religione e filosofia
Il termine religione e il termine filosofia hanno accezioni differenti a seconda del contesto in cui sono utilizzati e dei concetti che intendono esprimere. Se ci si limita alla cultura occidentale, in cui questi termini hanno le loro origini e sviluppi (prima che venissero applicati – come diverrà comune soprattutto nell’Ottocento e Novecento – al mondo orientale o alle culture considerate primitive dal punto di vista tecnico o economico-sociale), è possibile distinguere cinque periodi nei quali r. e f., in diversi significati, sono entrate in diverse relazioni.
Nella cultura greca vi è un contrasto tra la religione, in quanto credenza nell’esistenza di divinità protettrici della Città di cui si deve rispettare il culto – rappresentino esse forze spirituali, quali la sapienza o la giustizia o la bellezza, o forze della natura, quali la potenza fisica o la produttività della terra –, e la filosofia. La filosofia, si identifichi questa con l’«amore per la sapienza» (Eraclito, framm. B 35 Diels-Kranz), ossia amore per la scienza del principio primo o essenza delle cose, oppure con l’apprendere a «non temere la morte» (Platone, Fedone, 64 a-b), o con il «rendersi simili a Dio» (Platone, Teeteto, 176 a-b), o con l’atteggiamento più adatto all’uomo poiché intermedio tra l’assoluto non sapere e il sapere divino (Platone, Fedro, 278 d; Simposio, 203 a-b), o con la «scienza peculiare che indaga l’ente in quanto ente» (Aristotele, Metafisica, IV, 1, 1003 a 21), oppure con «un’attività che procura la vita felice attraverso l’argomentazione e la discussione» (Epicuro, framm. 219), critica la religione o perché questa attribuisce vizi agli dei, allontanando l’uomo dalle virtù, e sottomette l’uomo alle sue proprie creazioni (Senofane, framm. B 11, 15, 16), o perché pone l’uomo alle dipendenze del cielo e della Terra privandolo della libertà di ricercare come migliorare la propria anima (Platone, Apologia di Socrate, 19 b-c, 29 d-e), oppure perché si mostra incapace di pensare il divino al di là della sua raffigurazione in forme sensibili (Platone, Repubblica, VII, 514-519; X, 600 b-e). Poiché la religione greca rientra nel mito come modo di vivere, intuire e pensare in cui l’uomo non è consapevole della distinzione tra il divino e l’umano, lo spirito e la materia, e la filosofia si fonda invece sull’attività intellettuale e sugli affetti che rendono possibile questa attività – fedeltà alle leggi della Città, temperanza nel soddisfacimento dei bisogni naturali, moderazione delle passioni –, si apre un aspro conflitto tra r. e f. fin dal sorgere della stessa filosofia (Cassirer, The myth of the State, 1946; trad. it. Il mito dello Stato): al mondo degli dei e degli eroi della religione, descritto dagli antichi poeti Omero ed Esiodo o portato sulla scena dagli autori di tragedie o rappresentato dagli scultori (Kerényi, Die Mythologie der Griechen, vol. 1°, 1951, vol. 2°, 1958; trad. it., Gli dei della Grecia), la filosofia oppone il suo concetto del divino, il mondo umano, ragionamenti, immagini o metafore di cui espone il senso. Tanto la religione, parte del mito, quanto la filosofia hanno origine dallo «stupore» di fronte all’essere delle cose (Aristotele, Metafisica, I, 1, 982 b 18-19): ma la prima, nel ricercare i fondamenti dell’essere, ricorre a narrazioni, la seconda si appella all’osservazione e alla deduzione. La filosofia può rintracciare l’unità di tutto ciò che è in un principio intellettuale delineando una continuità tra il mondo naturale e umano e il sovrasensibile (presocratici, Aristotele, stoici, Plotino); oppure, istituendo una discontinuità tra il cosmo e il divino, può subordinare l’essere al bene in quanto principio attivo al di là dell’essere stesso (Platone, Repubblica, VI, 508 c-e, 509 a-b); o ancora, può rinunciare alla ricerca di un’origine prima delle cose nella consapevolezza dei limiti della ragione in quanto legata a una sensibilità ingannevole, impotente di fronte alla pluralità delle opinioni, connessa necessariamente all’esistenza dell’uomo (sofisti, scettici, epicurei). In ogni caso nei Greci la filosofia ha un atteggiamento critico nei confronti della religione, intesa sia come credenza in divinità che intervengono nella vita umana sia come insieme di prescrizioni rituali. Una differenziazione tra r. come credenza in dei dotati di virtù e vizi umani e r. come culto è invece tracciata da Cicerone (De natura deorum, II, 70-72): soltanto alla seconda spetta propriamente il nome di religio, se si compie secondo le regole tramandate dai padri, mentre alla prima compete il nome di superstitio, che si riferisce anche a un culto eccessivo dovuto a timore riguardo al futuro. «Coloro che diligentemente riconsiderano e quasi ripercorrono (relegerent) tutto ciò che riguarda il culto degli dei, sono chiamati religiosi (relegiosi) da legendo» (II, 71): in tal modo religio e philosophia, indirizzata alla ricerca della conoscenza del divino, non si oppongono, ma possono unificarsi. Tanto Cicerone, rappresentante di una cultura romana rivolta più alla prassi che alla rigorosa speculazione, quanto i pensatori greci concepiscono però la religione in riferimento alle tradizioni delle società di cui sono membri, dunque come credenza determinata e insieme di azioni particolari.
