PUNTEGGIATURA
. Il sistema interpuntivo dell'antichità classica, che mirava a indicare le pause e le inflessioni della voce, così che ottenessero rilievo le parti del discorso e il lettore avesse agio di respirare, consisteva di tre positurae (ϑέσεις) o distinctiones, che definiremo con le parole dell'Ars grammatica di Donato: la subdistinctio, "ubi non multum superest de sententia"; la media distinctio, "ubi fere tantum de sententia superest quantum iam diximus" e la distinctio, "ubi finitur plena sententia". Tutt'e tre le positurae, chiamate in seguito pausationes e punctaturae, erano rappresentate da un segno unico, il punto, che tuttavia variava nome e collocazione (accanto all'ultima lettera), secondo le positurae che doveva indicare: in basso, segnava la subdistinctio e si diceva comma; a mezzo, rappresentava la media distinctio e prendeva il nome di colon; in alto, esprimeva la distinctio e si chiamava periodos. Es.: "Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum. et in via peccatorum non stetit et in cathedra pestilentiae non sedit.". Ai tre gradi d'interpunzione fanno riscontro i segni odierni: la virgola, il punto e virgola insieme col doppio punto, e il punto fermo.
Nelle epigrafi quando le lettere sono a rilievo i segni d'interpunzione sono sempre dei punti rotondi; quando sono incise su pietra, marmo o metallo, possono essere anche quadrati, oblunghi o triangolari. Questi. ultimi, specie nell'epigrafia latina, assunsero talvolta la forma di una foglia di edera. Un'iscrizione di Cirta fa espressa menzione di hederae distinguentes incise fra le varie parole del testo epigrafico (Corp. Inscr. Lat., VIII, 6982). Verso la fine del sec. I dell'impero le più importanti divisioni fra parole si trovano talvolta segnate da piccoli rami di palma. In alcune iscrizioni d'età imperiale tarda si trovano inscritti dei punti anche tra le sillabe e più raramente fra le singole lettere. Nei documenti a lungo testo l'interpunzione è spesso omessa o soltanto usata a indicare le abbreviazioni; ciò si verifica anche nelle iscrizioni sepolcrali incise a carattere volgare.
Il sistema dell'antichità (che per essere perspicuo doveva esigere la scrittura maiuscola delle epigrafi, l'unciale, o almeno la semiunciale) passa al Medioevo, il quale serba le tre positurae, rappresentate dai segni detti comma, colon, periodos. Ma quando fu introdotta la scrittura minuscola, il comma venne raffigurato da un punto a cui sovrasta una verghetta o virgola (.′); il colon, da un punctus planus (.); il periodos, da una verghetta posta dopo un punto (./), oppure da un "punto molteplice" (.: :• :-). Es.: "Cum inter ceteras virtutes caritas obtineat principatum.′ non est sine ipsa certa possessio. in qua est omnium illarum posita pulcritudo./". E, per chiarezza maggiore, la subdistinctio fu detta distinctio suspensiva; la media distinctio fu chiamata distinctio constans; la distinctio prese il nome di distinctio diffinitiva. Quest'uso si continua con i dettatori Guido Faba, Matteo dei Libri, Tommaso da Capua e Transmondo; e dura a lungo, invano contrastato da qualche altro sistema, finché, sulla fine del Duecento, subisce modificazioni specie per effetto dello studio, più largo e approfondito, della grammatica e della sintassi. Proprio i maestri bolognesi di ars dictandi, che formavano i nuovi grammatici, notai e dettatori, nelle loro Summae, della fine del sec. XIII e dei primi del XIV, attribuirono molta importanza al problema della punteggiatura, della quale proposero metodi che via via si scostavano dal tipo consueto.
