URSINI, Raffaele
URSINI, Raffaele. – Nacque il 24 agosto 1926 a Roccella Ionica (Reggio Calabria) da Amedeo e da Laura Maria Dorotea Minici, in una famiglia piccolo-borghese.
Trasferitasi la famiglia a Milano, Raffaele studiò ragioneria. Non sono note le sue prime attività professionali. Nel 1949 venne assunto alla Liquigas, una società sorta nel 1936, una delle prime in Italia, insieme alla Pibigas, a distribuire il GPL in bombole. In quel momento gli impianti più importanti della società, controllata dal senatore democristiano Teresio Guglielmone (proprietario anche della società che produceva i cinegiornali per la Settimana Incom), si trovavano a Porto Marghera, mentre la sede amministrativa era a Milano.
La società entrò in crisi quando l’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli) di Enrico Mattei fece il suo ingresso nel settore. Nel 1954 Guglielmone cedette la sua impresa a un raider borsistico molto noto nella Milano degli anni Cinquanta, Michelangelo Virgillito. L’incontro con quest’ultimo cambiò la vita di Ursini: dapprima divenne direttore amministrativo e poi direttore generale della società. Nel 1959, appena dieci anni dopo essere stato assunto in azienda come semplice ragioniere, entrò in consiglio d’amministrazione. In quello stesso anno divenne segretario del consiglio d’amministrazione della Italwarren del New Jersey, una società costituita dalla Liquigas e dalla Warren Petroleum International, una controllata della Gulf Oil. Alla presidenza della società venne eletto Giordano Dell’Amore, presidente della Cariplo, che ricambiò il favore finanziando Virgillito nella scalata alla Lanerossi. Questa fu l’ultima grande operazione del finanziere siciliano, che decise di uscire di scena per evitare guai peggiori dopo che gli risultò impossibile rientrare dall’enorme esposizione accumulata con le banche per realizzare l’operazione. L’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) rilevò la Lanerossi e Ursini si concentrò sulla Liquigas, di cui divenne il principale azionista nell’ottobre del 1961 versando tra i 6 e 7 miliardi di lire per consentire l’aumento di capitale della società fino a 15 miliardi. L’anno dopo Virgillito fece l’ultimo regalo al suo giovane ‘allievo’: grazie a una donazione di mezzo miliardo di lire alla Madonna di Paternò, Giovanni XXIII lo ordinò cavaliere di cappa e spada di Sua Santità.
Chiamato a spiegare la provenienza dei soldi che l’avevano portato alla guida della Liquigas, affermò di avere in proprio circa 700 milioni, guadagnati in operazioni borsistiche e immobiliari condotte insieme al suo mentore Virgillito, e di avere ottenuto il resto dal sistema bancario. La spiegazione non convinse, anche per la presenza in consiglio d’amministrazione di tre italoamericani del New Jersey: Philipp Marfuggi (che più tardi sarebbe diventato presidente della Liquigas), Giuseppe Murgida e Mark Anton (presidente della Suburban propane gas corporation e senatore dello Stato del New Jersey). Di sicuro Ursini venne aiutato da un imprenditore allora molto influente, Vincenzo Cazzaniga, dal 1952 al 1972 il numero uno della Esso Standard Italia. Nel 1960-61 – come raccontò lo stesso Ursini – la Esso aveva un forte interesse ad acquisire il controllo della Liquigas, ma non potendo acquistare direttamente le azioni in quel momento si giunse a un compromesso: la Esso Standard Italia accordò un finanziamento di 4,5 miliardi sulle azioni che venne messo a disposizione di un’apposita società, la Coil Finanziaria Italiana, la quale negli anni successivi beneficiò di ulteriori finanziamenti, sempre dalla medesima fonte, «fino a 10 e forse anche a 12 miliardi» (Turani, 1976). Secondo Ursini, era stato l’allora direttore generale del Credito lombardo, Ugo Briolini, a suggerire questa soluzione. Tuttavia, nel 1976 un’indagine della Security exchange commission (SEC) di New York evidenziò che la Coil era collegata attraverso una lunga catena di partecipazioni azionarie alla Fasco Ag, una finanziaria domiciliata nel Liechtenstein, tramite la quale Michele Sindona controllava la Banca privata finanziaria (poi Banca privata italiana), proprietaria della Finabank di Ginevra, a