Ragionevolezza delle norme penali
In epoca di politiche criminali segnate da spinte complesse e contrastanti, il paradigma costituzionale viene spesso invocato quale elemento razionalizzatore, specie nella prospettiva dell’offensività e della ragionevolezza. Il contributo che segue delinea una sintesi degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, aggiornata e calibrata sulla base di pronunce anche recentissime, dalla quale emergono linee di tendenza piuttosto ben definite: un rigoroso controllo sulla attendibilità delle frequenze statistiche poste a base di norme presuntive; un crescente ostracismo per forme di manifestazione del diritto penale d’autore; una confermata resistenza riguardo ad interventi sulla struttura delle fattispecie. La riflessione è specificamente articolata nell’esame delle più recenti applicazioni in tema di offensività e ragionevolezza.
Pur in un contesto dove il paradigma costituzionale, arricchito dalle fonti sovranazionali, appare ancora non solo orizzonte irrinunciabile della epistemologia penale ma persino fonte di crescenti aspettative rispetto alle svariate irrazionalità della politica criminale, i tracciati più recenti della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza sembrano confermare, in linea di principio, la partitura tradizionale e ribadire una tendenziale deferenza del sindacato di costituzionalità nei confronti della discrezionalità del legislatore, sia con riferimento ai contenuti delle opzioni incriminatrici ed alla struttura delle relative fattispecie, sia con riferimento all’equilibrio delle scelte sanzionatorie1. Sul primo fronte, sembra profilarsi un impiego decisamente cauto del principio di offensività come canone di controllo delle scelte di politica criminale, mentre – in parallelo – risulta confermato l’utilizzo ormai consolidato dello stesso principio come criterio ermeneutico indirizzato al giudice, quale tramite per una rilettura sostanzialistica di fattispecie declinate su una pericolosità meramente astratta, o costruite su vere e proprie presunzioni di pericolo. In questa cornice, si staglia tuttavia – e merita di essere considerato con la dovuta attenzione – un indirizzo in certa parte innovativo, dove il principio di offensività appare riaffermato in una più marcata potenzialità dimostrativa2, riconosciutagli, in particolare, per decretare l’illegittimità costituzionale di una circostanza aggravante centrata su un semplice status soggettivo (lo status di soggetto illegalmente presente nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 61, n. 11 bis, c.p., oggetto della sentenza n. 249/2010); se ciò risulta in linea con taluni precedenti che – più o meno dichiaratamente, ed incrociando a volte i moduli argomentativi della ragionevolezza – hanno dimostrato ostracismo nei confronti di presunzioni di pericolo irragionevolmente radicate su mere condizioni o qualità soggettive e poste a fondamento di peculiari discipline punitive, il dato di interesse e di novità è offerto ed esaltato dal richiamo ad un necessario «vaglio positivo di ragionevolezza» che la scelta legislativa deve superare per sottrarsi alle censure di illegittimità3. Sul fronte del principio di ragionevolezza e del principio di proporzione, nessun particolare sussulto, viceversa, è dato registrare di recente, anche perché nelle ipotesi di più eclatante squilibrio sanzionatorio taluni difetti di prospettazione delle questioni negli atti di promovimento hanno impedito alla Corte di pronunciarsi nel merito; ma anche in questo caso va eccettuata una importante pronuncia in materia di limiti all’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche (art. 62 bis, co. 2, c.p.) dove il canone di ragionevolezza ha ricoperto un ruolo centrale, riaffermandosi come orizzonte di limite dei vincoli legislativi alla discrezionalità giudiziaria, nel prisma della funzione rieducativa della pena.
Giova esaminare il rilievo che il principio di offensività riveste tanto quale canone di sindacato delle opzioni legislative quanto come parametro di interpretazione, in sede applicativa, delle norme penali.