Tra i novatori sono da ricordare il bolognese Tommasino Armannini, autore di un Microcosmus dictaminis; Giovanni Odonetti di San Giovanni di Moriana, che studiò a Bologna e scrisse un Illuminarium sive introductorium in arte dictaminis; e l'ignoto grammatico bolognese che, a metà circa del sec. XIV, commentò l'Ars dictaminis di Giovanni di Bonandrea, dopo averla resa in volgare. L'esposizione di Giovanni Odonetti, dice F. Novati, "mette in evidenza come non solo, per ossequio alle nuove dottrine, si fosse trasferito il comma [virgola semplice, a cominciare da Tommasino Armannini], segno della subdistinctio, a rappresentare la media distinctio, e il colon [o punto rotondo], segno di questa, a raffigurare la clausula [cioè quella distinctio del discorso che offre perfetta la sentenza], attribuendo al periodus una [virgola circonflessa situata al di là di un punto] l'ufficio, assai inconcludente, di suggellare la 'fine' di tutto lo scritto; ma taluno avesse altresì affacciata la pretesa, un po' strana, di lasciare la subdistinctio senza verun segno che l'additasse all'occhio dei lettori. A questo inconveniente, però, venne posto rimedio col trasferire la semplice virgola a rappresentare la subdistinctio, che si chiamò più volontieri distinctio suspensiva o suspensio; in questa guisa, la virgola finì per prendere stabile luogo tra i punti, ed alle quattro distinzioni del discorso corrisposero quattro 'punti sostanziali'. Siffatta nuova e definitiva evoluzione del sistema interpuntivo ci appare già del tutto avvenuta" nel citato commentario all'Ars di Giovanni di Bonandrea, dove i punti sono divisi in sostanziali e accidentali, e i sostanziali sono la virgola (,), il coma (.′), il colo (.), il periodo (???). Sono accidentali: il punto legittimo o doppio (..), che occupa il luogo del nome proprio, quando questo è ignorato da chi scrive; il semipunto (./ oppure =), il quale indica che una parola non è finita e continua nella linea successiva; l'interrogativo (?), usato "dopo l'orazione interrogativa". Quest'ultimo fu raffigurato dapprima con un punto a cui sovrasta una linea ondulata o spezzata. E si noti che nei manoscritti longobardo-cassinesi esso compare non solo in fine di periodo, ma la sua parte superiore è anche collocata, come avviso preliminare, o sulla prima parola o sul primo pronome interrogativo del periodo: analogamente, com'è risaputo, nello spagnolo moderno l'interrogativo e l'esclamativo capovolti son segnati all'inizio dell'interrogazione e dell'esclamazione. Quanto al "punto legittimo, o vero doppio", lo scoliaste di Giovanni di Bonandrea dice che "si fa quando lo scrittore non sa il nome proprio di colui al quale egli manda; et però in luogo del nome proprio, egli fa il detto punto". In effetto, il semipunctus nelle lettere e nei documenti rappresenta il nome proprio della persona non realmente nominata, ma indicata per titolo o dignità o per altra qualifica. Il semipunctus, segnato con la lineetta di congiunzione, pare che sia raro fino al sec. XI; la doppia lineetta è ben più tarda.
Il sistema d'interpunzione del commentario all'Ars di Giovanni di Bonandrea è quello ch'era in voga in quasi tutte le scuole italiane della fine del sec. XIV, era tenuto in gran conto da Coluccio Salutati e fu descritto nell'Ars punctandi attribuita già nel Quattrocento al Petrarca: la quale, però, reca in più, ed è una novità, il segno d'ammirazione o d'esclamazione, o d'enfasi, consistente in un "punctus planus et coma eidem puncto collateraliter suppositum" (che veniva raffigurato anche come una lineetta obliqua che attraversa un grosso punto). Ai segni dell'Ars punctandi corrispondono quelli che il Petrarca adopera nella parte autografa del Cod. Vat. Lat. 3195, contenente le Rime, e in altri due autografi, il Vat. Lat. 3358 (che contiene il Bucolicum carmen) e il Vat. Lat. 3359 (che contiene il De siti ipsius et multorum ignorantia).