sua volta controllante della Coil financière di Ginevra, che deteneva il 100% della Coil. Quest’ultima, a ogni modo, venne liquidata nel 1971, quando la Finanziaria italiana (gruppo BNL) rilevò le azioni Liquigas, trasferendole alla Servizio Italia, una società fiduciaria della stessa banca. Anche in seguito queste azioni continuarono a essere nella disponibilità di Ursini, tanto che nel 1975 fu condannato a quattro mesi di reclusione per violazione della legge che obbligava gli amministratori delegati a dichiarare alla Consob e alla propria società le partecipazioni, dirette o indirette, possedute nella stessa. In quel momento, come emerse dalla vicenda giudiziaria, Ursini deteneva 90 milioni di titoli della Liquigas, risultandone il maggiore azionista. A riprova di ciò, nel 1974, a seguito del tentativo fallito della Liquifin AG, una società tedesca detenuta al 100% dalla Liquigas, di acquisire il controllo della Ronson corporation (famosa soprattutto per i suoi accendini Zippo, in dotazione alle truppe americane), la Corte di giustizia dello Stato di New York, intervenuta nella vicenda a seguito di irregolarità nell’offerta di acquisto, concluse che «the person in control of Liquigas» (Rouson v. Liquifin..., 1974) fosse Ursini e non Cazzaniga.
Sul piano economico le attività della Liquigas conobbero un notevole sviluppo negli anni Sessanta. La crescita nel mercato italiano del GPL (di cui la Liquigas deteneva il 18%, seconda solo all’AGIP) e in quello del kerosene (9% del totale) si accompagnò a una profonda riorganizzazione della rete degli stabilimenti di imbottigliamento e dei centri di infustaggio, che si estendeva sul territorio nazionale attraverso 15 filiali e ben 25.000 punti vendita, mentre venne crescendo anche la presenza sui mercati esteri (Brasile, Nigeria, Libano, Turchia ed Ecuador). Questo sviluppo, visibilissimo anche negli utili (cresciuti dai 12 milioni del 1967 ai 1685 del 1971, anno in cui Ursini divenne cavaliere del lavoro e cavaliere di gran croce della Repubblica Italiana, dopo che nel 1966 era già stato nominato grande ufficiale) rese necessaria anche una diversa governance. La Liquigas divenne una vera e propria holding, lasciando le attività operative alla Liquigas italiana.
Il salto di qualità venne compiuto sul finire degli anni Sessanta, in coincidenza con la presentazione del Piano chimico, con il quale lo Stato intendeva investire 4500 miliardi di lire attraverso il credito agevolato. Ursini si lanciò nel settore dopo avere acquistato un piccolo stabilimento che la società ISOR possedeva a Robassomero, in Piemonte. Tramite tale operazione nacque Liquichimica, il nuovo braccio operativo per il settore ideato da Ursini. Subito dopo l’imprenditore fondò la Liquichimica sud di Sibari, in Calabria, condizione indispensabile per poter accedere ai finanziamenti pubblici. Tuttavia, l’impresa non ebbe mai il parere di conformità per realizzare uno stabilimento steam cracking da 200 miliardi e Ursini dovette perciò muoversi tra gli spazi lasciati liberi dai maggiori protagonisti del settore, la SIR (Società Italiana Resine) di Angelo Rovelli, l’ENI (attraverso l’ANIC, Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili) e la Montedison. Il programma predisposto era senz’altro ambizioso, ma soprattutto molto costoso. Nel 1969 la Liquigas aveva un capitale di 30 miliardi e un fatturato di 60, a fronte dei quali erano previsti investimenti per 500 miliardi, che Ursini immaginava di bilanciare con aumenti di capitale (almeno fino a 150 miliardi nel 1975, di cui però solo 80 versati) e con prestiti obbligazionari (tra il 1970 e il 1973 ne furono emessi quattro dalla Liquigas, ognuno da 10 miliardi, e uno dalla Liquigas Holding del New Jersey di 20 miliardi). Tuttavia, il grosso degli investimenti venne realizzato con l’indebitamento a tasso agevolato. Gli istituti coinvolti furono l’Irfis (circa 25 miliardi), l’Isveimer (oltre 35 miliardi), la Cassa per il Mezzogiorno (circa 40 miliardi) e soprattutto l’ICIPU (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità), la vera fonte dei finanziamenti della società, che mise a disposizione circa 1400 miliardi tra il 1963 e il 1977.
