modo entra in crisi con le proprie premesse e con le ragioni che l’avevano motivata. Si tratta di un nodo problematico di fondamentale importanza, che spiega perché M. elabori due giustificazioni polarmente opposte dell’affermazione del cristianesimo.
Dapprima M. aveva ragionato di r. cristiana e di r. pagana in termini di diversità assoluta: la difettività del moderno e l’esemplarità dell’antico trovavano il loro fondamento nella radicale diversità delle rispettive r. e dei loro contenuti, ossia il moderno aveva finito con l’essere difettivo per la sua r. allo stesso modo in cui l’antico aveva potuto costruire la propria esemplarità grazie alla specifica qualità della sua r. e dell’educazione che ne derivava. Questo era stato il senso del confronto tra la r. degli antichi e quella dei moderni elaborato nel cap. ii del secondo libro dei Discorsi. Ma un altro quesito aveva finito con l’imporsi: in che modo la r. moderna aveva potuto mettere radici negli animi fieri degli antichi, educati al valore della libertà e dell’amore per la patria. La risposta che nel suo ambito il cap. ii aveva offerto era stata chiara e coerente con l’impostazione di quel capitolo: la stessa potenza di Roma, vincendo tutti i popoli del mondo e privandoli di ogni libertà, aveva reso gli animi disposti ad accogliere le lusinghe della r. del contemptus mundi e del paradiso. Era una spiegazione acuta, lucidissima, tale da storicizzare profondamente il confronto tra l’antico e il moderno, dando a ciascuno dei termini del confronto una specifica fisionomia, e cogliendo nella stessa storia di Roma e del mondo antico, e nel modo di vivere i valori della «città», le ragioni per le quali il confronto giunse a stabilirsi, per concludersi infine con l’affermazione del cristianesimo.
Ma di tale spiegazione M. non doveva sentirsi del tutto soddisfatto: dell’affermazione del cristianesimo e della fine del mondo antico cercava una ragione più profonda, o più generale; forse, una ragione che proprio per la sua generalità salvasse in qualche modo la perfezione e l’incondizionata imitabilità di Roma. Ed è per questo che sperimentò anche una diversa direzione d’indagine, nella quale l’affermazione del cristianesimo viene riconsiderata in un quadro cosmico e di filosofia della storia: un quadro capace di spiegare l’affermazione di qualsiasi r., e pertanto di assolvere Roma dall’accusa di aver aperto le porte al cristianesimo spegnendo nei popoli antichi l’amore per la libertà. Tuttavia, in questo diverso quadro l’affermazione del cristianesimo trova bensì una diversa e più generale spiegazione, ma perde la sua specificità e, r. tra le r., sorge e dura come le altre r., ha lo stesso carattere violentemente politico e intollerante che caratterizza ogni r., e insomma si fa identico a ogni religione.
Il risultato a cui M. perveniva nel cap. v del secondo libro aveva un tratto paradossale: sono le r. che fanno la differenza tra le epoche, ma le r. sono tra loro strutturalmente identiche. Con ciò la possibilità dell’imitazione dell’antico veniva minata da un altro punto di vista. Ragionando, infatti, in termini di differenza di contenuti, come nel cap. ii, M. era giunto a scavare un abisso tra l’antico e il moderno, e dunque a rendere l’imitazione, proprio in ragione dell’abisso creato dalla differenza di r., impossibile. Secondo questa linea di pensiero il cristianesimo, per lo spirito stesso delle sue dottrine, si poneva come l’evento capace di evertere la possibilità dell’imitazione, e vanificare qualsiasi progetto fondato sulla concreta ed effettuale esemplarità di Roma antica. Ma tornando a ragionare del cristianesimo nella diversa prospettiva del cap. v, la r. dei moderni, al pari di quella degli antichi, si veniva a trovare inscritta in una struttura cosmica che, sempre identica a sé stessa, scandisce il «variare delle sètte» e ne determina la durata. In questa situazione il rapporto tra la r. degli antichi e quella dei moderni si presenta in termini non di differenza ma di identità sostanziale. Pertanto, in tale prospettiva l’imitazione diveniva problematica, se non impossibile, per un’altra ragione, giacché si imita il diverso, non l’identico, non potendo in effetti costituire oggetto di imitazione quel che si è costituito secondo le medesime leggi e agisce secondo la medesima logica di ciò che dell’imitazione deve essere il soggetto. Pensate nel quadro del cap. v, non solo le r. sono strutturalmente e sostanzialmente identiche, ma acquisiscono, ciascuna nel proprio ambito, una propria invalicabile necessità in cui l’imitazione dell’altro da sé è pura contraddizione in termini. Se il cristianesimo è pensato come «sètta» tra le «sètte», come r. che al pari di ogni altra r. si costituisce secondo il ritmo sempre identico della vita del cosmo, è certo giusto dire che non può pretendere nulla di più di qualsiasi altra r., ma, bisogna anche aggiungere, nulla di meno, poiché è sorto con la medesima necessità con cui sorgono tutte le altre «sètte», e quindi, in questa prospettiva, non è né più né meno difettivo di qualsiasi altra religione.
