QUINTILIANO (M. Fabius Quintilianus)
Nato a Calagurris (Calahorra) in Spagna, intorno al 35 d. C., venne a Roma, dove già suo padre aveva insegnato eloquenza, e studiò con i retori Eprio Marcello, Noniano, Domizio Afro, il grammatico Palemone. Rientrato in Spagna nel 59 tenne cattedra nel suo paese natale, dove conobbe Galba, che, divenuto imperatore, lo portò nel 68 a Roma. Divenne un famoso maestro, tanto che fu nominato da Vespasiano pubblico professore di eloquenza con lauto stipendio, e in seguito divenne precettore dei due nipoti di Domiziano. Accanto all'insegnamento svolse l'attività di oratore giudiziario; ebbe il consolato. Fu di temperamento severo, ma profondamente umano; per lui la moralità è a fondamento dell'attività e la lingna deve rispecchiare la dignità del pensiero. Egli vuol riportare l'eloquenza alla grandezza e alla purezza ciceroniana, ripudiando ogni sfoggio, ogni esuberanza, ogni sottigliezza, ogni virtuosismo a cui avevano abituato gli imitatori di Seneca, ritornando ad un ideale classico. Alla critica della decadenza dell'oratoria contemporanea contenuta nel suo primo lavoro De causis corruptae eloquentiae, seguì l'opera in dodici libri, Institutio oratoria, i cui primi tre furono scritti prima del 96, svolgendo le varie parti della doctrina dicendi. Sotto l'influsso stoico l'oratore deve essere per Q. vir bonus dicendi peritus. Secondo l'uso tradizionale di confronti fra retorica, poesia e arte figurativa, Q. non manca nelle similitudini e nei paragoni di accennare a problemi e ad opere di pittura, di scultura, di architettura. È questo aspetto della sua opera che qui si considera.
Come per ogni arte egli si pone il tradizionale quesito se valgano più le doti innate, naturali (natura), oppure quelle acquisite con lo studio e l'esperienza (doctrina), cioè l'ingenium o l'ars, la ϕύσις o la τέχνη seguendo la teoria del giusto mezzo, della tradizione peripatetica a cui si ispirava anche Cicerone. Con una concezione positivistica osserva che: "se Prassitele avesse tentato di scolpire una statua in una pietra da macina, preferirei un rozzo pezzo di marmo pario; ma se quest'ultimo fosse stato lavorato da quello stesso artista, il valore risiederebbe più nelle mani che nel marmo. Insomma - conclude - la natura è la materia della dottrina; questa forma, quella è formata. Non esiste arte senza materia, nessun valore ha la materia senz'arte, un'arte somma è migliore di una materia ottima" (Inst. or., ii, 19, 3). A nulla valgon gli insegnamenti e le arti senza l'aiuto della natura (i, Proem., 26).
Ammette l'utilità di seguire le cose che sono state bene inventate, come i pittori imitano e seguono le opere dei più antichi, ma riconosce che la sola imitazione non basta e che è proprio di un ingegno pigro contentarsi di ciò che è stato inventato dagli altri. "Com'è possibile, dice, che alcuni pittori si preoccupino soltanto di saper riempire un quadro di linee e di misure?" alludendo forse a copie meccaniche di dipinti; se ci si fosse sempre limitati ad imitare "non ci sarebbe altra pittura che quella capace di circoscrivere con linee di contorno le ombre che i corpi determinano al sole" (x, 2, 1), riecheggiando così le notizie sulla pittura primitiva umbra hominis tineis circumducta. Bisogna peraltro impadronirsi della capacità di imitare le cose (ratio imitandi) e se nessun pittore ha mai saputo riprodurre tutte le cose che sono nell'universo, tuttavia, una volta impadronitosi della ratio imitandi, potrà riprodurre tutto quello che gli si offra. "Quale artigiano, soggiunge, non ha fatto qualche vaso di una forma che non aveva mai visto?" (vii, 10, 9). La dispositio e la collocatio sono i principî che stanno a fondamento tanto di un'opera architettonica come dell'eloquenza, e più volte Q. paragona l'arte del retore a quella dell'architetto nell'utilizzare e disporre appropriatamente i varî elementi (vii, Proem., 1; viii, 6, 63; viii, 5, 27; ix, 4, 27). "Una statua non esiste, sebbene ne siano state fuse tutte le membra, se non quando vengano collocate insieme nel loro ordine", solo con la appropriata dispositio "il discorso non è più materia, ma opera d'arte, come la statua dello statuario, poiché l'orazione si crea con l'arte come la statuaria" (ii, 21, 1).