La localizzazione delle attività in Calabria e in Lucania, proprio nel periodo dell’esplosione della crisi occupazionale nel Meridione, favorì le iniziative di Ursini, che inevitabilmente dovette stabilire rapporti con molti uomini politici di diverso orientamento: «Io e la Liquigas non abbiamo amici politici [...] Abbiamo delle conoscenze, conosciamo tanti uomini politici – dichiarò in quegli anni – e la Liquigas non partecipa alla corsa agli incentivi, prende solo quello che le vien dato» (Panerai, 1976). Dichiaratosi repubblicano, ebbe però relazioni molto importanti con Emilio Colombo, più volte ministro del Tesoro e del Bilancio, oltre che presidente del Consiglio dei ministri dal 1970 al 1972, e uomo forte della Democrazia cristiana in Lucania, e con Giacomo Mancini, che aveva la sua roccaforte politico-elettorale in Calabria e che fu segretario del Partito socialista italiano fino al 1972. Ma pure i contatti con il missino Antonino La Russa, l’ex prefetto di Milano Libero Mazza e diversi rappresentati della nobiltà nera romana gli furono senz’altro utili. Il vero asso nella manica – politico e insieme economico – era però il sostegno della Montedison, la più grande impresa chimica del Paese. La società, guidata in quel momento da Eugenio Cefis, era divenuta azionista della Liquigas nel 1971 a seguito del fallito tentativo di Sindona di scalare la Bastogi, nel cui portafoglio stava il 10% dell’Italcementi, la finanziaria del gruppo Pesenti. Per contrastare l’OPA di Sindona, Cefis e Carlo Pesenti fusero insieme Bastogi e Italpi. Dopo tale operazione Cefis decise di ripartire le azioni tra una serie di partner tra cui l’amico Vincenzo Cazzaniga, cui cedette il 12,6% della Bastogi in cambio del 24,7% che il petroliere deteneva in quel momento in Liquigas.
Ursini sviluppò le sue attività in Sicilia (ad Augusta, dove costruì un impianto di normalparaffine che aveva una capacità pari al 40% della produzione mondiale) e in provincia di Reggio Calabria, dove operò con le controllate Biosintesi e Uniliq. Poi, attraverso l’acquisizione della Icir di Torino (che produceva antirombo, adesivi, mastici e sigillanti), ci fu il passaggio alla biochimica attraverso il centro biochimico nutrizionale (Cebin), che doveva svolgere ricerche sui prodotti derivati dalla fermentazione petrolifera e destinati all’alimentazione animale. A tale scopo nacque anche la Liquifarm per le attività in campo zootecnico sia in Italia sia in Brasile, dove nel frattempo era sorta la Liquigas do Brazil (in poco tempo capace di raggiungere il 25% del mercato delle bombole GPL).
