TAGORE, Rabindranath
Poeta, drammaturgo, musicista, pensatore, nato a Calcutta il 6 maggio 1861.
La famiglia cui egli appartiene va considerata fra le più notevoli per ricchezza e liberalità e fra le più illustri per gli alti meriti spirituali e intellettuali dei suoi componenti: il nonno suo Dwarkanath Tagore partecipò attivamente all'organizzazione del Brāhma Samāj "La congregazione di Dio" (dei credenti in Dio), fondata nel 1828 da Raja Rammohun Roy (morto nel 1833), congregazione diretta a conciliare il principio monoteistico del Cristianesimo e dell'Islamismo con le più antiche dottrine panteistiche delle Upaniṣad e a purificare l'Induismo da ogni forma di idolatria, di sacrificio e di riti in genere. Morto nel 1841 Dwarkanath, la direzione della setta fu assunta dal figlio, Devendranath Tagore, che la riformò, accentuandone l'indirizzo ortodosso e dandole il nome di Ādi Brāhma Samāj "Prima congregazione di Dio". Le altissime virtù di asceta e di pensatore di Devendranath, che la massima parte della sua lunga rettissima vita consacrò alla meditazione e alla più illuminata filantropia (morì nel 1905 a 92 anni), gli meritarono il nome di Maharṣi "Il grande anacoreta". A due miglia da Bolpur, piccola località situata a 100 chilometri da Calcutta, egli aveva fondato un eremo (āsrama), che sussiste tuttora, cui aveva dato il nome Śānti Niketan "Asilo di pace", nel quale ognuno che ne fosse stato desideroso "avrebbe trovato un tranquillo rifugio di pace". Il figlio maggiore di Devendranath, Dvijendranath Tagore, soprannominato Boro Dada "il fratello maggiore", morto nel 1926 a Bolpur a 87 anni, si rese anch'egli noto per santità di vita e per acutezza di indagini speculative: particolarmente versato nello studio della filosofia tedesca, fu interprete fedele e divulgatore mirabile nel Bengala del pensiero di E. Kant. Abanindranath, altro fratello del poeta, fu pittore di fama e precettista valoroso dell'arte pittorica (a lui si deve il Ṣadañga, trattato concernente i Sei canoni della pittura indiana); altri membri della famiglia Tagore si sono dati allo studio della musica, di letterature straniere, di economia e all'arte editoriale.
Tanto alte e nobili qualità dei familiari non potevano non influire favorevolmente sull'animo e sulla mente del giovine Rabindranath. Inviato in Inghilterra a diciassette anni circa (nel 1877) a perfezionarsi nell'inglese e a studiare giurisprudenza, dopo un primo periodo di educazione compiuto in India sotto la guida di precettori, i cui tradizionali metodi violenti di coercizione dispiacevano assai al padre e rimasero poi impressi indelebilmente nell'animo del fanciullo, tornò assai presto in patria, dove, giovanissimo ancora, diede, non affatto ammirato, come chiaramente ci attestano i suoi Ricordi di vita (Jibansmṛti), della civiltà, dell'arte, del pensiero occidentali, i primi saggi di quella sua attività intellettuale che, allora e poi, in qualsiasi ambito si svolgesse - poetico, musicale, meditativo, morale, politico - ebbe sempre indirizzo popolare e carattere schiettamente e nettamente indiano, anche se, specie negli anni della maturità, fu ideale del poeta l'avvicinamento dell'Oriente all'Occidente e, per dir così, la reciproca integrazione fra loro, mercé una schietta collaborazione. All'età di 21 anno circa, ebbe dal padre l'incarico di amministrare a Śilaida, sulle rive del Gange, i beni di famiglia, pratica occupazione che, se non gli fu, per le sue speciali attitudini speculative, particolarmente gradita, giovò tuttavia, per quanto la natura nella sua semplicità poteva offrirgli, notevolmente al suo genio, schivo sempre di tortuose e artificiose concezioni.
Appartiene a questo tempo una collezione di canti bengalici, tradotti dal poeta stesso in prosa inglese (Mālī, propr. Il ghirlandaio o il giardiniere, Londra 1913), nei quali, pur fra l'ardente esaltazione della gioia della vita, l'animo del poeta, "sempre assetato dell'infinito e dell'eterno" ascende alle fonti supreme dell'Essere, che è gioia assoluta, auspicando "una mistica unione contesa ai mortali", nella quale soltanto può acquetarsi "l'immenso travaglio del mondo". Fra tutti i canti eccelle l'Inno alla Terra, che nell'ampiezza e multiformità della concezione, ci ricorda il celeberrimo canto dell'Atharvaveda (v. india: Letteratura).
