REALTÀ
. Due sensi ha, anzitutto, il concetto filosofico di realtà: il primo è quello per cui esso s'identifica senz'altro con "reale", nella designazione di tutto ciò che veramente è; il secondo è quello (qualche volta distinto dal primo anche verbalmente, mercé la forma "realità") onde esso indica più specificamente il carattere che fa sì che il reale sia tale, la sua qualità costitutiva e discriminante. Considerato nel primo senso, il concetto di realtà ha una storia così complessa che finisce per identificarsi con la storia stessa della filosofia, in quanto concezione generale della realtà: non è perciò possibile delinearne qui neppure i tratti più salienti (per cui v. filosofia: Storia della filosofia). Si può invece brevemente far cenno dei principali aspetti di quel concetto nella sua seconda accezione.
Così considerato, il concetto di realtà si contrappone sotto un primo aspetto a quelli di necessità e di possibilità, sotto un secondo aspetto a quello di apparenza e sotto un ultimo aspetto a quello d'idealità. Le prime concezioni greche del reale (ilozoismo dei Milesî) non distinguono ancora alcuno di questi aspetti, considerando come reale tutto il constatabile, sia pure nelle due diverse forme della realtà originaria e della realtà derivata. Ma già l'eleatismo comincia a discernere: e Parmenide, osservando la reciproca contraddittorietà delle predicazioni particolari dell'essere e deducendone l'unica realtà e verità del puro ente, inaugura l'equazione speculativa del "reale" con l'"essere". Criterio della realtà diventa quindi quello del suo puro "essere", di fronte al quale il "non essere" si presenta come apparenza od opinione: e, d'altra parte, questa realtà risulta identica alla necessità, perché quel che è non può non essere (venendo il concetto di possibilità di conseguenza respinto del tutto nell'irreale, come viene più chiaramente in luce più tardi, nello sviluppo megarico dell'eleatismo). L'interpretazione melissiana dell'eleatismo arricchisce d'altronde il criterio della realtà di una nota anche più importante e feconda: reale è quel che permane eternamente identico a sé stesso nelle proprie determinazioni. Questa equazione del reale con l'eterno resta fondamentale per tutta la metafisica greca prearistotelica, dominando tanto i sistemi del pluralismo quanto il platonismo, che distinguono la realtà apparente o empirica dalla realtà vera (l'identità sostanziale di realtà e verità è comune a tutto il pensiero greco, per cui non c'è verità che non sia oggettiva) appunto come l'essere che permane dal divenire che si trasforma. Solo Aristotele, concretando l'universale nell'individuo, restituisce realtà al diveniente: ma ecco che perciò deve ben distinguere da un lato la semplice realtà dalla necessità e dalla possibilità, e dall'altro (per lo meno in certa misura) la realtà dall'idealità, come la forma dell'esistenza del concreto da quella dell'esistenza dell'universale. Sono così posti, nel pensiero aristotelico, tutti i motivi che determinano per opposizione il criterio puro della realtà, e che permangono tali, nei loro aspetti costitutivi, attraverso tutto il pensiero medievale, per quanto questo vi aggiunga, come elemento causale, estrinseco e necessario, il principio teologico per cui ogni realtà è comunque condizionata o derivata da quella divina, e ha quindi in essa il suo criterio costitutivo. Nel pensiero moderno, il problema massimo che viene dibattuto nella concezione del criterio della realtà è quello della sua relazione con l'idealità, gli uni pensando che questa debba essere essenzialmente distinta da quella, gli altri sostenendo che debba invece risolvere in sé l'altra, secondo le molteplici concezioni opposte del realismo e dell'idealismo.