L'interpunzione nel Medioevo fu di solito negletta o scarsa, incerta o indisciplinata. Il Petrarca stesso, che pure mise gran cura nell'interpungere, come risulta dagli autografi delle sue opere latine e volgari e perfino dall'epitaffio di Francesco da Brossano, nelle Rime, per esempio, non mostra vera sicurezza e precisione quanto all'impiego dei segni, scambiando il suspensivus col colon e viceversa, e l'interrogativo con l'esclamativo (scambio, quest'ultimo, che dura piuttosto a lungo). Bisogna attendere la stampa, perché il metodo interpuntivo riceva regola e incremento: il che seguì con la guida e l'aiuto di scrittori di larga efficacia, di grammatici e trattatisti dell'arte del punteggiare, di tipografi diligenti; ma seguì con lentezza. Orazio Lombardelli, in L'arte del puntar gli scritti (Siena 1585), parlando del trovamento, della necessità e dell'ordine naturale dei punti, precisava: "Al tempo di Leon X... l'uso de' punti cominciò a prendere alcuna regola, ponendovi studio il Bembo, e il Sadoleto, i quali erano imitati da infiniti, e scrivevan le più importanti cose di Santa Chiesa, oltr'all'opere loro private"; e rilevava il merito degli stampatori più corretti nella pratica dei segni interpuntivi, che, come Aldo Manuzio, Bastian Grifio, Gabriel Giolito, ecc., "hanno confermato il tutto in gran maniera". Fra i trattatisti è da ricordare, oltre al Lombardelli (che a pag. 27 segg. registra quanti si erano precedentemente occupati della teoria interpuntiva), Iacopo Vittorio da Spello, per il dialogo composto ad uso delle scuole sul Modo di puntare le scritture volgari e latine (Perugia 1608).
Circa la pratica interpuntiva delle opere a stampa dal Cinque al Settecento, il lettore moderno resta sorpreso per l'uso del punto e virgola invece della virgola (nella seconda edizione delle Prose di P. Bembo, Venezia 1540, prime pagine, troviamo non solo "è ciò cosa: a cui doverebbono i dotti... havere inteso", ma perfino "in guisa; che, è cagione; che") e soprattutto della virgola impiegata secondo norme come questa del Lombardelli, la quale poi è precisata e confortata da sedici regole e numerose appendici e molti esempî: "il sospensivo [o virgola] s'usa ovunque nella clausola [o periodo] si sospende alcun membretto; cioè, per tutto dove l'ordine del parlar naturale si trova interrotto, quivi si dee segniar la virgola. ò vero tutte le particelle, e fiati [membretti rotti delle clausole] di qual si voglia periodo si debbon distinguer l'un dall'altro co'l punto semplice [o virgola]". Su questo argomento, vedi anche il Trattato della lingua di G. Pergamini (Venezia 1626, p. 324 segg.), o il Trattato dell'ortografia toscana (di T. Buonaventuri) inserito nella raccolta del Carlieri, Regole e osservazioni di varj autori intorno alla lingua toscana (Firenze 1725, p. 310 seg.). Quanto all'Ariosto, questi, componendo, non badava a interpungere, se non a capriccio; ma mettendo in pulito i suoi scritti, interpungeva con maggior cura, sebbene non senza distrazioni. Il Buonaventuri soggiunge questo esempio di perfetta punteggiatura (Boccaccio, Decam., IV, 1): "Alla quale venuto il famigliare, e colla coppa, e colle parole del Prenze; con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide, e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuore di Guiscardo; perché levato il viso verso il famigliare disse: non si conveniva sepoltura men degna, che d'oro, a così fatto cuore, chente questo è, discretamente in ciò ha il mio Padre adoperato". Aveva dunque ragione il padre D. Bartoli, che, nel trattato Dell'ortografia italiana (del 1670; vedi pag. 224 segg. dell'ed. veneziana del 1725), levava la voce contro "tanti bruscoli di virgole" che volavano molestamente negli occhi dei lettori; ma, se predicava bene, in pratica si uniformava egli pure alla consuetudine dei contemporanei. E ancora nella prima metà del Settecento, D. M. Manni (Lezioni di lingua toscana, Firenze 1737, pag. 226 seg.) scriveva che "qualora la posa del leggitore dee esser piccola, qual si sente davanti alla copula, ed al che, la virgola ne è il vero segno".
