GIROLAMI, Raffaello
Nacque a Firenze l'8 marzo 1472 da Francesco di Zanobi e dalla prima moglie di questo, Maddalena di Iacopo Mazzinghi, morta prima del 1485.
I Girolami erano un'antichissima famiglia fiorentina cui, secondo la tradizione, sarebbe appartenuto s. Zanobi (sec. V), primo vescovo e santo patrono della città, di cui la famiglia, ancora nel secolo XVI, conservava con religiosa devozione l'anello. Il possesso comune di questa reliquia e quello di un'antica casa-torre duecentesca presso il ponte di Rubaconte (oggi ponte Vecchio), detta appunto "la torre dei Girolami", contribuiva a mantenere saldi i legami nella famiglia, le cui basi economiche erano solidissime e provenivano sia dall'attività manifatturiera (lana, seta e lino) sia da quella bancaria. "Il banco dei Girolami", situato presso il nuovo mercato di Firenze, era uno dei primi della città e aveva filiali anche a Roma e in Francia; il G. si occupava personalmente del banco di Firenze, come si evince dal testamento del padre, che lo destinava in esclusiva a lui (Arch. di Stato di Firenze, Covoni-Girolami, 484). Nel banco del G. fece il suo apprendistato per tre anni Francesco Ferrucci, destinato a diventare l'eroe dell'ultima Repubblica fiorentina, di cui il G. fu uno dei martiri.
Benché mirata al suo inserimento nell'attività mercantile, la formazione del G. non si limitò alla scuola di abbaco ma dovette comprendere anche lo studio del latino, in quanto allievo, intorno al 1482, di Piero Domizi, cultore di studi classici e autore di commedie in latino di argomento sacro: una di queste, Zenobius, ispirata alla vita di s. Zanobi, è dedicata al G., suo antico allievo. Anche una Vita di s. Zanobi in volgare, composta dall'umanista Naldo Naldi, è dedicata al Girolami. Oltre a queste notizie, prova indiretta del possesso di una solida cultura da parte del G. sono anche gli apprezzamenti per la sua oratoria e per il suo stile epistolare, riferiti dagli storici a lui contemporanei.
Le prime notizie della presenza del G. nella vita politica risalgono al 1497.
Dopo la cacciata dei Medici da Firenze, nel 1494, era stata instaurata la Repubblica "popolare" che, anche su ispirazione di Girolamo Savonarola, aveva allargato le basi della vita politica. Dopo un periodo iniziale di concordia, erano risorte le fazioni: contro i fautori del "governo largo", che erano per lo più seguaci del Savonarola, c'erano i filomedicei, ma anche coloro che, pur non volendo il ritorno dei Medici al potere, auspicavano la restaurazione di un regime oligarchico. Tra questi ultimi, detti compagnacci, militava il G.; ciò indusse alcuni biografi del Savonarola ad attribuire al castigo divino la sua drammatica fine.
L'ingresso ufficiale del G. nella vita politica risale al 1507, con la sua elezione al priorato per il quartiere di S. Croce, seguita da quella a membro dei Dodici buonuomini, nel 1510, e dei Sedici gonfalonieri, nel 1513, per il "gonfalone" del Carro. Intanto nel 1512 i Medici avevano recuperato il potere a Firenze, con l'aiuto delle armi spagnole.
Il G. era in buoni rapporti, anche personali, con i signori di Firenze: nell'estate del 1515 accompagnò a Torino Giuliano de' Medici, duca di Nemours, per il suo matrimonio con Filiberta di Savoia; nel 1518 fu designato, insieme con Taddeo Guiducci, per andare incontro a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, che tornava d'Oltralpe con la sposa francese, Maddalena de la Tour d'Auvergne.
Il 18 ag. 1517 fu scelto per la prima volta come commissario militare e destinato alla Val di Bagno (al confine tra Romagna e Toscana); in realtà, nonostante la formulazione della patente, quello di commissario era un incarico eminentemente politico: si trattava di sorvegliare le milizie mercenarie assoldate dalla Repubblica fiorentina e dislocate nelle varie zone del dominio, per esigerne il rispetto dei patti stipulati dai loro capitani, per dirigerne gli spostamenti in caso di necessità, per provvedere ai rifornimenti, tanto alimentari che di munizioni o di denaro: era insomma il rappresentante del governo presso gli eserciti. Il 20 sett. 1517 gli fu data licenza di tornare a Firenze su richiesta di Lorenzo de' Medici.