Maturava intanto nell'animo del poeta l'intento dell'educatore e del filantropo. Memore degli accennati falsi e crudeli metodi pedagogici, dei quali nella sua infanzia aveva sperimentato la durezza (e di cui doloroso ricordo egli ci ha dato nella commovente novella Ritorno a casa), il T. volle, pur a conforto dell'animo suo, straziato dalla perdita della moglie e di due figli, morti in tenera età, che presso il ricordato eremo, dove il padre aveva un giorno in ascetica contemplazione raggiunto la "chiaroveggenza", sorgesse (nel 1901) a onorarne la memoria, un grande istituto, in cui, conservandosi per luogo e per metodi le condizioni nelle quali si svolgeva l'insegnamento nell'antica India, venissero impartite ai fanciulli e ai giovani educazione e istruzione in ampia libertà di vita, per "immediato contatto con la natura" e con autonomia, e in profondo senso d'amore. E così in esso, attuandosi le maitrī "l'universale simpatia", il vero ideale dell'India, si sarebbe realizzato, secondo il pensiero del poeta, mercé "una collaborazione con spirito fraterno fuor d'ogni partito politico e d'ogni confessione religiosa, la libertà di cammino lungo il vasto regno dell'uomo" e si sarebbe allargata "la nostra coscienza dell'unità dello spirito nelle differenti razze umane", a tutto vantaggio della scienza e dell'arte, altissimi beni. E tale istituto, cui il poeta ha assegnato tutte le rendite derivantigli dalle sue pubblicazioni, e che riceve contributi (ciò pure secondo l'antico uso dell'India) da principi e da ricchi, i quali grande onore considerano tale loro mecenatismo, volle il poeta denominare, per la desiderata sua finalità, Viśva Bhatātī "La voce universale". Il sanscrito, il bengālī, l'inglese, le matematiche e le scienze fisiche e naturali; storia, geografia e musica costituiscono le materie d'insegnamento teorico, che, chiaramente determinate da uno statuto, vengono impartite, more antiquo, possibilmente all'aperto, al riparo di grandi alberi, mentre in edifici a un piano sono collocate la biblioteca e le scuole di belle arti. Né vi mancano corsi pratici d'agricoltura, tenuti in una stazione agricola, a Surul (a un'ora da Viśva Bharātī), e altri di lavoro manuale, alternati, questi e quelli, da esercitazioni fisiche, da marce, ecc.; mentre su tutti e su tutto domina la cura più assidua "per l'educazione morale e spirituale dei giovani, esortati sempre ad aver fiducia in sé stessi e ad essere operosi". Nessuna pena corporale (il che ben si comprende, dato il principio ispiratore dell'istituzione) è inflitta per colpa alcuna ai giovani, che nella spontanea confessione del loro errore ottengono il perdono dal meritato ostracismo, punizione questa fra tutte considerata la più efficace. Ogni mercoledì il poeta, che vigila e accompagna, del resto, senza interruzione la loro vita spirituale, così da partecipare non di rado - specie in cerimonie solenni - ai giuochi o a recitazioni di drammi composti per essi, tiene ai giovani una conferenza d'argomento filosofico-religioso.
Una scelta di tali discorsi che sono tutti ispirati alle concezioni panteistiche del Vedānta, egli ha pubblicato in inglese sotto il titolo Sādhanā, The realisation of Life. Lectures (Londra 1913), come in The Religion of man (Hibbert Lectures, Londra 1931) raccolse più tardi quelli che aveva tenuto in Oxford nel 1930, nei quali si rispecchiano le sue particolari concezioni religiose.
Non solo di maestri indigeni è costituito il corpo insegnante di Viśva Bharātī: illustri indianisti europei sono stati chiamati a im- partirvi l'insegnamento superiore letterario e filosofico: S. Lévi (Parigi), M. Winternitz (Praga), Sten Konow (Oslo), C. Formichi (Roma) ed altri. Dal canto suo il poeta ha voluto, anche per trarne ragione di utilità al proprio istituto, visitare l'Europa, l'America, il Giappone.
Fu nel 1925 e nel 1926 in Italia, dove ricevette onorevole accoglienza e doni cospicui dal governo nazionale (che l'aveva invitato) e omaggi dal popolo italiano, cui il T., in un primo tempo, rispose con pubbliche espressioni di fervida gratitudine e di viva simpatia. Sennonché da circoli internazionali antinazionalisti e pacifisti vennero aspre rimostranze al poeta, il quale, uscito dall'Italia e così sottratto al fascino esercitato sul suo animo dall'opera fascista, si indusse a contraddire sé stesso e a scrivere articoli miranti a placare quei circoli stessi, dei quali egli aveva in passato favorito e diviso le ideologie.
