GRANCHI, Ranieri
Nacque a Pisa alla fine del secolo XIII o nei primi anni del XIV. La famiglia Granchi, appartenente al Popolo, è attestata nella "cappella" urbana di S. Andrea di Fuoriporta dal 1228 in avanti, ma non ne conosciamo con esattezza lo sviluppo genealogico. Alla fine del secolo, un Andrea di Marco si distinse come uomo d'affari (bancherius) e fu per due volte anziano del Popolo (nel 1290 e nel 1297); ma nessun documento a noi noto consente di precisare quale grado di parentela intercorresse fra lui e il Granchi. È sempre citato senza patronimico il Vanni (Giovanni) Granchi che fu a sua volta anziano (sempre per il quartiere di Fuoriporta) nel 1324, 1327 e 1330, ed era sicuramente parente stretto del G., che, nel suo poema De proeliis Tusciae, lo chiama "il mio Giovanni", e piange commosso la morte del figlio di lui Bartolomeo (avvenuta durante la guerra di Sardegna del 1325); si è quindi pensato - senza peraltro poterne avere la certezza - che fossero fratelli.
La prima attestazione documentaria del G. si trova nell'elenco dei frati del convento domenicano pisano di S. Caterina che il 5 giugno 1326 furono testimoni a un atto di donazione di un terreno. A tale data egli era dunque frate professo; da quanto tempo fosse entrato nel convento (ovvero, quale età potesse avere allora) è difficile dire. L'invocazione a s. Tommaso d'Aquino ("Sante beate meus, mihi, Thoma, protinus adsis"), posta in apertura del poema, può forse valere a indicare che egli iniziò a scrivere poco dopo la data della (tardiva) canonizzazione di s. Tommaso (proclamata da Giovanni XXII il 18 luglio 1323). Ma il problema è stabilire se gli avvenimenti precedenti a tale data, narrati con una certa ricchezza di particolari nei primi tre libri dell'opera (ossia la battaglia di Montecatini del 29 ag. 1315, descritta vividamente subito dopo l'invocazione, e le successive vicende interne pisane fino all'estate del 1322), siano stati vissuti dal G. in età già adulta, o gli siano stati in tutto o in parte raccontati successivamente, magari nell'ambito familiare.
Dopo la prima attestazione del 1326 nulla sappiamo del G. per cinque anni, finché, nel 1331, il capitolo della provincia romana dell'Ordine dei frati predicatori lo assegnò temporaneamente al convento di Terracina; la stessa disposizione fu iterata nel 1332. Il 7 marzo 1335 il G. era nuovamente a Pisa, nel convento di S. Caterina, giacché egli fu uno dei trentacinque frati che fecero da testimoni a un atto di donazione analogo a quello del 1326. Quattro anni dopo, nel 1339, il capitolo provinciale dell'Ordine chiamò il G. a ricoprire l'ufficio di lector presso il convento di Arezzo, affidandogli il compito d'insegnare la teologia a cinque giovani confratelli; e nel 1340 lo stesso consesso (che quell'anno si riunì proprio a Pisa) lo inviò come lettore al convento di San Gimignano. Nel corso dell'ultimo decennio il G. aveva dunque completato gli studi e ottenuto la licenza d'insegnare filosofia e teologia negli Studia conventualia dell'Ordine. Da San Gimignano egli passò direttamente al convento di San Miniato (dove fu inviato nel 1341 dal capitolo provinciale tenutosi a Perugia). Nel 1344, infine, il capitolo provinciale di Orvieto gli affidò l'ufficio di predicatore presso il convento lucchese di S. Romano. È degno di nota che egli espletasse quest'ultimo incarico nella città che solo due anni prima, nel 1342, era passata sotto il dominio di Pisa; tanto più che le vicende belliche e diplomatiche culminate con la conquista di Lucca a opera dei Pisani costituiscono la materia dell'ottavo e ultimo libro del De proeliis.
Non conosciamo né la data né il luogo di morte del Granchi.
