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Reato e pene
In materia di dolo e colpa, nel corso del 2014, è intervenuta una importante sentenza delle Sezioni Unite della Corte suprema (Cass. pen., 24.4.2014, n. 38343), della quale si tratta diffusamente in questa sezione del volume (2.1.1 Il dolo eventuale alla luce del caso Thyssenkrupp). Si deve qui segnalare, piuttosto, la prima affermazione giurisprudenziale di un principio già espresso talvolta in dottrina, con particolare riguardo al dolo eventuale. La Corte di legittimità ha infatti escluso che detta forma di dolo sia compatibile con i delitti di attentato, analogamente a quanto ormai comunemente si afferma per l’ipotesi del tentativo. Anche per i delitti in questione, infatti, l’idoneità degli atti e il loro univoco orientamento causale verso un evento dato costituiscono i soli fattori tipizzanti della fattispecie. Essendo l’univocità un elemento essenziale del fatto, l’agente non può che percepire e concepire la propria condotta quale mezzo diretto alla produzione dell’evento (Cass. pen., 15.5.2014, n. 28009).
Non si è spezzata, nel corso del 2014, la catena delle verifiche negative circa la compatibilità costituzionale d’una tra le più discusse riforme del sistema penale, cioè quella della recidiva (l. 5.12.2005, n. 251). Sotto la lente della Consulta, in particolare, sono passate e ancora dovranno passare le presunzioni assolute di pericolosità che dovrebbero ragionevolmente sostenere gli automatismi introdotti nella disciplina.
In primo luogo vanno ricordate le nuove dichiarazioni di illegittimità che hanno colpito l’art. 69 c.p., nella parte in cui alterava il libero bilanciamento tra recidiva e circostanze attenuanti speciali.
Il legislatore talvolta accomuna in unica fattispecie condotte che, pur lesive del medesimo bene giuridico, presentano gradi di offensività molto diversi, affidando la proporzionalità della reazione punitiva a figure circostanziali diminuenti. Il divieto che queste ultime producessero i propri effetti, nei casi di recidiva reiterata, implicava in concreto esiti di assoluta irragionevolezza sul piano del sanzionamento.
Un primo intervento di rimozione v’era stato con riguardo alle fattispecie di «lieve entità» in materia di stupefacenti (C. cost., 15.11.2012, n. 251). Due pronunce analoghe sono state pubblicate, il 18.4.2014, in riferimento ad altre diminuenti a carattere speciale. Con la prima sentenza (n. 105), l’art. 69, co. 4, c.p. è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui vietava il giudizio di prevalenza sulla recidiva reiterata della circostanza prevista dall’art. 648, co. 2, c.p., relativamente ai casi ricettazione che possono definirsi di «particolare tenuità». Con il secondo provvedimento (n. 106), un’analoga decisione demolitoria è stata presa riguardo alla circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis, co. 3, c.p.: anche per i casi di violenza sessuale definiti di «minore gravità» è data possibilità di recupero, per il recidivo reiterato, di valori di pena più adeguati al fatto commesso.
Prossimamente, comunque, la Consulta sarà chiamata ad affrontare il problema più radicale dell’attuale disciplina, cioè l’applicazione obbligatoria della recidiva nei casi indicati al co. 5 dell’art. 99 c.p. La Corte di legittimità ha infatti sollevato questione di legittimità costituzionale della norma appena citata, per l’ipotizzato contrasto con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost. (Cass. pen., 5.7.2014, n. 37443).
La presunzione dimaggior pericolosità è fondata nella specie sulla natura dei reati cd. “espressivi” (cioè quelli per i quali deve essere disposto l’aumento di pena), individuati mediante il rinvio all’elenco contenuto nell’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. Scelta questa irrazionale, secondo la Cassazione, perché l’elenco ha finalità processuali (la determinazione del termine massimo di durata delle indagini), calibrate sulla complessità di accertamento e non sulla gravità (dunque sul valore sintomatico) del fatto. Ma sarebbe irragionevole, soprattutto, il carattere assoluto della presunzione, essendo «agevole» l’individuazione di casi concreti in cui manchi la caratteristica cui si connette la conseguenza automatica prevista dal legislatore (basta in effetti, secondo l’opinione dominante, che il nuovo reato sia commesso dopo una condanna per qualsiasi delitto non colposo).