Il 22 dic. 1521 il G. fu designato per un incarico analogo nel Valdarno superiore, poi allargato, l'8 genn. 1522, a tutto il dominio.
Si trattava di vanificare un attacco tentato dal capitano di ventura Renzo Orsini di Ceri, sostenuto dai Francesi e dai fuorusciti fiorentini che, facendo base nel territorio senese, miravano a provocare la caduta del regime mediceo. La reazione dei Fiorentini ebbe successo, ma l'incarico del G. si protrasse fino al mese di aprile, quando il pericolo era ormai cessato da tempo e nonostante le reiterate proteste da parte dei Senesi.
Il 14 ott. 1522 il G. fu scelto come membro di un'ambasceria di cui facevano parte anche Giovanni Corsi e Raffaello de' Medici, inviata in Spagna al fine di porgere a Carlo V le congratulazioni per la sua elezione alla dignità imperiale, avvenuta nel 1519.
Per questa occasione il G. ebbe un'istruzione scritta da Niccolò Machiavelli. Questi, benché già da anni avesse forzatamente abbandonato la politica e la città di Firenze, dal suo esilio di Sant'Andrea in Percussina non cessava di seguire gli avvenimenti politici. L'istruzione al G. era a carattere meramente privato, quasi soltanto una summa di consigli a un amico e, più che sui contenuti politici della missione, verteva sui principi deontologici del ruolo di ambasciatore e sull'importanza e la dignità dell'attività diplomatica.
I tre oratori fiorentini si recarono per via di terra a Genova, dove si imbarcarono per Barcellona in compagnia di don Giovanni Manuel, cancelliere dell'imperatore. Benché si trattasse di un'ambasceria a carattere prevalentemente onorifico, la permanenza in Spagna del G. si protrasse a lungo e anche il viaggio di ritorno, effettuato esclusivamente per via di terra e con varie deviazioni, fu molto lungo, tanto che l'arrivo a Firenze avvenne solo ai primi del 1525.
Il G. partì di nuovo da Firenze il 7 apr. 1525, quando fu inviato incontro a Giovanni Bartolomeo Arborio di Gattinara, parente del gran cancelliere dell'imperatore, che da Roma si recava in Lombardia, da dove avrebbe poi proseguito per la Spagna. Poco dopo, sempre nel 1525, il G. fu eletto per la prima volta alla suprema carica di gonfaloniere di Giustizia.
Il 1° apr. 1526 fu eletto per un anno membro dei Cinque procuratori delle mura, una magistratura allora istituita per provvedere alla fortificazione della città in vista della discesa dei lanzi. L'istituzione di questa magistratura segnò anche la parziale riabilitazione di Machiavelli, che di essa fu eletto cancelliere il 18 maggio 1526.
Il 26 luglio 1526 il G. dovette però abbandonare il suo posto per un nuovo incarico di commissario militare: la zona di azione del G. era nuovamente la fascia di dominio fiorentino prospiciente il confine senese; questa volta, però, a differenza di quanto era accaduto nel 1521-22, si trattava di una guerra offensiva in alleanza con il Papato, mirante a far cadere a Siena il regime popolare di recente instaurato. Il tentativo fallì, ma il G. rimase qualche tempo a Poggibonsi, per provvedere alle opere di fortificazione. Il suo incarico di commissario a Poggibonsi si protrasse fino all'8 maggio 1527, quando il G. fu sostituito da Antonio Ricasoli.
La patente di nomina di quest'ultimo attribuiva la sostituzione a una "indisposizione" del G., ma Benedetto Varchi e altri autori sostennero invece che egli fu rimosso perché divenuto sospetto al regime mediceo in seguito al "tumulto del venerdì".