L'uso moderno si sente nel raccoglitore del Parnaso italiano (pubblicato in 56 volumetti da A. Rubbi, Venezia 1784-1791), il quale dichiara che, rispetto all'interpunzione, s'è limitato a ridurre molto il numero delle virgole. Non avrà egli avuto bisogno, adunando poesie d'ogni secolo, di aggiunger punti esclamativi? Prima dell'esclamativo, o ammirativo, che il Lombardelli chiama anche pathetico, o degli affetti, o affettuoso, e segna mediante "un punterello con virgoletta sopra, non torta, ma distesa", si usava il punto fermo o l'interrogativo; e anche dopo che ebbe vista la luce nella citata Ars punctandi, l'esclamativo fu a volte surrogato dall'interrogativo. Timidamente affiora, l'esclamativo, alla fine del Cinquecento, nei manoscritti e nelle stampe (non l'avevano ancora tutte le tipografie), e trova posto in qualche trattato (per es., in quello del Lombardelli); nel Seicento è trascurato da un grammatico come il Pergamini, ma è accolto dal Chiabrera nell'Amedeide (1620); si diffonde con molta larghezza nella seconda metà del Settecento.
Alla generale prassi interpuntiva del Cinque, Sei e Settecento, retta da criterî logico-sintattici, ma che non poteva non subire le saltuarie variazioni dovute al concreto atteggiarsi del pensiero dei singoli scrittori, reagisce il Leopardi, la cui punteggiatura delle Operette morali, abbondante e meticolosissima, ha, dice M. Fubini, "la funzione di mettere in rilievo i singoli membri del discorso, di sottolineare il loro valore sentimentale": è, insomma, soprattutto stilistica o artistica. Nel Leopardi si giudica specialmente degno di nota l'ufficio dei due punti (bizzarro invece nella Vita dell'Alfieri, la quale ha una punteggiatura molto capricciosa); è parco l'uso dell'esclamativo, che le Operette attestano solo otto volte; mancano, salvo un caso discutibile, i puntini. E lo Zibaldone riprova "l'uso moderno di tramezzare tutta la scrittura di segnetti e punti ammirativi doppi, tripli" (di lineette fa uso non scarso il Foscolo dell'Ortis). Quanto alle poesie leopardiane, come saggi d'interpunzione stilistica si possono citare questi: "Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi" (Canto notturno); "e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno" (La quiete dopo la tempesta).
Per certo uso del doppio punto e per l'uso della virgola (meno, per il punto e virgola) c'è accordo fra il Leopardi e il Manzoni. Nella prima edizione dei Promessi Sposi, il Manzoni non s'era attenuto a un gran rigore sistematico e si mostrava sobrio specie in fatto di virgole. Adoperava queste alla buona, "badando", dice F. D'Ovidio, "al bisogno della chiarezza inteso un po' all'ingrosso, e ritraendo più che altro l'enfasi naturale del discorso; la quale stringe insieme certe parti del periodo che l'analisi logica e sintattica vorrebbe invece distinguere, e fa le sue pause , dove o la lena o le soste soggettive del pensiero o il rapporto fantastico dei concetti le consiglia". Invece, nella seconda edizione del romanzo la punteggiatura è più estesa, e obbedisce fedelmente alla membratura schematica del periodo, perfino con sovrabbondanza, soprattutto di virgole, benché inevitabilmente si colgano qua e là interpunzioni di natura stilistica ("Voi, mi fate del bene, a venir qui"; "E quella riva lì, è bergamasca?"). Dell'abbondanza di virgole propria del gran lombardo ha dato ragione il Tommaseo: "siccome egli ha una maniera di recitare sua, chiara e semplice, come per insegnarci che non è grandezza vera senza semplicità, e che l'enfiare le gote è segno di gonfiezza o nell'idea o nel sentimento; così punteggiando abonda nelle virgole, per distinguere nettamente ogni parte del concetto e trasfonderlo distinto ai lettori nell'animo e nella mente. Quel ch'altri non consegue con un formicolare di ammirativi e di esclamativi o di puntolini, che fanno le viste di voler sottintendere quello che l'autore non ha bene inteso e di far sentire più che l'autore non senta; egli l'ottiene con qualche virgola di più, che mette ogni cosa nella conveniente proporzione in rilievo".