M. aveva mostrato di essere consapevole che nell’affermazione del cristianesimo era in questione la possibilità dell’imitazione di Roma. Aveva quindi percorso due direzioni diametralmente opposte: il cristianesimo come radicale diversità dall’antico, e dunque come essenza del moderno e della sua difettività; e il cristianesimo come «sètta» tra le «sètte», che nasce, vive e muore come ogni altra «sètta». Nondimeno entrambe le direzioni si erano mostrate incapaci di fondare la possibilità dell’imitazione.
Chiuso il cap. v, il seguito del secondo libro dei Discorsi vive di questa situazione che la problematica fondazione dell’imitazione aveva creata: in ciò sta la ragione della struttura che esso presenta, con il blocco compatto e teoricamente impegnato dei primi cinque capitoli, attraverso i quali si snoda la critica al cristianesimo, e poi il seguito alquanto slegato dei diversi corollari, dove la stessa esemplarità di Roma subisce una notevole metamorfosi rispetto a come era apparsa nel primo libro, e anche nel Principe. Roma, s’intende, è sempre e a maggior ragione il modello perfetto di prassi politica e militare, e i «presenti nostri tempi» sono sempre gravemente difettivi, ma le due constatazioni non costituiscono più i termini generali entro i quali si accende la scintilla di una volontà di agire nel e sul presente: l’esemplarità di Roma, a mano a mano che il secondo libro procede, perde il suo carattere di modello effettivo per l’azione e diviene il criterio di una condanna amara rivolta al presente.
Questa atmosfera di implacabile condanna del presente – che era la conseguenza della drammatica fondazione della modernità a cui i Discorsi avevano messo capo – avvolge tutte la successiva produzione machiavelliana, politica, letteraria e storica.
Bibliografia: D. Cantimori, Niccolò Machiavelli: il politico e lo storico, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Cecchi,
N. Sapegno, 4° vol., Milano 1966, pp. 7-53 (ora in Id., Machiavelli, Guicciardini, le idee religiose del Cinquecento, a cura di A. Prosperi, Pisa 2013); A. Tenenti, La religione di Machiavelli, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra Medioevo ed età moderna, Bologna 1978, pp. 175-219; J.S. Preus, Machiavelli’s functional analysis of religion. Context and object, «Journal of the history of ideas», 1979, 40, 2, pp. 171-90; H.-J. Diesner, Die Religion eines frühneuzeitlichen Staatstheoretikers. Machiavelli als religiöser Denker, «Theologische Literaturzeitung», 1989, 114, 4, pp. 249-56; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, nuova ed. Bologna 1993, pp. 549-61, 593-602; E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma 1998; «Journal of the history of ideas», 1999, 60, 4, nr. dedicato a M. e la r.; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma-Bari 2005; C. Vasoli, Machiavelli, la religione ‘civile’ degli antichi e le ‘armi’, in Id., Ficino, Savonarola, Machiavelli. Studi di storia della cultura, Torino 2006, pp. 593-611; A. Brown, Philosophy and religion in Machiavelli, in The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 157-71.