A Firenze, dopo l'elevazione al pontificato di Giulio de' Medici (Clemente VII), nel novembre 1523, la rappresentanza della famiglia era rimasta affidata al cardinale Silvio Passerini da Cortona, il quale, sia per la sua origine provinciale, sia per la sua incapacità politica e i modi sgradevoli, era diventato così inviso ai Fiorentini da guadagnare all'opposizione antimedicea la maggior parte del ceto dirigente, tra cui - evidentemente - anche il Girolami. Tale opposizione si manifestò apertamente in disordini di piazza e isolati episodi di violenza. Al pericolo incombente di attacco e di saccheggio da parte dei lanzi, che già avevano varcato l'Appennino, corrispondeva l'inerzia e l'indecisione del Passerini, mentre le truppe della Lega di Cognac, di cui Firenze e il Papato facevano parte, rimanevano troppo lontane dai confini toscani per prestare aiuto in caso di bisogno. Gli episodi isolati divennero aperta rivolta e si tradussero in rivolgimento politico quando gli ottimati, capeggiati da Niccolò Capponi, presero in pugno la situazione il 26 apr. 1527, approfittando della temporanea assenza da Firenze del Passerini - interpretata come una fuga - e della cospicua guarnigione militare da cui soleva farsi scortare. La Signoria accettò di proscrivere i Medici, di ristabilire le milizie popolari, che erano state istituite nel 1509 su ispirazione del Machiavelli, e di rimettere in vigore l'apparato istituzionale precedente il 1512. Il ritorno a Firenze del Passerini e dei suoi militari, nella tarda serata dello stesso giorno, determinò un immediato ritorno allo statu quo.
Questo episodio rese il regime mediceo più diffidente verso molti membri della classe politica e specialmente verso coloro che in quel momento rivestivano incarichi di commissario militare in punti particolarmente nevralgici del dominio, che furono sostituiti con vari pretesti, come accadde appunto al Girolami.
Nonostante la pronta reazione al "tumulto del venerdì", il governo del cardinale Passerini a Firenze aveva i giorni contati: allorché si diffusero le notizie sul sacco di Roma e sulla detenzione di Clemente VII la pressione dei principali cittadini, da un lato, e i disordini di piazza, dall'altro, convinsero il Passerini e i due giovani eredi della dinastia Medici, Alessandro e Ippolito, a lasciare precipitosamente la città (17 maggio 1527). La fuga del Passerini fu subito seguita dalla restaurazione dell'apparato costituzionale precedente il 1512, con la sola eccezione della durata - che fu portata a un anno - e delle modalità di elezione del gonfalonierato di Giustizia.
Il cambiamento di regime e la separazione delle sorti politiche di Firenze da quelle del Papato comportarono anche la sostituzione del commissario fiorentino presso l'esercito della Lega di Cognac, di cui Firenze continuava a far parte. Tale ruolo era stato fino ad allora ricoperto, per conto sia del papa sia dei Fiorentini, da Francesco Guicciardini, che fu sollevato dall'incarico, anche su sua stessa sollecitazione, per la troppo netta identificazione della sua persona con gli interessi medicei.
A succedere a Guicciardini fu designato il G., a partire dal 25 giugno 1527. Durante il suo mandato le forze fiorentine iniziarono a riorganizzarsi e la città poté avvalersi dell'apporto delle famose "bande nere", ancora temibili benché ridotte di numero e prive del loro leggendario comandante. Ripristinata la milizia popolare, nel 1528 il G. fu uno dei suoi commissari per l'ordinanza e aprì trattative con Federico Gonzaga per condurlo a militare a fianco dei Fiorentini. Si recò a Perugia, per portare sotto le bandiere fiorentine il condottiero Malatesta Baglioni, signore della città: la sua posizione era particolarmente delicata, in quanto era legato al papa anche da vincoli feudali, ma il governo fiorentino sperava di convincerlo facendo leva sui suoi sentimenti ostili ai Medici, che avevano fatto uccidere il padre. Le trattative con il Baglioni furono molto lunghe e complesse e l'accordo fu firmato soltanto il 16 apr. 1529. Meno complicati furono gli accordi per la condotta di Ercole d'Este, firmati dal G., per conto del governo fiorentino, il 25 nov. 1528. Il 10 giugno 1529 entrò in carica come membro dei Dieci di balia, la magistratura che nel nuovo ordinamento istituzionale aveva preso il posto degli Otto di pratica alla direzione della politica estera e della diplomazia. A luglio fu nominato commissario dei Dieci a Cortona e ad Arezzo. In questa occasione, temendo che la città di Arezzo si svincolasse dalla soggezione a Firenze, inviò nella capitale come ostaggi dieci dei principali cittadini aretini. Il 20 luglio chiese di essere sollevato dall'incarico e di poter tornare a Firenze, adducendo motivi di salute.