Come per ogni indiano, così per il T. la concezione religiosa si fonde difatti e si confonde in un tutto unico con quella politico-sociale. In ogni suo scritto, pure poetico, egli non smentisce mai tale sua concezione, la quale, pur risentendo di qualche elemento estraneo, specialmente cristiano (è noto che egli ha grande venerazione per il Cristo, che considera uno dei più grandi e originali Maestri dell'umanità), trova il suo fondamento nella dottrina panteistica delle Upaniṣad, che nell'unione dell'anima individuale con l'universale pone il fine supremo della vita umana. Vita, la quale il poeta sente, al pari degl'Indiani vedici, di amare fervidamente e gode di esaltare in tutta la sua bellezza, al cui amore, "pur attraverso dolorose esperienze", trova giusto incitar gli uomini, la cui salute spirituale egli afferma consistere assai più nell'azione che non in un salmodiare o in un'inerzia ascetica (Gītāñjali, 29) o, finalmente, nell'attuazione dei dettami di una dottrina - la buddhistica - che sostituisce al principio dell'anima universale (il Brahman) quello di una legge universale (Dharma) esistente ab aeterno; che nega l'esistenza di Dio, mentre, "lascia dietro a sé una folla di dei" e pretende, nel suo grande spirito di propaganda, d'imporsi ad ogni altra fede, come unica ed esclusiva via di redenzione. Ma la concezione religiosa panteistica, o universalistica che dir si voglia, del T. gli toglie nell'ambito politico e sociale, la possibilità di quella visione realistica della vita che nel nazionalismo fa, a buon diritto, riconoscere il massimo ideale dei singoli popoli per la conservazione e per il fiorire della propria esistenza: ogni affermazione di tale principio, cui conseguono imprescindibili e spesso dure necessità, è per lui egoismo e violenza (Sādhanā, 5); come quello che viola la legge di un amore universale. Così, se da un lato egli (discorso tenuto all'università di Tōkyō, 2 luglio 1916), "condannando l'odio di razza, la diffidenza degli Asiatici verso gli Europei e il disprezzo di questi per gli uomini di colore", auspica l'accennata collaborazione fra Oriente e Occidente (giacché molto ha quello da apprender da questo, maestro di libertà individuale sotto l'egida di leggi sociali, autore di progresso civile, difensore, pur a costo di martirî, della libertà di coscienza, mentre l'Europa ha bisogno dell'esempio dell'Oriente per acquietarsi da quelle agitazioni che troppo spesso l'insanguinano e l'umiliano), propugna, d'altra parte, per l'Oriente il mantenimento delle sue tradizioni, ritenendo errata e dannosa, non tanto l'accettazione di costumi e di credenze estranee ad esso, quanto la sostituzione della mentalità orientale con altra, "sotto il falso pretesto di modernità". Di qui, dunque e non per simpatia verso gli Inglesi, che pur considera i migliori tra gli Europei, e tali da ben proteggere l'India bisognosa di protezione, la sua non approvazione al movimento ideale e pratico di Gandhi, sebbene altissima stima egli nutra per l'eroico agitatore, disapprovazione, la quale non gli impedì, d'altra parte, di rinunciare, con una lettera diretta al viceré delle Indie nel 1919, al titolo di sir, per protesta contro la strage compiuta nel Paniab, ad Amritsar dal generale Dyer su ventimila cittadini inermi, seguaci del movimento nazionalista.