2.1 L’offensività come canone di controllo delle opzioni legislative
Come si anticipava, il principio di offensività, fulcro del controllo contenutistico sulla fattispecie penale, dimostra di continuare ad avere un destino piuttosto ambiguo: generato con pretese molto ambiziose, ed oggetto di un nomadismo culturale che lo ha visto affermarsi in modo perentorio in altri contesti4, si è dimostrato incapace di un controllo qualitativo sui «beni giuridici», e foriero di prestazioni ancora deboli anche per quanto concerne il controllo sulle «tecniche di tutela», oggetto di possibile sindacato solo nei margini del più generale (e duttile) principio di ragionevolezza. La Corte – come si sa – ha a più riprese confermato che il limite della political question consente margini di valutazione solo ove le scelte legislative in ordine a contenuto e struttura delle condotte punibili (ed alla configurazione del trattamento sanzionatorio) siano «manifestamente irragionevoli», ossia non riflettano l’id quod plerumque accidit (a pena di inammissibilità di ogni richiesta che esorbiti da questi argini rigorosi, segnati dall’art. 28 l. n. 87/1953).
2.2 Il (limitato) controllo su contenuto e struttura delle fattispecie penali
In effetti, anche nelle decisioni recenti, il giudizio di meritevolezza circa beni/interessi/valori suscettibili di protezione penale appare un territorio dove la Corte costituzionale dimostra tutta la propria cautela: il merito dell’incriminazione penale come anche le scelte in termini di sussidiarietà – la Strafwürdigkeit come la Strafbedürfnis – da questa angolatura, appaiono dominio esclusivo della politica, e la Corte dimostra una indubbia deferenza al riguardo. Lo confermano alcuni passaggi della nota decisione con la quale la Corte costituzionale ha «salvato» dalle censure di illegittimità il cd. reato di clandestinità (l’art. 10 bis, d.lgs. n. 286/1998, reato che dal 2009 punisce come contravvenzione «l’ingresso o il soggiorno illegale nel territorio dello Stato», e dunque l’ingresso clandestino in Italia da parte degli stranieri, o la permanenza irregolare dei c.d. overstayers), che a parere dei remittenti appariva diretto a penalizzare una mera «condizione personale e sociale» (quella, appunto, di straniero «clandestino », o, più propriamente, «irregolare»), dalla quale verrebbe arbitrariamente presunta la pericolosità sociale, o che appariva comunque diretto a sanzionare una condotta di mera trasgressione amministrativa, entrando appunto in tensione con i principi di materialità ed offensività del reato. Nella pronuncia n. 250/2010, i giudici hanno anzitutto confermato il principio consolidato in forza del quale «l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore: discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie ». Quanto poi all’incriminazione oggetto di giudizio, la Corte non solo ha ritenuto infondato l’addebito in punto di materialità – escludendo che il nuovo reato abbia ad oggetto un mero «modo d’essere della persona» – , ma ha altresì rigettato la critica che ravvisava un simile reato posto a tutela di un bene giuridico privo di meritevolezza penale, e diretto a sanzionare una «mera disobbedienza», affermando che «il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è, in realtà, agevolmente identificabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria – trattandosi del resto, del bene giuridico di categoria, che accomuna buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998 – e che risulta, altresì, offendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento illegale dello straniero». In altri termini, si è riconosciuta quale ratio di fondo dell’incriminazione la violazione della disciplina amministrativa sul soggiorno, presidio della regolarità dei flussi migratori ed interesse strumentale a beni giuridici «finali» avvalorati – sottolinea la decisione – da un sicuro aggancio costituzionale, secondo quella scelta di anticipazione della tutela rientrante in quelle valutazioni del legislatore che è dovere della Corte rispettare; e si è ribadito che la scelta di strutturare la relativa violazione come illecito penale, e non più come mera infrazione amministrativa «rientra nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, il quale ben può modulare diversamente nel tempo la qualità ed il livello dell’intervento repressivo in materia». Del resto, anche con riferimento alle tecniche di tutela, come si accennava, la Corte ha fondamentalmente riservato alla discrezionalità del legislatore il livello e il modulo di anticipazione della tutela5 , rinunciando, in sostanza, a problematizzare la stessa tecnica di strutturazione del pericolo astratto o del pericolo presunto (salva sempre la possibilità, come si vedrà, di «correggerle » in via ermeneutica, attraverso l’inserimento di un requisito di pericolosità concreta o attraverso una lettura interpretativa di singoli elementi del tipo in chiave di particolare «pregnanza»), e almeno fin quando tale scelta non appaia in contrasto con l’id quod plerumque accidit, e non risulti fondata su una opzione «irrazionale o arbitraria»6.