L’irragionevolezza priverebbe di giustificazione il trattamento paritario per situazioni non assimilabili, e comporterebbe, in singoli casi, l’elusione del principio di proporzionalità tra fatto e pena.
Tornando alle decisioni della Corte costituzionale che hanno scardinato vincoli alla comparazione tra circostanze, si è posto il problema della efficacia delle relative sentenze nei casi già coperti da giudicato.
Se infatti è pacifico che la sentenza irrevocabile resta travolta dalla sopravvenuta dichiarazione di illegittimità della norma incriminatrice, non si era mai affermato un principio analogo nel caso di «annullamento» di norme penali con una diversa funzione (come quelle che, appunto, regolano l’influenza delle circostanze).
La questione è stata affrontata e risolta dalle Sezioni Unite della Cassazione con riguardo alla più risalente tra le sentenze sull’art. 69 c.p., quella riguardante il co. 5 dell’art. 73 del d.P.R. 9.10.1990, n. 309. La Corte ha stabilito che la dichiarazione di illegittimità costituzionale d’una norma che incide sul trattamento sanzionatorio comporta una possibile rideterminazione della pena nella sede dell’esecuzione, vincendo la preclusione del giudicato. Si è anche precisato, alla luce del travagliato processo evolutivo della norma presa in specifica considerazione, che il giudice dell’esecuzione, nel caso stabilisca la prevalenza della circostanza prevista al co. 5 dell’art. 73, dovrà applicare tale norma nel testo «ripristinato» a seguito della sentenza della Corte costituzionale 25.2.2014, n. 32, senza tenere conto del successivo intervento di riforma (Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 42658).
Altro tema controverso, per il quale nuove importanti evoluzioni si sono registrate nel 2014, è quello dei limiti alla libertà di computo della pena, per il reato continuato, quando il giudice dell’impugnazione sia investito del solo gravame proposto dall’imputato.
L’atteggiamento della giurisprudenza è obiettivamente ondivago, e si comprende: se da un lato si tratta di assecondare il divieto di reformatio in peius, dall’altro resta chiaro che ogni singolo limite all’autonomia del giudice pregiudica l’esatta corrispondenza tra fatto e sanzione e, nel contempo, incentiva le impugnazioni.
Nel 2005 le Sezioni Unite avevano stabilito che non solo la pena complessiva per il reato continuato non può essere maggiore di quella precedentemente inflitta (salvo naturalmente il caso di impugnazione concorrente del p.m.), ma che anche le singole quantità comprese nel calcolo (dalla pena base agli aumenti per i reati satellite) sono soggette allo stesso vincolo (Cass. pen., S.U., 27.09.2005, n. 40910).
Ecco però il recente correttivo. La regola vale finché rimane inalterata la «sequenza» dei reati affluenti nella fattispecie continuata (cioè, stesso reato base e stessi reati satellite). Al contrario, se il giudice dell’impugnazione individua diversamente il reato più grave, possono esservi variazioni in aumento (nella specie concernenti un reato satellite in precedenza apprezzato quale reato-base), a titolo di continuazione, purché il valore complessivo della pena non superi quello fissato con la decisione impugnata (Cass. pen., S.U., 27.3.2014, n. 16208).
Sotto il profilo delle novità normative, il 2014 si segnala tra l’altro per l’introduzione (o, meglio, la generalizzazione) di una nuova causa di estinzione del reato, che si determina allorquando sortisce esito positivo il procedimento di messa alla prova cui possono essere ammessi, grazie appunto alla riforma, anche i soggetti maggiorenni (l. 28.4.2014, n. 67).
L’art. 168 bis c.p. regola i presupposti oggettivi per l’apertura del procedimento, che si connettono alla contenuta gravità del reato, pur con qualche apertura verso ipotesi di maggiore rilievo offensivo, in modo da rendere la misura «competitiva» rispetto ad altre procedure che possono culminare con il medesimo effetto estintivo (sospensione condizionale, patteggiamento): la selezione è infatti operata con riferimento ai valori edittali di pena (quattro anni di massimo), ma anche mediante un rinvio all’elenco delle fattispecie per le quali il co. 2 dell’art. 550 c.p. consente la citazione diretta a giudizio, nonostante previsioni sanzionatorie più aspre.
Gli ultimi due commi dello stesso art. 168 bis fissano i presupposti soggettivi per l’accesso alla procedura: deve trattarsi di persona che non ne abbia in precedenza fruito, e per la quale non ricorrano le condizioni indicate agli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 c.p.