Intanto, dopo la concordia iniziale, all'interno del ceto di governo di Firenze si erano di nuovo formate le fazioni: durante il periodo di preminenza dei moderati, che coincise con i sedici mesi di gonfalonierato del loro capo, Niccolò Capponi, i radicali cominciarono a perseguitare gli avversari anche a colpi di denunce anonime (le "tamburazioni"), di cui fu vittima anche il Girolami. Una temporanea vittoria dei radicali portò, il 18 apr. 1529, al gonfalonierato di Francesco Carducci, ma anche il G. era stato in lizza e aveva ricevuto un considerevole numero di voti.
In questo periodo l'orizzonte di Firenze tornò a oscurarsi di pericoli per effetto della conclusione dell'accordo tra Carlo V e Clemente VII (il trattato di Barcellona del giugno 1529). Avuta notizia dell'imminente arrivo in Italia dell'imperatore, il governo fiorentino decise di inviargli, durante la sosta che avrebbe effettuato a Genova, un'ambasceria, di cui il G. fu chiamato a fare parte per perorare la causa dell'indipendenza della città; tuttavia, tranne che su questo scopo generico, c'era completo disaccordo sui contenuti da dare all'ambasceria: i moderati avrebbero accolto un onorevole compromesso con il papa, mentre i radicali erano pregiudizialmente contrari a qualsiasi tipo di accordo. Anche la scelta dei membri dell'ambasceria rispecchiò fedelmente questa frattura: dei quattro ambasciatori, Niccolò Capponi era il capo del gruppo moderato e Matteo Strozzi era sulle sue stesse posizioni; gli altri due, Tommaso Soderini e il G., confidavano invece sull'appoggio della Lega di Cognac per trattare con l'imperatore senza doversi accordare anche con il papa. La lettera di istruzioni, data questa difficoltà, non andava al di là delle raccomandazioni generiche e dei convenevoli da porgere all'imperatore.
L'ambasceria fiorentina giunse a Genova il 23 ag. 1529, dieci giorni dopo l'arrivo dell'imperatore, il quale non mancò di irritarsi per questo ritardo, facendo fare agli oratori una lunga anticamera e pretendendo che all'incontro assistesse anche il nunzio pontificio. Il Soderini si rivolse all'imperatore in latino, ma il G. poté parlare in spagnolo, lingua che aveva appreso durante il soggiorno in Spagna del 1522-24. Gli oratori fiorentini protestarono contro gli intendimenti del papa, contrario a lasciare alla città la possibilità dell'autodeterminazione, e chiesero la protezione dell'imperatore, lasciando intendere di essere disposti a pagare con il denaro la libertà e l'integrità del loro territorio.
L'imperatore rimase sordo a queste richieste: ormai, dopo il trattato di Barcellona, egli non aveva alcun interesse ad accordarsi con uno Stato minore e perdente. Dichiarò pertanto la sua volontà di non prendere in esame alcuna richiesta se Firenze non si fosse preliminarmente accordata con il papa e rifiutò ulteriori udienze agli oratori, delegando a parlare il nunzio pontificio in sua vece.
Il disaccordo tra gli oratori fiorentini influiva negativamente sulla trasmissione delle informazioni a Firenze e si traduceva in lentezza e mancanza di incisività nell'azione diplomatica: i dispacci richiedevano, tanto da parte degli ambasciatori che del governo fiorentino, lunghe discussioni e difficili mediazioni, cosa che impediva movimenti tempestivi ed efficaci.