2.3 Il crescente ostracismo nei confronti delle tipologie punitive (o aggravatrici) «d’autore»
In questa cornice di fondo, che appunto denota una tendenziale continuità rispetto all’assetto tradizionale, si staglia con nettezza una decisione – la già citata sentenza n. 249/2010, sulla circostanza aggravante legata allo stato di irregolarità dello straniero – che valorizza in pieno il confine critico imposto alla discrezionalità legislativa, e che peraltro sviluppa ed in qualche modo potenzia un orientamento già affiorato anche in precedenza, riconoscendo piena ed autonoma capacità dimostrativa al principio di offensività nei confronti delle presunzioni di pericolo irragionevolmente fondate semplicemente su condizioni o qualità soggettive: queste vengono censurate dalla Corte sia ove le stesse siano poste a base di fattispecie penali, sia ove esse fondino semplici aggravamenti del trattamento sanzionatorio. Come si ricorderà, un chiaro esempio del primo caso può essere ravvisato già nella decisione n. 354/2002, con la quale la Corte ebbe a dichiarare costituzionalmente illegittima la contravvenzione di cui all’art. 688, co. 2, c.p., a norma del quale – dopo la depenalizzazione della fattispecie di cui al primo comma ad opera dell’art. 54, d.lgs. n. 507/1999 – la rilevanza penale dello stato di ubriachezza veniva a dipendere esclusivamente dall’aver «riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità pubblica». Se infatti un simile modello rimandava ormai – nelle parole della Corte – ad «una sorta di reato d’autore», tale schema punitivo si poneva «in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte»7. La più recente decisione n. 249/2010 ha affrontato invece l’ipotesi in cui la presunzione di pericolosità, (irragionevolmente) fondata su un semplice status, sia posta a base non di una incriminazione autonoma, bensì di un aggravamento di pena, come nel caso di specie, concernente l’art. 61, n. 11, c.p., che prevedeva una circostanza aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole «mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale»8. In particolare, l’aggravante cd. della clandestinità, introdotta dall’art. 1, co. 1, lett. f), del d.l. 23.5.2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito con modificazioni, dall’art. 1 della l. 24.7.2008, n. 125, è stata riconosciuta in contrasto sia con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., sia con il principio di offensività (ricondotto all’art. 25, co. 2, Cost.), ritenuti incompatibili con una «presunzione generale ed assoluta di maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare, che si riflette sul trattamento sanzionatorio di qualunque violazione della legge penale da lui posta in essere»; ciò, in particolare, perché «il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l’illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali del soggetto che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato», poiché una simile «responsabilità penale d’autore» si pone – lo si ribadisce appunto sulla traccia della decisione n. 354/2002 – «in aperta violazione del principio di offensività». Nella decisione, il principio di offensività ha visto dunque ribadito il suo ruolo di argine invalicabile con cui devono confrontarsi le modellistiche del «soggettivismo penale»: ogni giudizio di pericolosità soggettiva, infatti, può essere legittimo solo se «frutto di un accertamento particolare, da effettuarsi