Il padre della Chiesa Lattanzio (3° sec.) polemizza con Cicerone e riconduce la religio non al verbo relegere, ma al verbo religare: essa non indica una serie di atti cerimoniali, ma il nesso tra Dio e colui che lo conosce e lo segue, dopo aver abbandonato le «vanità» e il «miserabile errore» di «questa vita temporale» (Divinae institutiones, liber IV, De vera sapientia et religione, 28). Se la religione viene a identificarsi con la dottrina e il modo di vivere insegnati e diffusi dal cristianesimo e con l’autentico sapere, risultano da un lato negate come religione le forme di rapporto tra un Dio che si è rivelato e l’uomo diverse da quella affermata dalla Chiesa, dall’altro negata come sapienza la filosofia dei Greci e dei Romani. Già Tertulliano (2° sec.), rappresentante dell’apologetica latina, aveva separato nettamente r. e f., intendendo la prima esclusivamente come fede cristiana e la seconda come un’indagine destinata a non dare frutti dal punto di vista della salvezza. Questa impostazione sarà presente anche nei secoli successivi (Pier Damiani, Bernardo di Chiaravalle, Guglielmo di Occam). Tuttavia, poiché è già contenuto nella fede cristiana in quanto πίστις (è questo il termine greco utilizzato nel Nuovo Testamento) il riferimento alla conoscenza dell’essere, mentre nella Bibbia ebraica la fede (emunah) esprime soprattutto fiducia in Dio (Buber, Zwei Glaubensweisen, 1950; trad. it. Due tipi di fede: fede ebraica e fede cristiana), r. e f. tendono a intrecciarsi in vario modo negli autori cristiani fin dal 2° sec.: nella patristica (Clemente di Alessandria, Origene, Agostino) e nella scolastica (secc. 11°-14°) si manifesta prevalentemente tale orientamento. Nel 13° sec. la scolastica recepisce il pensiero islamico ed ebraico che aveva avuto origine nel 9° sec. nel Vicino Oriente e in Africa settentrionale e si era sviluppato nei secc. 11° e 12° principalmente nella Spagna sotto dominio arabo: religione è per gli esponenti di questo pensiero non primariamente una credenza in un complesso di dottrine che non sono pienamente giustificabili alla luce della ragione, come per i pensatori cristiani del tempo, ma halākāh (dalla radice ebraica hlch «camminare») o sharī‛a («retta via»), ossia un complesso di leggi che regolano la vita di coloro che a esse sono sottomessi, appartenendo o alla comunità ebraica o alla comunità musulmana. Per al-Fārā´bī, Avicenna, Averroè il Corano, per Saadia Ha-Gaon, Ibn Gebīrōl, Yehudah Ha-Levi, Maimonide la Tōrāh costituisce la base del filosofare e l’oggetto del filosofare: Corano e Tōrāh, insieme ai loro successivi commenti e interpretazioni, sono innanzitutto visti come codici di leggi e prescrizioni. Se il pensiero islamico ed ebraico acquista perciò l’aspetto di indagine sui fondamenti della Città, assunti come punto di partenza, configurandosi come filosofia etico-politica, quello della scolastica, di cui massimo rappresentante è Tommaso d’Aquino, orientato da una fede nel senso di credenza, si configura come metafisica, ossia scienza dell’ente, inteso sia in quanto ente in generale sia in quanto ente sommo, da un lato ispirata dagli articoli della fede cristiana, dall’altro conducente alla fede cristiana (L. Strauss, Philosophie und Gesetz, 1935; trad.it. Filosofia e legge: contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori). Così Tommaso, nella Summa contra Gentiles e nella Summa theologiae, da un lato introduce nell’ambito filosofico la religione (origine del mondo in un Dio persona, Provvidenza nella natura e nella storia, redenzione umana come fine ultimo della creazione), dall’altro considera come presupposto della religione la filosofia: la religione risulta in queste opere coincidente con il cristianesimo e la filosofia con un pensiero che riprende Aristotele. Tale impostazione sarà fondamentalmente mantenuta nelle correnti neotomiste dell’Ottocento e del Novecento, espressioni di un cattolicesimo polemico nei confronti della filosofia moderna, sebbene a volte ispirato anche da quest’ultima.