È singolare che di lui non vi sia cenno nella Chronica antiqua di S. Caterina, ossia nella raccolta di schizzi biografici di frati appartenenti al convento domenicano pisano compilata a fine secolo da fra Domenico da Peccioli (e fonte preziosa per attingere notizie su vari altri illustri religiosi che vissero e operarono in S. Caterina negli stessi anni del Granchi). È pur vero che non tutti i nomi di frati che troviamo menzionati nei documenti furono poi registrati nella Chronica; ma l'assenza del G. colpisce sia per il ruolo di rilievo da lui indiscutibilmente ricoperto nell'ambito della provincia romana per almeno un quindicennio, sia in considerazione del fatto che la Chronica non manca di ricordare, sia pure con l'opportuna prudenza, anche confratelli direttamente coinvolti in controverse vicende politiche o ecclesiastiche, e quindi avrebbe potuto sorvolare elegantemente anche sull'inequivocabile filoghibellinismo dimostrato dal G. nel poema.
Ma a ben vedere, se si prescinde dalla già ricordata invocazione a s. Tommaso, il De proeliis Tusciae non contiene alcunché di specificamente ed esplicitamente domenicano. L'autore tiene semmai a presentarsi come un pisano ansioso di vedere la propria patria cittadina unita e in pace all'interno e vittoriosa contro i nemici esterni; di conseguenza, egli guarda alla chiesa cattedrale come al vero centro della vita religiosa (e politica) cittadina, e alla sua titolare celeste - la Madonna Assunta - come alla principale protettrice e garante delle fortune della civitas. Nell'aula di S. Maria si festeggiano le grandi vittorie militari (a cominciare da quella riportata a Montecatini); il Consiglio generale del Comune prende le decisioni più importanti (come quelle riguardanti il tentativo di contrastare con le armi la conquista aragonese della Sardegna nel 1324-25); e la sera del 14 agosto di ogni anno vi si portano in processione i ceri che rinnovano il vincolo speciale che unisce la città alla sua patrona. Al di là di questa pur ricorrente immedesimazione nella religione civica, non vi è peraltro nel poema alcun particolare interesse per la Chiesa o la vita religiosa: dei due arcivescovi (domenicani!) susseguitisi sulla cattedra di S. Maria nel periodo trattato (1315-42), solo il primo - Oddone della Sala - compare una volta fugacemente in scena, quando presiede la celebrazione eucaristica con la quale la città festeggia la vittoria di Montecatini; mentre una figura di spicco come Simone Saltarelli non ottiene nemmeno una menzione.
L'attenzione di gran lunga preminente è riservata dal G. a due aspetti fra loro complementari: l'andamento della vita politica cittadina e lo svolgimento delle guerre che, nel periodo considerato, coinvolsero Pisa direttamente o indirettamente. Così, egli dedica l'intero IV libro (a tutt'oggi forse il più famoso del poema, grazie a un penetrante saggio di A. Frugoni) allo sforzo bellico esperito per difendere la dominazione pisana sulla Sardegna dall'attacco aragonese; ma riserva altresì grande attenzione alle operazioni militari condotte da Castruccio Castracani, visto sia come il campione del ghibellinismo toscano, sia come una minaccia per la libertà cittadina di Pisa. L'equilibrio fra le tematiche di fondo testé individuate è mantenuto però solo nei primi quattro libri. Anzi, l'attenzione per gli assetti politici interni e le forme istituzionali del governo comunale, fortissima nei primi tre libri (dove si descrivono via via il trionfo e la caduta di Uguccione Della Faggiuola, esautorato nel 1316; il condominio di potere fra il conte Gherardo Della Gherardesca e il popolano Coscetto del Colle; la cacciata di costui dopo la morte dell'altro e l'avvento alla testa del Comune del vecchio conte Ranieri, zio di Gherardo), si attenua già nel IV (dove, più che il vertice del governo, vediamo agire collettivamente la cittadinanza, fra le cui file spicca la figura di Giovanni Granchi), e viene quasi del tutto meno nei libri rimanenti; al punto che il conte Bonifazio (Fazio) Novello Della Gherardesca (uomo-guida del Comune dopo la fine della parentesi di Ludovico il Bavaro) è menzionato solo di scorcio, e di suo figlio Ranieri il Giovane, subentratogli nel 1340, non viene fatto mai neppure il nome. Per contro, negli ultimi libri del poema larghissimo spazio hanno gli avvenimenti esterni, quali le imprese di Castruccio prima e durante la discesa in Italia del Bavaro; le azioni di costui fino al 1329; la sorte infelice di Lucca negli anni immediatamente successivi; e infine, con un salto di cinque o sei anni, i fatti che portarono alla conquista di Lucca a opera dei Pisani. Ci si può chiedere se il sostanziale disinteresse per la situazione politica interna dopo la perdita della Sardegna sia dovuto a soggiorni dell'autore lontano da Pisa più lunghi di quelli attestati dalla documentazione disponibile; e si può anche pensare che la redazione del poema abbia conosciuto interruzioni e riprese anche a distanza di anni. Di certo, l'ultimo libro fu scritto poco tempo dopo gli avvenimenti trattati; e fu concluso a ridosso dell'accordo di pace stipulato fra Pisa e il duca d'Atene, Gualtieri di Brienne, il 14 ott. 1342. Il De proeliis si arresta qui, nel momento felice in cui Pisa gode dell'avvenuta conquista di Lucca, e Firenze, sottoposta al sagace e fermo governo di Gualtieri di Brienne, si mostra disponibile a risolvere pacificamente il contenzioso fra le due città: "civibus utrisque pax et concordia magna / sic fuit: o utinam tantum sit facta perennis!" (ed. Muratori, col. 354 E). L'auspicio del G. sarebbe stato di lì a poco smentito dai fatti tanto per l'una quanto per l'altra. Ma ormai, come si è detto, l'opera era stata conclusa.