caso per caso, con riguardo alle circostanze concrete ed alle personali caratteristiche soggettive», dovendo superare (non un semplice accertamento di non manifesta irragionevolezza, bensì) «un vaglio positivo di ragionevolezza», tanto più quando la differenziazione punitiva risulta centrata su «condizioni personali e sociali», ossia su uno dei (sette) parametri «esplicitamente menzionati dal primo comma dell’art. 3 Cost., quali divieti direttamente espressi dalla carta costituzionale, che rendono indispensabile uno scrutinio stretto delle fattispecie sospettate di violare o derogare all’assoluta irrilevanza delle «qualità» elencate dalla norma costituzionale ai fini della diversificazione delle discipline»9. E ciò, perché «comportamenti pregressi dei soggetti non possono giustificare normative penali che attribuiscano rilevanza – indipendentemente dalla necessità di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale – ad una qualità personale e la trasformino, con la norma considerata discriminatoria, in un vero «segno distintivo» delle persone rientranti in una data categoria, da trattare in modo differenziato rispetto a tutti gli altri cittadini»10. Nella specie, una «presunzione generale ed assoluta di maggior pericolosità dell’immigrato irregolare»11, riconosciuta quale ratio sostanziale della norma censurata, si pone in contrasto con l’art. 25, co. 2, Cost. «che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali»; e posto che tale principio appare senza dubbio valevole «anche in rapporto agli elementi accidentali del reato», è agevole concludere per la Corte che «la previsione considerata ferisce, in definitiva, il principio di offensività, giacché non vale a considerare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore»12.
2.4 Il principio di offensività come «canone interpretativo universalmente accettato»
Parallelamente, si conferma un frequente utilizzo del principio di offensività come strumento ermeneutico capace di stemperare profili di illegittimità costituzionale, secondo un iter argomentativo che prende spesso forma in una decisione interpretativa di rigetto: si conclude per l’infondatezza (o per la stessa inammissibilità) della questione, segnalando al giudice a quo il percorso ermeneutico alla luce del quale la diastasi con i principi costituzionali risulterebbe ricomposta. Del resto, un simile utilizzo «difensivo» del principio di offensività ha trovato applicazione, proprio di recente, anche in un campo di materia – quello dei «reati di sospetto» – da sempre ritenuto ispirato alla modellistica del «diritto penale d’autore»: basti qui richiamare la decisione n. 225/2008 relativa all’art. 707 c.p., dove la Corte – forse in modo non del tutto convincente13 – ha avuto modo di replicare, inter alia, al preteso contrasto con il principio di offensività «in astratto» da un lato negando che la disposizione prefiguri una responsabilità «per il modo d’essere dell’autore»; dall’altro, sottolineando comunque che «sarà, per il resto, compito del giudice ordinario evitare che – a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente perspicua del fatto represso – la norma incriminatrice venga a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità», verificando in particolare le modalità e le circostanze spazio-temporali della detenzione, che dovranno risultare «tanto più significative … nella direzione dell’esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso»14.