Si deve a Cusano (De pace fidei, 1453) l’uso del termine religio per indicare non più solo la fede cristiana, ma ciò che accomuna le varie fedi. Questo ampliamento della nozione di r., condiviso da Ficino e Campanella, sviluppatosi nei secc. 17° e 18°, anche a causa delle guerre di r. e della formazione degli Stati moderni, che sempre più avocano a sé le sfere di attività della Chiesa, si accompagna con un progressivo rendersi indipendente dalla fede cristiana della filosofia, sempre più orientata verso quel sapere geometrico-matematico che ha dato buona prova di sé nelle moderne scienze della natura. Se Descartes nel Discorso sul metodo (➔) (1637) ritiene campo primario della critica filosofica il sapere, astenendosi da un esame della r. in quanto tradizione vigente, rafforzata anche a volte dal potere pubblico, Leibniz nei Saggi di teodicea (1710) e nei Principi della natura e della grazia (1714) esprime l’esigenza di un cristianesimo che si accordi con una metafisica che conserva sì al suo interno, in quanto fondati sulla ragione, i concetti di creazione e di libera volontà divina, propri della dottrina cristiana, ma è incentrata ormai sulla nozione, caratteristica della fisica moderna, di forza viva. A favore di una conciliazione tra r. e f., mediante l’affermazione del nucleo razionale – riguardante i principi morali e l’esistenza di un Dio saggio, giusto e buono – presente nelle varie fedi, si schierano i pensatori della Scuola di Cambridge (Herbert di Cherbury, Cudworth), i fautori di una r. ‘razionale’ o ‘naturale’ in Inghilterra (Locke, Shaftesbury) e Francia (Voltaire, Diderot, Rousseau), i difensori della Aufklärung come movimento di rinnovamento soprattutto nell’ambito religioso (Lessing, autore del dramma Nathan der Weise, e Mendelssohn). Le loro parole d’ordine sono: tolleranza, pace religiosa entro lo Stato e tra le nazioni, diritti del cittadino come essere umano, al di là della sua appartenenza a una determinata comunità di fede. Posizione originale, riguardo al rapporto tra r. e f., ha Spinoza: iniziatore della critica biblica mediante strumenti filologici e storici, che avrà grande sviluppo specie in ambiente tedesco (Reimarus, D. F. Strauss, Wellhausen), Spinoza, da un lato, nel Tractatus theologico-politicus (1670) separa radicalmente teologia e filosofia, identificando il senso della r. solo nell’insegnamento dei principi di giustizia e benevolenza, dall’altro, nell’Etica (➔) (post., 1677) sostituisce al Dio affermato dalla tradizione ebraica e cristiana la Sostanza che si esprime in infiniti attributi e i cui modi o affezioni sono i corpi e le menti, costruendo more geometrico un’etica negatrice sì della libertà umana come spontaneità, non però della libertà come un amor Dei intellectualis che implica l’amore per ogni ente e produce la moderazione degli affetti come passioni. Nella Riforma vi sono correnti che, svalutando la ragione come strumento di conoscenza della realtà, considerano discordanti r. e f. (luteranesimo, calvinismo, puritanesimo, pietismo), così come accade anche nella Controriforma (Giansenio, Arnauld, Pascal); vi sono tuttavia anche in esse pensatori che, nella ripresa della scolastica medievale, tendono a un accordo tra r. e f. (il luterano Wolff, il cattolico Malebranche). Della r. ricostruiscono la genesi, posta nel timore e nella speranza, le correnti filosofiche scettiche, naturalistiche, materialistiche, libertine, presenti in ambiente inglese e francese (Montaigne, Hume, d’Holbach, La Mettrie), giungendo ad approdi fortemente critici dell’ascetismo cristiano. Altri filosofi (Machiavelli, Hobbes), riprendendo Epicuro, riflettono sulla r. dal punto di vista del dominio che essa esercita sull’animo umano e dunque del suo rapporto con il potere politico. È soltanto con Kant, tuttavia, a causa della sua dimostrazione della non scientificità della metafisica – compresa sia come ‘ontologia’, sia come scienza culminante nella ‘teologia razionale’ o ‘filosofica’ –, della sua «rivoluzione copernicana» nell’ambito della filosofia (che consiste nel porre il soggetto come principio dell’essere) e della sua tesi del primato della ragione pratica, che la r. viene nettamente distaccata dal sapere teoretico rivolto al sovrasensibile per trasformarsi in una sfera della cultura umana e collegarsi così con l’etica, l’arte, la storia.