Uno storico della lingua e manzoniano temperato quale il D'Ovidio, riconoscendo che ciascuno dei due metodi, il logico e lo stilistico, ha vantaggi e inconvenienti, come ha seguaci e avversarî osservava che un contemperamento dei due sistemi, a cui sulla fine del sec. XIX si tendeva con maggiore o minore consapevolezza, porta con sé indecisione grande in chi scrive, e perfino nei lettori qualche perplessità; e consigliava comunque una relativa parsimonia. In favore d'un metodo interpuntivo più parco s'è pronunciato in pratica il Carducci, che riesce efficace (i trattatisti moderni propongono, come perfetto esempio, questo: "Già: proprio a mezzo l'ultimo secolo l'ab. Galiani di Napoli scriveva bene in francese e nel dialetto, male in italiano; lo stesso in Milano Pietro Verri e altri molti per la Lombardia e la Venezia, peggio di tutti gli economisti e i riformatori: ma ciò non tolse né impedì che i veri ingegni letterarî, il Parini e l'Alfieri, il Baretti e il Gozzi, scrivessero bene; anzi, due di loro, il Baretti e l'Alfieri, trasformando, pur sempre italianamente, la maniera della prosa italiana"), ma talora rasenta l'ambiguità, e non sempre, proprio come nella grafia, è coerente o scevro da capricci. Il D'Annunzio (Le faville del maglio, I, Milano 1924, p. 383 segg.) ha dichiarato d'essere "nimico delle virgole come la Cicogna invisa colubris è nimica delle serpi", e le virgole ha definite "i bachi del costrutto": "costrutto molto virgolato è costrutto molto bacato", da paragonare al "cacio vermicoloso" di terra di Abruzzi (il Bartoli per suo conto aveva fatto ricorso all'immagine delle foglie che i cuochi pongono tra i minuzzami che infilzano con lo schidione). Ed è qui da rammentare l'estremismo dei futuristi che proscrissero la virgola. Sull'arte che importa l'impiego della virgola, e in genere sull'ortografia come "parte viva dello stile" aveva richiamato l'attenzione il Tommaseo; al quale accadde pure di avvertire che, ai suoi giorni, taluni, incapaci di far sentire in parole quello che intendevano, ammontavano i punti esclamativi. Nel 1924, U. Ojetti ha proposto addirittura di bandire dalle patrie lettere l'esclamativo, "questo gran pennacchio su una testa tanto piccola,... questo pugnalettaccio dell'enfasi, questa daga dell'iperbole, quest'alabarda della retorica". Attualmente, in Francia e in Italia, si torna a discutere della virgola; e, in Italia, anche del punto e virgola, che qualcuno vede "sul letto d'agonia", nell'atto di raccomandarsi alla virgola, la quale, però, non aspetterebbe nemmeno l'eredità, essendo già "entrata al possesso". Fuori di metafora, almeno in parte, alla prosa degli scrittori di frammento, sorvegliata e castigata, irta di punti e virgola, succederebbe "un periodare nuovo in cui le fanterie delle virgole entrano e si sparpagliano, leggiere, come in un paese allegro". Ma non sempre si sparpagliano, o spargono senz'ordine, né sempre le fanterie sono schiere troppo fitte: come mostra la prosa di A. Baldini (per esempio, in La vecchia del Bal Bullier, Roma 1934), che ha una parsimonia generale di segni tutta moderna, la quale non ostacola la chiarezza ed è pronta a piegarsi alle esigenze dell'espressività.