Intanto a Firenze era giunta notizia del trattato di Cambrai (5 ag. 1529), con cui il re di Francia Francesco I abbandonava gli alleati della Lega di Cognac. Il governo fiorentino autorizzò quindi gli ambasciatori a Genova a rimettersi completamente alla volontà dell'imperatore, sempre rimanendo vietate trattative dirette con il papa e i suoi rappresentanti.
Quando questo secondo mandato arrivò a Genova, l'imperatore aveva già lasciato la città; gli ambasciatori fiorentini lo seguirono fino nei pressi di Piacenza, dove fu loro vietato dal rappresentante pontificio l'ingresso in città. Allora proseguirono fino a Modena, dove si divisero e il G. si affrettò a percorrere il viaggio di ritorno a tappe forzate per giungere a Firenze prima degli altri.
Giunto in città, il G. si presentò immediatamente alla Signoria, tenendo un discorso coraggioso e veemente, in cui, certo sottovalutando le forze imperiali e papali, incitò il governo fiorentino alla resistenza a oltranza. Questo gesto, molto criticato da Varchi, che lo attribuisce a vanità e pochezza, gli guadagnò larghi consensi, soprattutto da parte della frazione più radicale del ceto dirigente, che gli valsero di lì a poco l'elezione al gonfalonierato di Giustizia.
Intanto Perugia cadeva nelle mani delle truppe pontificie (11 sett. 1529); per affrontare il pericolo furono nominati tre commissari sopra la difesa - il G., Lorenzo Martelli e Zanobi Bartolini -, con il compito di proteggere la città e con ampi poteri in materia finanziaria e fiscale. I commissari si impegnarono per la costruzione di nuovi bastioni e per il rinforzo delle mura, secondo un progetto elaborato da Michelangelo Buonarroti, e ordinarono, nonostante molte proteste, l'abbattimento di ogni costruzione fuori dalle mura per un raggio di un miglio.
Nel mese di dicembre si attivò il complesso meccanismo per la nomina del nuovo gonfaloniere di Giustizia, che sarebbe dovuto entrare in carica il 1° gennaio successivo: subito apparve favorito il G., nonostante le manovre messe in atto da Francesco Carducci per ottenere la rielezione. Il G. ricevette l'appoggio degli aristocratici, dei filomedicei e dei radicali, di cui si era conquistato il favore per il fermo atteggiamento tenuto durante e dopo l'ambasceria a Genova. Benché di tendenze più moderate del Carducci, il G. non poté imprimere alla politica di Firenze una svolta decisa.
La sua libertà d'azione subì una pesante ipoteca da parte della "setta", la parte estremista che lo aveva votato e che pretendeva un atteggiamento consono ai suoi fini, ma più probabilmente fu limitata dalla drammaticità della situazione e dall'imminenza del pericolo.
Il 1° genn. 1530 ebbe inizio ufficialmente il gonfalonierato annuale del G., che non poté giungere alla sua scadenza naturale e fu l'ultimo della storia repubblicana di Firenze perché, dopo la resa alle forze imperiali e papali, queste imposero il ritorno dei Medici e un nuovo assetto istituzionale. L'assedio di Firenze era già in atto da qualche mese e tutte le energie dei Fiorentini erano volte alla difesa e alla resistenza. Il giorno del suo insediamento il G. radunò una "pratica", cioè un consiglio segreto di notabili, che accolse la sua proposta di mandare legati al papa, ma la missione fallì. Nella politica interna il G. continuò, sulla scia del predecessore, a finanziare la resistenza di Firenze con la vendita coatta di beni e suppellettili provenienti da chiese e luoghi pii. A fronte di questi elementi di continuità, operò le scelte altrettanto importanti che andavano decisamente in altra direzione: seppe ripristinare una maggiore collegialità e una maggiore trasparenza nell'azione di governo; rimise in vigore l'antica usanza di leggere i dispacci degli ambasciatori in Consiglio maggiore, in modo da diffondere la consapevolezza dei problemi politici oltre il gruppo di cittadini addetti agli uffici; e teneva molto spesso delle "pratiche" per ricevere i consigli dei membri più autorevoli della classe di governo. Su parere di Donato Giannotti - che durante il gonfalonierato gli fu stretto collaboratore in qualità di cancelliere - avrebbe volentieri promosso una riforma dei Consigli, che da organi deliberativi si erano trasformati in organismi di ratifica di decisioni prese in altre sedi. L'opposizione dei radicali e l'urgenza della guerra non consentirono, invece, alcuna riforma.