Il progetto più ambizioso fu quello affidato alla Liquichimica biosintesi. Esso era imperniato sul Liquipron, un brevetto acquisito dalla giapponese Kanegafuchi Chemical Industry per la fabbricazione di farine proteiche derivate dal trattamento di idrocarburi con microrganismi attivi presenti in natura. Lo scopo era quello di allargare la base per i prodotti destinati all’alimentazione animale. Il piano di Ursini si inserì nel cosiddetto Progetto Colombo, che doveva servire, tra le altre cose, ad abbassare i toni dopo la rivolta di Reggio Calabria: a Catanzaro la sede della Regione, a Cosenza l’Università, a Gioia Tauro il nuovo impianto siderurgico e a Saline Joniche il nuovo stabilimento della Liquichimica. La società ottenne appositi finanziamenti dall’ICIPU (oltre 46 miliardi di lire) e anche il via libera del governo sui prodotti per l’alimentazione animale che sarebbero stati fabbricati, nonostante le molte polemiche per il pericolo di inquinamento. Inoltre, nel 1974 la società ricevette dal governo anche il via libera per la realizzazione in Lucania (a Basento, Grassano e Pisticci) di tre impianti, per un valore complessivo di 850 miliardi, che avrebbero creato, una volta ultimati, circa 10.000 posti di lavoro. Il programma si impantanò già nel 1973, quando il governo giapponese obbligò la Kanegafuchi a sospendere le produzioni sotto l’accusa di usare delle materie prime pericolose per la salute. Per uscire dalla difficile situazione in cui si venne a trovare la Liquigas, Ursini allacciò rapporti con un’impresa statale russa e nel 1976 arrivò alla firma di un accordo di cooperazione con il Comitato sovietico per la scienza e la tecnica per un brevetto congiunto nel campo delle bioproteine. Tuttavia, le polemiche politiche e le discussioni scientifiche, anche a livello internazionale, non smisero e si conclusero con un compromesso piuttosto negativo per la Liquichimica, dato che nel 1978 si ammise l’uso delle bioproteine solo per gli animali non inclusi nella catena alimentare umana.
L’operazione per l’acquisizione della Ronson, sopra ricordata, faceva parte di una strategia di diversificazione degli investimenti che Ursini portò avanti nei primi anni Settanta. Nel 1972 si assicurò il 50,1% della Pozzi, che tra l’altro possedeva uno stabilimento chimico a Ferrandina, in Basilicata, e per il quale ottenne un finanziamento di 26 miliardi da parte del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica); l’anno dopo acquisì il 51% della Richard Ginori (12 stabilimenti con oltre 4600 dipendenti). Dapprima accorpò le attività produttive omogenee in quattro diverse imprese (Pozzi-Ginori per le ceramiche, Porcellane Richard-Ginori, Ceramiche industriali e Fonderie smalterie genovesi) e le fuse nel 1977 nella Società ceramica italiana Pozzi Richard-Ginori (40 miliardi di capitale e 9500 dipendenti), ma l’iniziativa finì male, perché già nel 1978 Ursini fu costretto a cedere l’azienda al gruppo Ligresti.
Nel 1973 la Liquifin comprò il 60% della Cip Zoo di Brescia dalla britannica Bibby & Sons. L’investimento si rivelò un errore perché la società celava nelle pieghe del bilancio enormi perdite. Avviata un’azione giudiziaria, Ursini creò una nuova società, la Liquifarm Cip Zoo, per controllare tutte le attività zootecniche. Nel 1976 inglobò nell’impresa anche il Gruppo industrie alimentari (che possedeva silos e mangimifici e impianti per l’estrazione dell’olio di soia), appartenuto fino a quel momento alla Sarom del gruppo Monti.
Alla metà degli anni Settanta Ursini sembrava davvero uno degli homines novi dell’imprenditoria italiana. Nel 1975 era entrato in uno dei ‘salotti buoni’ del capitalismo italiano, la Bastogi. Nel contempo, oltre a divenire consigliere di due altre storiche società del sistema economico nazionale, la Beni stabili (che possedeva uno dei patrimoni immobiliari più grandi del Paese) e la SME (Società Meridionale di Elettricità), aiutò Pesenti a sciogliere l’incrocio azionario Bastogi-Italcementi-Italmobiliare, attraverso uno scambio azionario vantaggioso per entrambi: Ursini rilevò dalla Bastogi l’8% dell’Italcementi in cambio del 20% della Unicem e mise in un sindacato voluto da Pesenti le azioni Italcementi, garantendo all’industriale bergamasco il controllo sul suo gruppo senza alcun costo.