Bibl.: Per la punteggiatura nel Medioevo (oltre ai soliti trattati di paleografia latina, come quello di C. Paoli, Programma scoalstico di paleografia latina e di diplomatica, I, 3ª ed., Firenze 1901, p. 56 segg.); F. Novati, Di un'"Ars punctandi" erroneamente attribuita a F. Petrarca, in Rend. Ist. lomb., s. 2ª, XLII (1909), p. 83 segg.; P. Rajna, Troppi, o troppo pochi i segni d'interpunzione?, in Il Marzocco, 2 novembre 1924. La terminologia medievale dell'interpunzione, identica a quella dei costrutti grammaticali o sintattici, è illustrata da P. Rajna, Per il "cursus" medievale e per Dante, in Studi di filologia italiana, Bull. della R. Acc. della Crusca, III (1932), p. 21 segg. La punteggiatura logica va di pari passo con la considerazione logica dell'elocuzione: per il Cinquecento, e le categorie sintattiche, v. il 5° libro de La retorica di B. Cavalcanti (Venezia 1559, p. 249 segg.), avuto presente dal Lombardelli. Sempre sulla puntazione logica v. anche A. Schopenhauer, Parerga u. Paralipomena, Berlino 1862, II, p. 573 segg. Per la punteggiatura nel Petrarca: E. Modigliani, Intorno ad una "Ars punctandi" attribuita al Petrarca, in Studj romanzi, VII (1911), p. 61 segg.; N. Zingarleli, ed. delle Rime, Firenze 1926, p. vi seg.; V. Rossi, ed. delle Familiari, I, Firenze 1933, p. clxix seg. Per l'Ariosto, v. S. Debenedetti, ed. dell'Orlando Furioso, Bari 1928, III, p. 442 segg. Sui trattati italiani di punteggiatura: C. Trabalza Storia della grammatica italiana, Milano 1908. Per il Leopardi: F. Colagrosso, le dottrine stilistiche del Leopardi e la sua prosa, Firenze 1911, p. 200 segg.; F. Moroncini, ed. delle Operette morali, Bologna 1929, p. lxvi segg.; M. Fubini, ed. comm. delle Operette, Firenze 1933, p. 42 segg. Il Leopardi accusava di minuziosità il punteggiare dei Francesi, pur riconoscendo che tale difetto proviene dall'indole (logica) della loro lingua e scrittura (v. Colagrosso, op. cit., p. 204). Per il Manzoni: N. Tommaseo, Colloqui col Manzoni, Firenze 1929, p. 84 seg.; F. D'Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua, Napoli 1933, p. 106 segg.; S. Caramella, ed. dei Promessi Sposi, Bari 1933, p. 675 seg. Secondo il Caramella l'ed. del 1840 ha carattere ritmico, o euritmico, ed è congiunta con la musica del periodo e con la sua armonia. - Sull'esclamativo: E. Filippini, Per al storia del punto esclamativo, in La bibliofilia, XXVI (1924-25), p. 325 segg.; U. Ojetti, Il punto esclamativo, in Cose viste, III, Milano 1928, p. 111 segg. Sull'uso moderno: G. Malagòli, Ortoepia e ortografia italiana, 2ª ed., Milano 1912. Intorno alle discussioni odierne sulla virgola e il punto e virgola: Roscellino, in Lavoro di Genova, 7 dic. 1934; Circoli settembre-ottobre 1934, p. 87 seg. Un saggio notevole di analisi della punteggiatura che segue e illumina il ritmo interiore del pensiero è in A. Thibaudet, La poésie de St. Mallarmé, 5ª ed., Parigi 1929, p. 333 segg.