Dopo il 25 genn. 1530 Firenze era pressoché isolata perché alcune città del Dominio erano cadute nelle mani degli Imperiali; in questa situazione il G. si sottopose a un'attività frenetica: presiedeva consigli, radunava pratiche, teneva arringhe. A detta del Varchi (peraltro sempre molto severo nei confronti del G.), la sua oratoria efficace e appassionata contribuì a tenere alto il morale dei Fiorentini in quel difficilissimo periodo.
Il suo operato, fittamente intessuto di luci e di ombre, ha ricevuto complessivamente dagli storici coevi più critiche che consensi; fa eccezione il Busini, che ne dà invece un giudizio sostanzialmente positivo. Durante il gonfalonierato il G. ricevette, in qualità di inviato del pontefice, il fratello Iacopo, che aveva intrapreso la carriera ecclesiastica ed era allora "cubiculario" di Clemente VII.
Il 12 ag. 1530, com'era inevitabile data la schiacciante superiorità delle forze imperiali e pontificie, si giunse alla resa. Il giorno 20 fu eletta una Balia con pieni poteri, composta da 12 cittadini, che avrebbe governato la città fino al ritorno, ormai imminente, dei Medici.
Secondo la tradizione fiorentina, il G. fu chiamato a far parte della Balia in quanto gonfaloniere di Giustizia in carica, ma fu rimosso dopo pochi giorni, a causa dell'opposizione del papa. La destituzione era largamente prevedibile, tanto che gli era stato consigliato di fuggire, approfittando della temporanea immunità consentita dalla carica che rivestiva, e di recarsi a Roma a gettarsi ai piedi del papa per impetrarne il perdono, ma il G. rifiutò. Fu pertanto rinchiuso nelle carceri del Bargello: mentre altri esponenti di spicco del passato regime venivano immediatamente giustiziati (tra questi Iacopo Gherardi, genero del G.), egli fu temporaneamente lasciato in vita per intercessione di Ferrante Gonzaga, comandante delle forze imperiali; per un certo periodo sperò perfino di essere liberato, ma la sua posizione era troppo intimamente connessa con il passato regime perché potesse salvarsi. Non potendogli addebitare reali misfatti, gli furono attribuite intenzioni criminose e restò in carcere.
Tradizionalmente il motivo del favore del Gonzaga nei confronti del G. è attribuito alla riconoscenza per aver avuto in prestito il famoso anello di s. Zanobi, che avrebbe determinato la guarigione miracolosa di un figlio del Gonzaga da una grave malattia.
L'intercessione del Gonzaga provocò tra i filomedicei un diffuso malumore nei confronti del G., nel timore che un gesto di clemenza potesse far nascere nuove speranze nei "ribaldi". Provocò irritazione anche il suo comportamento durante la detenzione: il G., infatti, aveva tentato di far giungere al papa, attraverso Baccio Valori, una lettera autoapologetica in cui presentava il suo operato come semplice acquiescenza a decisioni altrui.
Dalle carceri fiorentine del Bargello il G. fu trasferito nella rocca di Volterra e poi a Pisa, dove morì, presumibilmente fatto avvelenare dai suoi nemici, tra il 22 e il 24 nov. 1532.
Dal suo matrimonio con Alessandra di Tanai de' Nerli ebbe almeno quattro figli maschi (Francesco, Zanobi, Giuliano e Bernardo) e cinque figlie (Margherita, Maddalena, Cosa, Dianora - moglie di Iacopo Gherardi - e Contessina - moglie di Alamanno de' Medici). Nel suo testamento, rogato il 27 ott. 1522, destinava un legato alla costruzione di una foresteria nel monastero di San Vivaldo, presso Montaione (Firenze).
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