2.5 Recenti applicazioni
Come si anticipava, nella giurisprudenza più recente non è dato registrare decisioni di accoglimento fondate sul principio di ragionevolezza o sul principio di proporzione, almeno per quanto attiene il sindacato concernente l’equilibrio sanzionatorio di singole fattispecie punitive: e ciò, a dispetto dell’espresso rilievo che il principio di proporzione della pena ha trovato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (ove all’art. 49, co. 3, si stabilisce «l’intensità delle pene non deve essere sproporzionata rispetto al reato»)15, rilievo che dovrebbe attenuare la deferenza che la Corte dimostra – anche in quest’ambito – per le scelte discrezionali del legislatore, o quantomeno promuoverne un più deciso impiego come criterio ermeneutico di utilizzo giudiziale. Non sono tuttavia mancate interessanti sollecitazioni, formulate ora richiamando il modello triadico della ragionevolezza-eguaglianza (art. 3 Cost.), ora più direttamente il «principio di proporzione» che pur tradizionalmente si ravvisa quale ulteriore proiezione dell’eguaglianza anche alla luce dell’art. 27 Cost.: sono infatti state sollevate diverse impugnative che hanno posto in rilievo sperequazioni sanzionatorie anche evidenti, sia con riferimento ad illeciti penali, sia con riferimento ad illeciti amministrativi che per la gravità delle conseguenze – seguendo l’approccio sostanzialistico imposto ormai dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – meritano di essere ricondotti alle medesime garanzie, anche se le questioni più interessanti sono sfociate in decisioni di inammissibilità o di infondatezza specie per difetti attinenti alla formulazione delle ordinanze di rimessione (ora ritenendo impertinente il tertium comparationis individuato dal remittente, come nel caso dell’ordinanza n. 240/2011, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione concernente il minimo edittale del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, ex art. 630 c.p.; ora non ravvisando un petitum dotato dei necessari requisiti di chiarezza ed univocità, come nella sentenza n. 186/2011 che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità dell’art. 187 sexies, co. 1 e 2, d.lgs. n. 58/1998, sollevata – in particolare – lamentando l’irragionevolezza della obbligatorietà della confisca di valore anche con riferimento ai beni utilizzati per commettere l’illecito). In ogni caso, se si eccettuano le pronunce che – in materia processuale – hanno interessato le presunzioni di inadeguatezza di misure diverse dalla custodia cautelare per taluni reati (sentenze n. 265/2010; n. 164/2011; n. 231/2011), la scossa più forte sul terreno della ragionevolezza si è avuta con la declaratoria di parziale illegittimità dell’art. 62 bis c.p., dove il fulcro argomentativo ha fatto leva anche e soprattutto sulla finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.). La questione era stata sollevata lamentando l’illegittimità della norma citata – l’art. 62 bis, co. 2, c.p., come sostituito dall’art. 1 l. n. 251/2005 – «nella parte in cui, nel caso di recidivo reiterato, ex art. 99, co. 4, c.p., chiamato a rispondere di taluno dei delitti di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., per il quale sia prevista una pena non inferiore nel minimo a cinque anni, non consente di fondare sui parametri di cui al secondo comma dell’art. 133 c.p., in particolare sul comportamento susseguente al reato, la concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 bis, co. 1, c.p.». Nel ritenere fondata la questione, la Corte ha anzitutto rimarcato come la norma censurata introduca «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, co. 3, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze». Pur ritenendo di per sé non inammissibili, in linea generale, deroghe siffatte, la Corte ravvisa il vero profilo di contrasto nella peculiare scelta normativa di escludere, nell’ipotesi del secondo comma dell’art. 62 bis c.p., il potere del giudice di valutare ed apprezzare la condotta tenuta dal colpevole nel periodo successivo alla commissione del reato, essendo tale preclusione «fondata su una valutazione preventiva, predeterminata e astratta, che non risponde a un dato di esperienza generalizzabile, in quanto la rigida presunzione di capacità a delinquere, presupposta dalla norma censurata, è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun collegamento». Infatti, «mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali, che, pur potendo essere di grande significato per valutare l’attualità della capacità a delinquere, sono indiscriminatamente neutralizzati ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche». Emerge, a questo punto, il fuoco del problema: se il duplice automatismo sotteso alla norma in esame è basato su presunzioni (l’una concernente l’obbligatorietà della recidiva nel caso di commissione, da parte del recidivo, di uno dei reati previsti dall’art. 407, co. 2, lett. a, c.p.p.; l’altra concernente la presunta prevalenza della recidiva rispetto alla condotta susseguente al reato); e soprattutto, se le presunzioni assolute – «specie quando limitano un diritto fondamentale della persona » – sono ammissibili solo ove non siano arbitrarie e irrazionali, la ragionevolezza deve escludersi – questa la conclusione della Corte – nel caso di specie, considerando «da un lato, che la recidiva può basarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante gravità e, dall’altro, che la decisione può intervenire anche a distanza di anni dalla commissione del fatto per cui si procede e che successivamente l’imputato potrebbe aver tenuto comportamenti sicuramente indicativi di una risocializzazione in corso, o interamente realizzata, e potrebbe anche essere divenuto una persona completamente diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il reato». Peraltro, la deroga censurata appare sacrificare in modo intollerabile anche l’art. 27, co. 3, Cost.: difatti, «l’obiettivo della rieducazione del condannato, posto da questa norma costituzionale, non può essere efficacemente perseguito negando valore a quei comportamenti che manifestano una riconsiderazione critica del proprio operato e l’accettazione di quei valori di ordinata e pacifica convivenza, nella quale si esprime l’oggetto della rieducazione».