Nel 1976 ci fu quella che venne considerata la consacrazione definitiva di Ursini attraverso l’acquisizione della SAI (Società Assicuratrice Industriale), una delle maggiori compagnie assicurative del Paese, fino a quel momento controllata dalla FIAT. «È persona corretta, seria, precisa e cordiale», dissero di lui a Torino (Agnelli vende ancora, 1976). E ne avevano ben donde, perché il passaggio della SAI a Ursini avvenne in modo soddisfacente per tutti: Ursini acquistò personalmente per 20 miliardi le azioni SAI in possesso di IFI (Istituto Finanziario Industriale; 26,77%) e IFIL (Ististuto Finanziario Industriale Laniero; 25,41%) e contestualmente cedette all’IFI le azioni FIAT presenti in portafoglio per 17,5 miliardi, con cui fece comprare alla sua nuova società il 25% delle Liquigas depositate nel Servizio Italia. Ursini restava solo con il 15% delle azioni, ma ne manteneva il controllo tramite la SAI, di fatto divenuta la capogruppo. Sembrava davvero arrivato: nel portafoglio SAI (titoli per 124 miliardi e immobili per 161) si trovavano pure 300.000 Generali attraverso la controllata Euralux; inoltre don Raffaele (come cominciava a essere chiamato sia per l’origine calabrese sia per alcuni aspetti poco chiari legati alle sue attività nel Meridione) deteneva il 12% della Bastogi e il 19,2% della Pierrel, rilevate da poco dalla Caboto attraverso la Liquigas Holding.
La nuova visibilità attirò su di lui svariati interessi. L’Espresso rese noto il rapporto della SEC a proposito del tentativo di acquisire la Ronson. Venne alla luce che l’OPA era stata diretta e gestita da Sindona e che una parte dei finanziamenti BNL ottenuti da Ursini erano transitati attraverso la Franklin, la sua banca americana. Anche i complessi passaggi azionari che avevano portato Ursini a controllare la Pozzi avevano usufruito dell’appoggio di società riconducibili a Sindona. Nonostante le smentite dell’interessato, i due avevano rapporti ben saldi dagli inizi del decennio, quando entrambi erano stati affiliati alla loggia massonica Giustizia e libertà, in cui Ursini ricopriva la carica di luogotenente del sovrano gran commendatore del rito.
La crisi della Liquigas si palesò nel 1976, quando vennero dichiarati solo 600 milioni di utile, e scoppiò con gran fragore nel 1977, quando la vicenda delle bioproteine diede un duro colpo alle prospettive del gruppo. Il debito, che nel 1975 era di 938 miliardi, salì due anni dopo a oltre 1000, un terzo circa del colossale debito dell’intero comparto chimico nei confronti del sistema bancario, che aveva elargito crediti con troppa facilità. Un rapporto stilato dalla Booz Allen riconobbe l’elevata reputazione internazionale del gruppo, ma indicò anche la necessità di una ricapitalizzazione e di una separazione della Liquichimica dalla Liquigas. Nel contempo emersero varie irregolarità contabili infragruppo messe in atto al fine di ridare ossigeno alla Liquigas e aumenti di capitale realizzati solo sulla carta. La crisi comportò ripetuti arresti della produzione per mancanza di liquidità.
Nel giugno del 1978 Ursini si dimise da vicepresidente e amministratore delegato di Liquigas, ma il suo successore, Mario Gorla, responsabile delle attività brasiliane del gruppo, sembrava più un suo prestanome che un vero successore. Il 10 luglio venne arrestato su mandato del sostituto procuratore di Reggio Calabria Guido Papalia con l’accusa di truffa, e nel corso dell’inchiesta emersero numerose irregolarità nei bilanci della Liquigas dal 1972 al 1976. Ottenuta la libertà provvisoria nel settembre del 1978, Ursini cercò di mettere al riparo il cuore del suo impero, provvedendo anche a cessioni di cespiti minori e dicendosi disponibile a consegnare il pacco di controllo della SAI ai suoi creditori. Il piano era iniziato già da un anno quando, attraverso una complessa operazione, aveva trasmesso il controllo della SAI alla Fispao (la fiduciaria dell’Istituto San Paolo) e a un misterioso compratore, che deteneva il 30% delle azioni. Quest’ultimo (che nel 1980 si seppe essere Salvatore Ligresti, l’altro grande allievo del ‘mentore’ di Ursini Virgillito) operò un rastrellamento in Borsa e arrivò a detenere il 43% delle azioni, operazione cui ne seguì un’altra vòlta ad assicurare la maggioranza assoluta del capitale (52%), con la quale un rappresentante del misterioso azionista si presentò all’assemblea della Liquigas del 1978. I debiti del gruppo, nel frattempo saliti a oltre 1500 miliardi, richiesero un intervento drastico. Bastogi, guidata da Alberto Grandi, si candidò a rilevare gli impianti. In realtà, l’operazione era fatta per interposta persona, perché dietro alla Bastogi stava la Chemical Investment and Trade Co, che controllava la Diamond Shamroch di Cleveland, interessata agli impianti in cambio della partecipazione a un aumento di capitale della Bastogi. Quando tutto sembrava fatto, l’ENI entrò in scena con l’appoggio del ministro delle Partecipazioni statali Antonio Bisaglia e di quello del Tesoro Filippo Maria Pandolfi. Il piano, tuttavia, non riuscì, perché gli intrecci azionari e debitori del gruppo portarono al suo fallimento nel marzo del 1980. L’ENI (alla cui presidenza era nel frattempo stato eletto lo stesso Grandi) ottenne la gestione della Liquichimica nel 1980 e l’anno dopo anche la proprietà in cambio di 205 miliardi.