Seguendo la tradizione peripatetica e stoica distingue le tre categorie ars, artijex, opus, compendiando poi in una sola ars e opus; l'ars e l'artifex differiscono molto a vicenda, non solo nella species, ma nel genere stesso (genere ipso), come le statue greche da quelle etrusche e l'eloquenza asiatica da quella attica. L'esemplificazione dei generi offre lo spunto per un lungo confronto con quelli della pittura e della scultura; riecheggiando fonti greche, Q. elenca una decade di pittori a cominciare da Polygnotos ed Aglaophon con la loro semplice tavolozza, a Zeusi e Parrasio, attivi intorno alle guerre del Peloponneso, a quelli del IV sec. e del periodo ellenistico, Protogenes, Pamphilos, Melantios, Antiphilos, Theon, Apelle. A questi dieci pittori è raffrontata una decade di scultori: Kallon, Hegesias, Kalamis, Mirone, Policleto, Fidia, Alkamenes, Lisippo, Prassitele, Demetrios. Fra le due decadi si inserisce Euphranor come elemento di passaggio, essendo pittore e scultore. Si è pensato che Q. derivi qui da un "cànone" ellenistico; la visione dello sviluppo parabolico dell'arte è propria delle fonti cronografiche, e caratteristico è il concetto di una "scala di durezze" per definire l'evoluzione artistica della statuaria da Kallon a Policleto, lo sciogliersi progressivo del ritmo arcaico in quello articolato chiastico e gravitante classico. Anche i concetti astratti di pondus, auctoritas, veritas, maiestas, diligentia, decor, pulchritudo, come altri simili, sono quelli delle fonti greche classicistiche del tardo ellenismo, mentre nell'accenno al problema delle luci e delle ombre (ratio luminum umbrarumque) e della linea di Parrasio (examinasse suptilius lineas traditur) riecheggiano piuttosto Antigonos e Xenokrates, forse attraverso Varrone. Theon di Samo viene celebrato per la facoltà di concepire visioni fantasiose cioè ϕαντασίας, che egli traduce con visiones (xii, 10, 1) e spiega altrove (VI, 2, 29) l'importanza della fantasia creatrice dell'artista per mezzo della quale "si rappresentano nell'animo le immagini di cose assenti in modo tale che sembra di vederle con gli occhi e di averle presenti. Chi è capace di poterle concepire con questa intensità, sarà efficacissimo nell'espressione dei sentimenti".
Il decor è il concetto fondamentale del gusto di Q. che afferma: comitetur semper artem decor (ix, 4, 7). Bisogna variare costumi, volti, ritmo nelle statue e nelle pitture secondo le leggi del decor. Minima è la grazia di un corpo verticale, con il volto frontale, le braccia abbassate, i piedi uniti, sicché l'opera risulta rigida da cima a fondo, egli dice, avendo in mente la statuaria arcaica, di cui, come tutti i Romani, non comprende più il valore estetico; i simulacri arcaici possono se mai essere apprezzati per la sanctitas non per il loro valore monumentale, lontano ormai dalla sensibilità e dal gusto del periodo imperiale.
In questo ordine di idee di una ricerca di varietà di ritmi e di posizioni Q. apprezza sia la novitas e la difficultas riferite alla sintassi ritmica del Discobolo di Mirone, pur tanto distortum et elaboratum, sia lo scorcio del volto di Antigono dipinto da Apelle per nascondere il difetto fisico della mancanza di un occhio, sia la gamma variata di accenti di un pathos crescente nel celebre quadro di Timanthes con il sacrificio di Ifigenia (ii, 13, 8).
Secondo i principi del decor, Q. ripudia i soggetti brutti o lontani dagli ideali della pulchritudo, dicendo che pittori e scultori non presero a modello corpi di eunuchi (v, 12, 21), ma quelli atletici, seguendo così l'ideale classico di una bellezza ideale, e non tenendo conto dei molti altri aspetti a cui seppe giungere l'arte greca dal grottesco fino alla caricatura. Q. ammira infatti il classico, "l'inimitabile potenza dell'alta antichità, così gradita anche nei quadri" (viii, 3, 26). "La pittura in cui niente è definito con linee ed ombre di contorno non risalta; e così quando gli artisti accentrano più elementi in un sol quadro, interpongono degli spazî che li distinguano, perché le ombre non cadano sui corpi" (viii, 5, 26). Nota il risalto luministico e l'illusionismo spaziale che stanno alla base del linguaggio pittorico, dice che "quei pittori che dipinsero con singoli colori, cioè monocromi, rappresentarono tuttavia alcuni elementi più risaltanti ed altri meno, senza di che non sarebbe stato possibile disegnare neanche le membra delle figure" (xi, 3, 46) e, "quando un pittore con la forza della sua arte fa in modo che a noi sembri che alcuni elementi del suo quadro emergano, e altri retrocedano, lui stesso sa bene che sono tutti su uno stesso piano" (ii, 17, 20).
Fra le notizie dettate dalla sua esperienza personale è interessante quella dell'uso di esporre durante il processo quadri raffiguranti la scena culminante di un crimine per commuovere il giudice, che egli riprova perché un avvocato deve fidare più nella propria eloquenza che su una muta immagine (vi, 1, 32); genere di pittura questo di tono certamente popolaresco, che doveva avvicinarsi a quello delle pitture trionfali e gladiatorie.
La grande cultura, lo studio delle opere classiche, rendono Q. uno scrittore romano fra i più sensibili verso i problemi artistici, accanto a Cicerone, che era il suo grande modello, anche se gli accenni a opere dell'arte figurata sono brevi e incidentali.
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