Se da un lato si conferma un certo self restraint nelle valutazioni che hanno ad oggetto profili contenutistici della norma penale, la recente giurisprudenza evidenzia – in definitiva – un più marcato utilizzo del principio di offensività come «norma invalidante» rispetto a fattispecie costruite su presunzioni di pericolosità di matrice squisitamente soggettiva, ove appunto la presunzione legale non sia convalidata da sufficienti riscontri empirici. Da questa prospettiva, l’esito a cui è giunta la Corte costituzionale evidenzia che al cospetto del canone dell’offensività nessuna scelta o modulazione sanzionatoria può essere giustificata su connotati d’autore sic et simpliciter, qualora tale differenziazione soggettiva sia di per sé inespressiva – almeno secondo l’id quod plerumque accidit – di un maggior danno o di un maggior pericolo per il bene giuridico tutelato16, risultando altresì, in tali casi, tanto più irragionevolmente discriminatoria alla luce del principio di eguaglianza. Del resto, se le presunzioni legali appaiono irragionevoli «tutte le volte in cui sia agevole formulare accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa», la valutazione diventa più stringente qualora esse siano tali da sacrificare un diritto o una garanzia fondamentale, fino a renderle inammissibili. Anche da questa angolatura la «fusione di orizzonti» tra principi precipuamente penalistici – quali quello di offensività e della finalità rieducativa – ed il principio di ragionevolezza (nelle sue diverse implicazioni) sembra schiudere al controllo di legittimità percorsi originali e maggiormente profilati; proprio quest’ultimo principio, del resto, manifesta possibilità combinatorie sempre nuove, volta a volta fondendosi con altre garanzie, di cui rappresenta il perimetro per ogni possibile deroga o limitazione.
1 Ne offrono un quadro nitido, rispettivamente, Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 350 ss. e Insolera, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 1997, 264 ss.; più di recente, cfr. i contributi di Vassalli, Introduzione, e Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di offensività, in AA.VV., Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, rispettivamente, IX ss., 91 ss.; preziosi riferimenti anche in Riondato, Un diritto penale detto «ragionevole». Raccontando Giuseppe Bettiol, Padova, 2006.
2 Sulla distinzione «classica» tra principi informativi o di indirizzo, dotati di mera efficacia argomentativa, e principi dotati di capacità dimostrativa, «tale da farli assurgere al rango di norme costituzionali cogenti nella costruzione di tutte le leggi ordinarie e suscettibili di essere applicati autonomamente (senza l’ausilio di altri principi) dalla Corte costituzionale per caducare le disposizioni in contrasto con essi», si veda Donini, voce Teoria del reato, in Dig. pen., XIV, 1999, § 6; Id., Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale. L’insegnamento dell’esperienza italiana, in Foro it., 2001, 29 ss., 35.
3 Sulle diverse funzioni del principio di offensività (quale canone di politico criminale, criterio ermeneutico, e parametro di ragionevolezza), cfr., volendo, Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005, 209 ss., 242 ss., 245 ss., 279 ss.
4 Si veda, appunto, la «sorprendente» decisione del Collegio garante della costituzionalità delle norme di San Marino, 27.11.2006, in Foro it., 2007, IV, 349, con nota di Manes, Il principio di offensività in una pronuncia del tribunale di San Marino.