Dopo Kant, sono Schleiermacher e Hegel, in ambito tedesco, i sostenitori della necessità di introdurre nel sistema filosofico, rivolto alla comprensione del tutto della cultura, una riflessione avente per oggetto peculiare la r.: il primo intende la Philosophie der Religion come descrizione del «sentimento» o «intuizione» dell’Infinito; il secondo come chiarimento di una «rappresentazione» del divino che costituisce il grado immediatamente anteriore a quello dell’idea di Dio affermata dalla filosofia. La Philosophie der Religion è coltivata nella Germania della seconda metà del 19° sec. da autori che si richiamano a Schleiermacher (Ritschl), o a Kant (Troeltsch, Weber), o insieme a Kant e a Hegel (Windelband, Natorp): antropologia, etnologia, sociologia, orientalistica, offrono loro gli strumenti per la costruzione di una storia filosofica delle religioni. È ancora dall’ambito hegeliano che si sviluppa, con i rappresentanti dell’ala sinistra (Feuerbach, Stirner, Marx), una critica filosofica della r. in quanto alienazione e ipostatizzazione da parte dell’uomo della sua propria essenza – una critica che, con Engels, confluisce nella critica di ispirazione naturalistica (Darwin) o materialistica (Carl Vogt, Jacob Moleschott). Se le correnti idealistiche o spiritualistiche in ambito europeo o nordamericano, orientando la filosofia in senso religioso, ossia come ricerca dell’eterno, instaurano un dialogo con la tradizione ebraica o cristiana, quelle positivistiche assegnano a volte alla scienza il valore di nuova r.: per es., Hermann Cohen costruisce una «religione della ragione» dalle fonti ebraiche, Royce ricerca un cristianesimo comprensibile all’uomo in quanto «Io» agente, Comte identifica i «santi» di una r. del futuro soprattutto negli scienziati come benefattori dell’umanità. In Kierkegaard si delinea un’opposizione tra r. e f.: seguendo l’Epistola ai Romani, in Timore e tremore (1843) egli vede in un Abramo che, obbediente a Dio, compie il sacrificio dell’intelletto, silenzioso di fronte agli uomini, nel momento in cui dà corso al comando di offrire Isacco in olocausto, il «cavaliere della fede». Specie di contro a una religione percepita come nemica della ragione si afferma l’ateismo: il grido di Nietzsche «Dio è morto» (La gaia scienza, 1881-82) esprime però non solo la separazione radicale della filosofia, in quanto scienza del divenire, dalla religione, ma anche l’esigenza di una filosofia che si trasformi in una r. dell’«eterno ritorno».
La fenomenologia proposta da Husserl e la filosofia analitica presente nel mondo di lingua inglese hanno indicato nel 20° sec. nuovi percorsi alla ricerca sulla religione: la prima indaga l’atto spirituale da cui la religione ha origine (Otto, Scheler, Stein, Ricoeur), la seconda il suo peculiare linguaggio (Wittgenstein, Hare, Charles Hartshorne). La critica della tradizione metafisica – da Platone a Nietzsche – da parte di Heidegger in nome di un ritorno dell’uomo all’«attendere» (nel duplice senso di attesa e servizio) nei confronti dell’essere ha ispirato la tesi della necessità di un ritorno della filosofia alla religione come mito, indagini sulla religione in quanto assegnazione di senso entro la società, teologie che problematizzano il loro oggetto. Pensatori ebrei (Rosenzweig, Buber, Lévinas) propongono l’identificazione della religione con un’etica rinviante a un Dio irrappresentabile da parte di una filosofia che, rinunciando alla sua fondazione nel logos, presuppone da parte dell’uomo un atteggiamento di apertura all’Altro. Le filosofie della comunicazione (Quine, Putnam, Habermas, Apel) si pongono la questione del ruolo della religione in riferimento alle condizioni che rendono possibile la pubblica discussione, cercando di unire nell’ambito di quest’ultima particolarità e universalità.