L'opera, multiforme e copiosa, del T. comprende canti lirici, romanzi e novelle, drammi, scritti religiosi, politici, didascalici in bengālī e da lui stesso in gran parte tradotti o meglio rielaborati in prosa ornatissima inglese. Del ritmo della sua poesia e della costituzione strofica di essa nella composizione originale, è sostanziale elemento la musicalità, la cui indole, tuttavia, varia di gran lunga, per la maggior ricchezza della scala musicale indiana e, conseguentemente, per una armonia assai minore, da quella della musica occidentale, da cui rifugge il suo gusto perché, a parere suo, "troppo definita, materiale, concreta". Su motivi melodici scelti fra i più popolari del Bengala oppure da lui stesso creati, il T. plasma i suoi canti: del suo amore per la musica sono, inoltre, attestazioni cospicue le due antologie musicali: Svaralipī Gīti Mālā (Corona di canti musicali, Calcutta 1913-14) e Gīlatipī (Canti musicali, ivi 1910). Fra tutte le raccolte poetiche (ricordiamo le bengālī Prabhāt-saígīt "Canti del mattino", Calcutta 1901; e Sāídhya-saígīt "Canti del Vespero", ivi 1913, canti tutti della prima giovinezza); eccelle di gran lunga Gītāñjali "Offerta di canti" (153 nell'originale bengālī, Calcutta 1913-14; 103 nella stessa traduzione inglese del poeta stesso, ivi 1913), canti della maturità, nei quali a soavissime concezioni liriche s'accoppia incessantemente, "ultimo frutto di un'elaborazione spirituale", un'alta meditazione, quale può sgorgare da un animo, che nel vivere in Dio trova la possibile ispirazione al suo canto, il conforto ad ogni umano travaglio, la massima ineffabile gioia. Resosi per essi (con maggiore intonazione panteistica li continuò più tardi con altri: Fruit Gathering "Raccolta votiva", Calcutta 1913-15) celeberrimo nel Bengala e nell'India intera; rivelato all'Europa dall'entusiastica commossa esaltazione del poeta irlandese Yeats, il T. ottenne nel 1913 il premio Nobel. Appartiene anche al 1913 Śiśu "Il bambino", collana di carmi in bengālī (Calcutta; trad. inglese dell'autore: The Crescent Moon, Londra 1915), nei quali, come pure in una novella contenuta nella raccolta che dalla prima prende il nome: Hungry Stones and other Stories (Calcutta 1897-99), lo sconfinato amore verso l'infanzia assurge nell'animo del poeta, tutto preso dall'ingenua purezza del bimbo e memore sempre delle frequenti ingiuste sue sofferenze, a un culto religioso che non differisce da quello nutrito dagli antichi e moderni Vaiṣṇava per Kṛṣṇa, il "bimbo divino". Né le virtù della donna indiana, la sua abnegazione e fedeltà e pure la sua opera nel movimento nazionalista sfuggono alla considerazione del poeta, che gode di esaltarla in alcuna delle citate novelle o in drammi. I quali traggono soggetto o dalla grande epica, come Citrā o Citrāgadā (Calcutta 1913; traduz. dell'autore, Londra 1914), oppure intessuti di simbolismo, contengono tratti di alta umanità (Dak Ghar "L'Ufficio postale", Calcutta 1913, prosa e poesia bengālī), o son diretti a celebrare, nell'esaltazione della ferma fede in Dio, fonte imprescindibile della conoscenza di Dio stesso da parte dell'uomo, "il trionfo dell'amore divino sull'umano" (Rājā "Il re", Calcutta 1909; traduz. inglese dell'autore, The King of the Dark Chamber, Londra 919). Fra i romanzi il più noto è The Hom and the Wordl, inteso a combattere la violenza, quale si sia l'ideale, pur nobile, che la renda necessaria.
Merito incontestabile del T. è quello di aver dato al bengālī tale sviluppo, per cui esso è ora non solo atto ad esprimere efficacemente ogni più alto pensiero, ma pure, svincolato dal sanscrito, ad essere sicuro strumento di attuale modernità. Si può, in altri termini, affermare con ogni certezza che egli ha creato e plasmato il suo idioma natale.
È stato, inoltre, discusso se il poeta di Bolpur debba essere considerato un occidentale piuttosto e meglio che un orientale. Ora, se è lecito riconoscere la possibilità di tale dubbio, poiché è ben noto essersi egli abbeverato ad ottime fonti della poesia inglese (Wordsworth, Shelley, Keats, Browning), e aver nutrito altissima ammirazione per il pensiero e l'opera di Garibaldi e di Mazzini, sarebbe altrettanto erroneo non riconoscere che egli è invece rimasto in realtà sempre profondamente indiano, come colui che appare un vero continuatore dei mistici del Medioevo dell'India (Caitanya, Kabir e altri). Pare anzi giusto asserire che quella che a prima vista potrebbe sembrare in lui assoluta originalità, va meglio considerata come un riflesso dell'accennata letteratura mistica medievale.
Traduzione italiana di numerose opere poetiche e in prosa: ed. Carabba, Lanciano; francese: ed. Nouvelle Revue Française; Rieder et Co.; Payot, Stock, Delpench, Parigi; tedesca: edizione L. Reclam, Lipsia; K. Wolff, Berlino.
Bibl.: Eickstect, Der Stammbaum von R. T., in Archiv. für Rassen- und Gesellschaftbiologie, XX (1928); B. Pearson, Shantiniketan, The Bolpur school of R. T., Londra 1917; F. Belloni-Filippi, T., Roma 1920; id., R. T. musicista, in Nuova Antologia, febbraio 1918; E. Engelhardt, R. T. als Mensch, Dichter und Philosoph, Berlino 1921; R. Otto, R. T.'s Bekenntnis..., Gotha 1931; M. Winternitz, Rabindranath T. Religion und Weltanschauung des Dichters, Praga 1936; The Golden Book of T. An Homage to R. T. from India and the World in Celebration of his Seventieth Birthday, a cura di Ramacandra Chatterjee, Calcutta 1931.