Il bel manoscritto membranaceo del pieno Trecento che costituisce l'unico testimone medievale del De proeliis Tusciae, dal secolo XVIII custodito nella Biblioteca Classense di Ravenna (ms. 307), potrebbe essere l'esemplare di dedica allestito sotto la direzione dello stesso autore. Il personaggio al quale egli indirizzò l'Epistola dedicatoria anteposta al testo del poema non è però sicuramente Betto Griffi, giacché il nome di costui vi fu inserito mercé un intervento di cancellatura e sovrascrittura compiuto verso la fine del secolo XV. Di ciò non si resero conto né l'abate ravennate Pietro Canneti, che fornì al Muratori la trascrizione (spesso scorretta) del testo poetico, pubblicata nell'XI volume dei Rerum Italicarum Scriptores (Mediolani 1727, coll. 285-356), né C. Meliconi, che all'inizio del Novecento ebbe l'incarico di preparare la riedizione critica e commentata dell'opera per la seconda serie della collezione muratoriana, ma poté arrivare a farne pubblicare solo una parte (fino a tre quarti circa del libro V, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XI, 2, [1915-22]), mentre il resto del suo lavoro - compresa l'Introduzione, più volte annunciata nelle note storiche al testo - andò perduto.
Citato solo occasionalmente dagli eruditi pisani della prima età moderna, il poema non fu certo valorizzato da Muratori, il quale lo bollò con un aggettivo - "caliginosum" - in seguito ripreso da tutti gli studiosi, ma che appare oggi tanto ingeneroso quanto condizionato dallo stato nel quale il testo fu pubblicato. Il lavoro di Meliconi, rimasto incompiuto, ha avuto soprattutto il merito di mettere in rilievo la presenza insistente di Lucano, Virgilio e Ovidio negli esametri del G.; mentre non si può dire che la storiografia moderna sulla Pisa del secolo XIV si sia confrontata sistematicamente con il poema (a parte qualche lodevole eccezione). L'edizione critica integrale che si sta ora preparando sotto la direzione di M. Tangheroni consentirà finalmente di collocare il tutt'altro che disprezzabile lavoro del G. nel contesto preciso in cui fu composto, e quindi scritto sul codice ravennate, destinato con ogni verosimiglianza a un personaggio influente che avrebbe dovuto fare tesoro di quanto ivi poeticamente narrato per orientare la propria azione politica al servizio della concordia interna e della forza militare di Pisa.
Fonti e Bibl.: Pisa, Arch. arcivescovile, Diplomatico della Biblioteca del Seminario arcivescovile, nn. 74, 91; Acta capitulorum provincialium provinciae Romanae 1243-1344, a cura di T. Kaeppeli, Romae 1941, pp. 265, 277, 310, 334, 359; Chronica antiqua conventus S. Catharinae de Pisis, a cura di F. Bonaini, in Arch. stor. italiano, V (1845), 2, pp. 517 s.; A. Frugoni, La perdita della Sardegna nel poema pisano di R. G., in Atti del VI Congresso internazionale di studi sardi, Cagliari 1957, ad indicem; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli 1962, p. 459; M. Tangheroni, Rileggendo il De proeliis Tusciae del frate domenicano R. G., in Boll. stor. pisano, XLIV-XLV (1975-76), pp. 437-456; T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis praedicatorum Medii Aevi, III, Romae 1980, pp. 291 s.; Rep. fontium hist. Medii Aevi, V, p. 202.