La messa alla prova, che implica la sospensione del procedimento, consiste nella «prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato », e nell’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma, che può comprendere attività di volontariato e prescrizioni limitative della libertà (art. 168 bis, co. 2). Nel contempo (co. 3), l’interessato deve assicurare un lavoro di pubblica utilità, cioè una prestazione non retribuita, di durata non inferiore a dieci giorni, in favore della collettività.
È stabilita la revoca dell’ammissione, quando si riscontrino gravi o reiterate trasgressioni al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte, o si registri il rifiuto della prestazione del lavoro di pubblica utilità (art. 168 quater, che al n. 2 prevede analoga revoca nel caso della commissione di nuovi reati). È fin d’ora discussa la disciplina dei casi in cui il soggetto agente non riesca a collocarsi presso una struttura abilitata a ricevere la prestazione, nonostante i propri sforzi in tal senso. Va registrato, per altro, che la legge non sembra limitare la rilevanza della prestazione al caso di enti pubblici o di soggetti ufficialmente convenzionati.
Molte sono state le discussioni circa una misura (il lavoro di pubblica utilità, appunto) che il nostro ordinamento conosce come sanzione penale, e che viene nella specie applicata pur nell’assenza d’un previo accertamento di responsabilità. La natura irrisolta della previsione emerge anche dall’assenza di indici normativi per la commisurazione della durata della prestazione, per la quale, come si è visto, è stabilito soltanto un minimo.
L’esito positivo della prova estingue il reato, senza pregiudizio per l’applicazione di eventuali sanzioni amministrative. Nel corso della procedura è sospeso il termine prescrizionale (art. 168-ter c.p.). Restando in tema di cause estintive, anche nel 2014 si sono registrate novità in punto di prescrizione. In particolare va segnalata una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 157, co. 6, c.p., nella parte in cui prevedeva che i termini ordinari di prescrizione fossero raddoppiati per il delitto di incendio colposo. È stata considerata irragionevole la discriminazione esistente tra il caso appunto dell’incendio colposo (termine di 12 anni) e quello dell’incendio doloso (termine non raddoppiato, dunque pari a 6 anni).Un trattamento addirittura invertito rispetto alla gravità delle fattispecie, che secondo la Consulta deve costituire il fattore primario (anche se non esclusivo) di orientamento nella determinazione legislativa dei termini prescrizionali (C. cost., 28.5.2014, n. 143).
Va poi ricordata una pronuncia delle Sezioni Unite in materia di oblazione. Com’è noto la Consulta, con la sent. 29.12.1995, n. 530, aveva dichiarato l’illegittimità degli artt. 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la facoltà per l’imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162 bis c.p., relativamente al fatto diverso od al reato concorrente contestati in dibattimento.
Di conseguenza, qualche anno dopo, il testo dell’art. 141 disp. att. c.p.p. (co. 4-bis) era stato modificato nel senso che, «in caso di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, l’imputato è rimesso in termini per chiedere la medesima».
Si era posto, negli anni seguiti alla riforma, il problema se il meccanismo operasse solo a fronte di modifiche dell’imputazione operate dal pubblico ministero, o se piuttosto l’accesso all’oblazione dovesse essere garantito anche in caso di riqualificazione giuridica operata dal giudice con la sentenza, quando la stessa comportasse, a differenza della qualificazione originaria, l’astratta possibilità di ricorso all’istituto.
Sul contrasto le Sezioni Unite erano intervenute una prima volta negando che la rimessione in termini potesse essere disposta dal giudice con la condanna per il reato ritenuto in sentenza (Cass. pen., S.U., 28.02.2006, n. 7645). Tuttavia le oscillazioni giurisprudenziali sono continuate, tanto da indurre la necessità di un nuovo intervento del massimo Collegio (Cass. pen., S.U., 26.06.2014, n. 32351).