Ursini osservò queste vicende dal suo esilio in Brasile, dopo essere stato coinvolto anche nello scandalo Italcasse con l’accusa di falso in bilancio e concorso in peculato aggravato. In proposito, nel giugno del 1990 patteggiò una condanna a due anni. Avviò una causa contro Ligresti per il controllo di un pacchetto del 10% di azioni SAI e nel 1991 vinse in prima istanza, sebbene in maniera incompleta, perché non gli fu riconosciuto che la restituzione delle azioni fosse estesa a tutte quelle sottoscritte e liberate nel frattempo. Nel 1994 la Corte d’appello di Milano diede però ragione a Ligresti.
Ursini non tornò in Italia. Rimase a lungo in Sud America prima di rientrare in Europa, in Svizzera, dove passò gli ultimi anni della sua vita.
Morì a Losanna il 7 aprile 2008. Ne diedero l’annuncio la moglie Pina e le figlie Laura e Medi.
Fonti e Bibl.: A.R. Hammerjune, Liquifin Division Offers to Purchase Shares of Ronson, in The New York Times, 1° giugno 1973; Ronson v. Liquifin Aktiengesellschaft Liquigas, 29 aprile 1974, https://casetext.com/case/ronson-v-liquifin-aktiengesellschaft-liquigas (17 febbraio 2020); M. Suriano, U. della Liquichimica spiega perché è entrato nella Bastogi, in Corriere della sera, 21 maggio 1975; G. Modolo, Don Raffaele e i suoi consiglieri, in l’Espresso, 8 agosto 1976; P. Panerai, U. e i suoi amici, in Panorama, 19 giugno 1976; A. Statera, Io, Sindona, Cazzaniga e Cefis, in l’Espresso, 22 agosto 1976; G. Turani, U.: Sindona non è il mio padrino, in la Repubblica, 5 agosto 1976; Agnelli vende ancora: U. entra nell’ISAB, in Il Giorno, 16 luglio 1976; R. Galimberti, I tentacoli della Liquigas, in l’Unità, 17 febbraio 1977; I. Cammarata, Tutti gli uomini di U., in Espansione, marzo 1977; M. La Ferla, E U. gridò: a Mosca, a Mosca!, in l’Espresso, 29 maggio 1977; G. Turani, Il pacco di comando delle SAI è al sicuro nelle banche svizzere, in la Repubblica, 16 settembre 1978; E. Polidori, U. “risarcisce” Italcasse e gli cede il 10% di azioni SAI, ibid., 29 novembre 1980; S. Luciano, Storia e misteri di due nemici, ibid., 2 giugno 1989; C. Sassi, SAI assicurazioni ‘vittoria di Pirro’ di U. su Ligresti, ibid., 27 settembre 1991; SAI, Ligresti batte U., ibid., 13 gennaio 1994; R. Giannetti, Impresa e politica industriale. La petrolchimica italiana negli anni ’70, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a cura di L. D’Antone, Napoli 1996, pp. 505-516; C. Barbi, Un protagonista della “grande illusione” chimica negli anni Settanta: R. U. e la Liquichimica, in Fondazione ASSI, Annali di storia dell’impresa, 2001, vol. 12, pp. 517-560; Necrologio, in La Liberté, 15 aprile 2008.