5 Più in generale, sui limiti «costituzionali » rispetto alle strategie di anticipazione della tutela, e segnatamente con riferimento alla punibilità degli atti preparatori, si rinvia al ricco saggio di Viganò, Incriminazione di atti preparatori e principi costituzionali di garanzia nella vigente legislazione antiterrorismo, in i[email protected], 2009, 171 ss.
6 In questo senso, si vedano ad esempio le sentenze n. 1/1971, n. 71/1978, n. 139/1982, n. 126/1983, n. 62/1986, n. 333/1991, n. 133/1992, n. 360/1995. In particolare, nella sentenza n. 333/1991, in materia di stupefacenti, la Corte, dopo aver espressamente affermato che «le incriminazioni di pericolo presunto non sono incompatibili in via di principio con il dettato costituzionale», ha puntualizzato che «è riservata al legislatore l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale fare riferimento, purché, peraltro, l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali o arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit».
7 Così C. cost., n. 354/2002; peraltro, seguendo una prospettiva sostanzialmente non dissimile, la Corte – con la sentenza n. 370 del 1996 – aveva già censurato l’art. 708 c.p. (Possesso ingiustificato di valori), ritenendo che la suddetta norma sancisse una «discriminazione nei confronti di una categoria di soggetti composta da pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio», senza una corrispondenza effettiva ed attuale tra la condizione in discorso e la funzione di tutela dell’incriminazione.
8 La sentenza n. 249/2010 è pubblicata unitamente alla successiva decisione n. 250/2010 sul reato di ingresso e trattenimento illegale nel territorio dello Stato, in Riv.it.dir.proc.pen., 2010, 1349 ss., con ampia nota critica di Masera, Corte costituzionale e immigrazione: le ragioni di una scelta compromissoria, spec. 1385, che al di là del titolo prospetta le ragioni «non solo di opportunità, ma anche squisitamente tecnico-giuridiche» sulla base delle quali può comprendersi la diversa direzione – apparentemente contraddittoria – della Corte in merito alla aggravante cd. della clandestinità (dichiarata incostituzionale) ed al reato cd. di clandestinità (ritenuto viceversa legittimo nella pronuncia n. 250).
9 C. cost., n. 249/ 2010, § 4.2 (con espresso richiamo ai precedenti offerti dalle decisioni n. 354/ 2002 e n. 370/1996).
10 C. cost., n. 249/2010, ibidem.
11 Si noti che la Corte aveva già avuto modo di dichiarare la illegittimità costituzionale della norme dell’ordinamento penitenziario che precludevano allo straniero irregolare l’accesso a misure alternative alla detenzione, affermando che «il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato … non è univocamente sintomatico …di una particolare pericolosità sociale» (sentenza n. 78/2007).
12 C. cost., n. 249/2010, § 9.
13 Per taluni spunti critici cfr., volendo, Manes, La pervicace resistenza dei reati di sospetto, in Giur. cost., 2008, 2539 ss.
14 C. cost., n. 225/2008, § 4, dove la Corte aggiunge: «A tal fine, il giudice dovrà procedere ad un vaglio accurato sia dell’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature; sia delle modalità e delle circostanze di tempo e di luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso – come nel caso in cui si discuta di oggetti di uso comune, suscettibili di impieghi diversi e leciti – tanto più significative dovranno risultare le modalità e le circostanze spazio-temporali della detenzione, nella direzione dell’esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio».
15 Ciò, ovviamente, pur consapevoli che i singoli Stati risultano vincolati dalla Carta – ormai inclusa nei trattati ai sensi dell’art. 6 TUE – «esclusivamente in attuazione del diritto dell’Unione» (ai sensi dell’art. 51 della Carta stessa), e dunque nei limiti chiariti e recepiti anche da C. cost. n. 80/2011; ma considerando altresì che alle disposizioni della Carta si riconosce sempre più un valore non solo argomentativo.
16 C. cost., n. 249/2010, § 5.