La Corte ha confermato il precedente orientamento negativo, con una importante puntualizzazione, e cioè che l’imputato può «garantirsi» il diritto alla rimessione in termini con una tempestiva domanda «in prevenzione», ove sia sollecitata, appunto, una qualificazione del fatto tale da rendere ammissibile il ricorso all’oblazione. Quando però tale domanda non sia stata formulata, il giudice che delibera con la condanna una diversa definizione del reato non può e non deve assegnare all’imputato il termine per l’eventuale richiesta. La soluzione negativa, al proposito, è stata confermata aggiornando il ragionamento rispetto alle più recenti frontiere di garanzia del diritto di difesa. In particolare la Corte ha escluso il rilievo della giurisprudenza sovranazionale sul diritto dell’accusato alla previa interlocuzione in punto di diversa qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice (si ricordi, tra le altre, la nota decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Drassich c. Italia), poiché la relativa tutela sarebbe apprestata solo con riguardo alle modifiche peggiorative del trattamento sanzionatorio.
A proposito infine di prescrizione della pena, può segnalarsi un contrasto di giurisprudenza circa la decorrenza del relativo termine, quando la sanzione diviene eseguibile in forza di revoca dell’indulto (o di altro beneficio). Secondo un primo orientamento, la regola fissata nell’art. 172, co. 5, c.p. (se l’esecuzione è subordinata ad una condizione, il termine prescrizionale decorre dal momento in cui la condizione si è verificata) va intesa nel senso che occorre attendere il passaggio in giudicato del provvedimento che revoca il beneficio. Altra parte della giurisprudenza assegna rilievo invece alla condizione «sostanziale» per la revoca dell’indulto, cioè l’intervento di una nuova condanna, e dunque la decorrenza andrebbe collegata al passaggio in giudicato della sentenza relativa al nuovo reato, senza necessità di attendere che si consolidi il provvedimento consequenziale di revoca.
Il contrasto era netto e molto persistente, cosicché la questione era stata rimessa alle Sezioni Unite (Cass. pen., 21.3.2014, n. 30007). Il massimo Collegio ha deliberato il 30.10.2014, stabilendo (informazione provvisoria) che il termine di prescrizione della pena decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, quale presupposto della revoca del beneficio.
Come sempre, negli ultimi anni, sul terreno della confisca si sono registrate forti tensioni (si veda anche il contributo in questa area del volume, 2.2.1 Novità in materia di confisca). I provvedimenti giurisdizionali dalle implicazioni potenzialmente più rilevanti attengono alla possibilità di procedere, anche in caso di prescrizione del reato, alla confisca urbanistica, cioè quella prevista dall’art. 44, co. 2, d.P.R. 6.6.2001, n. 380, riguardo ai «terreni abusivamente lottizzati e alle opere abusivamente costruite», che il giudice penale deve disporre con la «sentenza definitiva… che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva».
Le ragioni del contendere sono ormai note a tutti. Nel caso Sud Fondi (provvedimenti del 10.8.2007 e del 20.1.2009), la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia per avere applicato la norma in questione con una decisione di proscioglimento (difetto di dolo per errore scusabile sul precetto penale), in base al principio che la confisca de qua dovesse considerarsi, ai fini convenzionali, una «sanzione penale», e che non potesse dunque essere «inflitta» senza un accertamento della colpevolezza (intesa in senso soggettivo).Una nuova condanna è intervenuta, proprio con riguardo ad una sentenza dichiarativa del non doversi procedere per sopravvenuta prescrizione, nel caso Varvara c. Italia (sentenza 29.10.2013). In questo caso l’accento si è posto nella maggiore misura sulla dimensione processuale del problema, avendo la Corte europea sostanzialmente affermato che la «pena» deve conseguire ad un accertamento della responsabilità, operato con la piena applicazione delle garanzie convenzionali in materia di equo processo (le censure proposte in base all’art. 6 CEDU sono state ritenute «assorbite», comunque, per l’accoglimento di quelle concernenti l’art. 7: «sarebbe incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, d’altra parte, una punizione quando, come nella specie, la persona interessata non sia stata condannata»).
La giurisprudenza di legittimità aveva «fronteggiato» le pronunce Sud Fondi affermando e ribadendo che la confisca urbanistica è una sanzione amministrativa, per altro subordinata all’accertamento della colpevolezza, ai sensi dell’art. 3 l. 24.11.1981, n. 689.
Ma la tenuta della «soluzione» appare ormai pregiudicata, di fronte ad una presa di posizione che sembra esigere, comunque, una sentenza di condanna quale «luogo» del provvedimento ablatorio. Si va dunque diffondendo l’opinione che il diritto nazionale (cioè il citato art. 44) contrasti con l’art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Se alcuni giudici di merito hanno tratto la conseguenza della illegittimità della norma nazionale, per l’asserita violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. (Trib. Teramo, 17.1.2014), la Cassazione, partendo dal medesimo presupposto, ha ipotizzato che il conflitto tra la norma convenzionale e l’art. 44 vada risolto «a favore» di quest’ultimo, perché la disciplina contrapposta contrasterebbe con numerosi parametri costituzionali interni (artt. 2, 9, 32, 41, 42, 117, co. 1, Cost.), sancendo una tutela della proprietà prevalente rispetto a quella del paesaggio, dell’ambiente, della vita e della salute. Di qui la questione di legittimità costituzionale del citato art. 44 d.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui non consente la confisca urbanistica in caso di sentenza che accerti la prescrizione del reato (Cass. pen., 30.4.2014, n. 20636).
In breve, si sarebbe concretata la necessità di quel rimedio, per le situazioni di conflitto, che era stato ipotizzato fin dalle note «sentenze gemelle» della Consulta (n. 348 e 349 del 2007), spesso evocato con un riferimento ai «controlimiti»: la norma che ha reso esecutiva la CEDU non ha rango costituzionale, ed è dunque a sua volta sottoposta al controllo di legittimità (circostanza che per altro avrebbe dovuto indurre la Cassazione, come autorevolmente si è osservato, a censurare la l. 4.8.1955, n. 848, di ratifica della Convenzione, e non la norma in materia di confisca). In particolare, i Giudici di legittimità hanno negato che sussista incompatibilità tra la sentenza di prescrizione ed un accertamento pieno e garantito circa i presupposti del provvedimento di ablazione, ovviamente fondandosi sul rilievo essenziale che la norma censurata non evoca una sentenza di condanna, ma solo ed appunto l’intervenuto accertamento della lottizzazione abusiva. D’altra parte, le norme costituzionali sopra citate garantirebbero valori «oggettivamente fondamentali, cui riconoscere prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprietà, ritenuto violato dalla sentenza Varvara con la condanna dell’Italia per contrasto con l’art. 1 del protocollo n. 1 della Convenzione edu».
La questione non è stata ancora trattata dalla Corte costituzionale al momento delle presenti note.
Resta da dire, sempre a proposito di confisca, di un’importante puntualizzazione delle Sezioni Unite, a proposito dei provvedimenti concernenti il patrimonio di persone giuridiche, in relazione a reati tributari commessi dagli amministratori nell’interesse dell’ente. La discussione si è formalmente riferita alla legittimità di provvedimenti di sequestro,ma attiene chiaramente, ed appunto, alla possibilità di adottare la misura ablatoria per la quale intervene, in chiave strumentale, il provvedimento di sequestro (Cass. pen., S.U., 30.1.2014, n. 10561).
In termini di massima semplificazione, può ricordarsi che gli illeciti tributari non sono compresi tra le condotte di reato che comportano la responsabilità amministrativa degli enti a norma del d.lgs. 8.6.2001, n. 231. Ma si era ipotizzato, talvolta, che il denaro sociale potesse essere sequestrato, ed in prospettiva confiscato, quale profitto del reato commesso dal legale rappresentante dell’ente, data la condizione di non estraneità dell’ente medesimo al fatto penalmente illecito. In altre parole, una confisca «diretta», pertinente al fatto del soggetto penalmente responsabile (e dunque indipendente da una responsabilità amministrativa della persona giuridica).
Le Sezioni Unite hanno confermato l’ultimo assunto, ammettendo appunto la confisca quando riguardi il profitto direttamente prodotto dal reato commesso nell’interesse dell’ente. Resta invece inammissibile (salvo il caso che la persona giuridica sia un mero schermo per dissimulare la proprietà effettiva dei beni) la confisca per equivalente, sebbene la stessa sia stata estesa ai reati tributari dall’art. 1, co. 143, l. 24.12.2007, n. 244, in relazione all’art. 322 bis c.p.). Infatti, il provvedimento non sarebbe legittimato dalle norme appena richiamate, che si riferiscono all’autore del reato, e che dunque non possono riguardare soggetto immune da responsabilità, anche solo amministrativa, per quello stesso reato.
Una siffatta immunità esclude, per altro verso, la possibilità di applicare l’art. 19 d.lgs. n. 231/2001, che ammette la confisca (diretta o per equivalente) solo in rapporto al patrimonio dell’ente responsabile per il reato.