Sviluppo, psicologia dello
Oggetto di studio della p. dello s. è l'evoluzione psicologica dell'individuo nel corso della sua intera esistenza. La definizione rispecchia il cambio di denominazione della disciplina, prima conosciuta come psicologia dell'età evolutiva o psicologia infantile, sottolineando due aspetti centrali della riflessione in questo ambito, lo studio del cambiamento evolutivo, da una parte, e la sua estensione al ciclo di vita, dall'altra. Per quanto riguarda il primo aspetto, si è rafforzata l'enfasi sulla necessità di indagare non già il funzionamento psicologico nelle diverse età ma il modo in cui esso cambia da un'età all'altra. In passato l'indagine è stata diretta soprattutto ai prodotti dello sviluppo e alla sequenza di fasi che lo caratterizzano nel corso dell'ontogenesi; meno sui processi sottostanti e sulla natura dei meccanismi responsabili delle novità rilevate. Ormai è cresciuto l'interesse per il cambiamento in sé, per la trasformazione da una modalità precedente a una successiva, e di conseguenza diventa rilevante non solo la situazione di partenza e quella di arrivo ma anche la transizione tra le due: ciò qualifica la disciplina come una scienza del cambiamento piuttosto che dell'infanzia. Se è vero che l'età infantile e quella adolescenziale corrispondono alla parte della vita in cui il cambiamento è più visibile e massiccio, è altrettanto vero che l'età matura e quella senile richiedono processi di adattamento che cambiano il funzionamento individuale, per cui è lecito aspettarsi novità anche quando la cosiddetta età evolutiva è passata da tempo. Ciò ha ampliato il concetto di sviluppo, comunemente inteso come cambiamento incrementale e migliorativo, per includere anche le modifiche che implicano diminuzione e deterioramento. Si può ritenere pertanto che lo sviluppo umano consista in una successione di cambiamenti sistematici, successivi e relativamente duraturi, prodotti da processi di trasformazione funzionali all'adattamento individuale e, in quanto tali, attivi a qualunque età (Ford, Lerner 1992).
Temi fondamentali
La questione teorica forse più dibattuta all'interno della disciplina concerne la controversia natura/cultura, presente in ogni tentativo di spiegare la trasformazione di un organismo prevalentemente biologico in un individuo partecipe della propria comunità sociale. Tale controversia riguarda, da una parte, il ruolo delle caratteristiche innate, e, dall'altra, quello dell'esperienza nel processo di sviluppo. La modalità della sua risoluzione ha differenziato storicamente le teorie classiche della disciplina, riconducibili sotto questo aspetto a una delle seguenti "ipotesi sul mondo" (Pepper 1942): il formismo, per cui esistono entità mentali che maturano senza il contributo determinante dell'ambiente; il meccanicismo, che vede gli stimoli esterni come causa della crescita individuale; l'organicismo, per cui l'individuo costruisce da sé il proprio sviluppo nell'interazione con l'ambiente; il contestualismo, che considera organismo e ambiente come elementi inseparabili di un'unica totalità. Tali paradigmi hanno ispirato teorie che interpretano lo sviluppo in base ad aspetti importanti del funzionamento individuale, e precisamente: la dotazione innata (per es., la teoria della Gestalt), le capacità di apprendimento (per es., le teorie dell'apprendimento sociale), l'attività costruttiva (per es., la teoria stadiale di J. Piaget) e la rete di relazioni (per es., la teoria di B. Rogoff). Nessuna di esse, tuttavia, riesce a rendere conto della varietà di forme e percorsi in cui lo sviluppo si manifesta. Nonostante le posizioni nativiste siano ancora molto forti e in alcuni campi di ricerca - per es., percezione e linguaggio - si continui a credere nella forza delle strutture intrinseche (i cosiddetti moduli mentali) come organizzatori autonomi dello sviluppo (Spelke, Newport 1998, 20005), la separazione organismo/ambiente è stata superata da una visione olistica basata sulla loro interdipendenza costitutiva. Un grande contributo in questa direzione proviene dalla concezione bioecologica di U. Bronfenbrenner (1979), per la quale le componenti da tenere in considerazione sono quattro: il processo evolutivo, che implica relazioni reciproche tra l'organismo e l'ambiente; la persona, con il suo repertorio individuale di caratteristiche biologiche, cognitive, emotive e comportamentali; il contesto, costituito da livelli multipli di sistemi relazionali (interpersonali, sociali e istituzionali); il tempo, che situa ogni processo psicologico nella dimensione della temporalità e si estende per tutta la vita. Di qui la complessità dello sviluppo come fenomeno multidimensionale. In questa visione, qualunque esito evolutivo dipende da un sistema di reciproche influenze e non può essere spiegato se si trascura l'importanza dell'individuo come agente attivo così come quella dei contesti in cui è inserito, nonché quella delle loro relazioni. Non solo: l'esito non è mai dato una volta per tutte; la natura relazionale del funzionamento psicologico e la sua collocazione nel tempo conferiscono a ogni acquisizione evolutiva un carattere dinamico, mai concluso, sempre mutevole.
L'assunto della complessità consente di trattare in termini nuovi il fenomeno relativo all'esistenza delle differenze individuali. In passato una concezione semplificata dello sviluppo largamente basata su teorie unidirezionali - forza dell'organismo oppure dell'ambiente - aveva accentuato la scoperta delle regolarità evolutive, spingendo la disciplina verso una direzione che l'ha impegnata a delineare un percorso standard, se non universale, di acquisizioni. Ormai le differenze individuali sono considerate la regolarità anziché l'eccezione e, se una norma va trovata, essa risulta da tali differenze, come parte comune a esse anziché reciproco azzeramento. In particolare, la teoria dei sistemi dinamici non lineari, versione emergente del contestualismo evolutivo, consente di comprendere sia la norma sia le differenze come espressione della complessità. Per tale prospettiva le novità evolutive emergono senza alcuna predeterminazione. Benché le modalità di funzionamento più avanzato derivino da quelle precedenti, la loro comparsa si deve a un meccanismo di auto- anziché etero-organizzazione del sistema, senza cioè che né dall'interno (i geni) né dall'esterno (le regole culturali) provengano direttive prefissate. L'epigenesi, la formazione di strutture nuove da strutture precedenti, è di tipo probabilistico e quale struttura emerga dipende dalla storia evolutiva di quel determinato individuo, diversa da quella di chiunque altro. D'altra parte, le possibilità di direzione dello sviluppo non sono infinite né vi è assenza di elementi comuni ai percorsi individuali. La teoria pone l'accento sull'influenza reciproca tra i diversi aspetti interrelati della persona e del suo contesto, ciò vincola la libertà di azione autonoma dei singoli elementi, favorendo la formazione di patterns comportamentali che promuovono determinate direzioni evolutive e ne impediscono altre. Si può dire pertanto che, secondo tale teoria, le diverse variabili in gioco nel sistema, da quelle biologiche a quelle sociali, "agiscono in modo tale da rendere contemporaneamente una persona diversa da tutte le altre sotto un certo profilo, diversa da qualcun'altra sotto un altro profilo e, da un altro punto di vista, simile a tutti gli altri esseri umani" (Ford, Lerner 1992; trad. it. 1995, p. 20).
Un altro tema di costante interesse della disciplina che può essere trattato dalle recenti prospettive riguarda la plasticità dello sviluppo, quanto cioè gli avvenimenti nei primi anni di vita vincolano il percorso successivo o, in altri termini, se lo sviluppo sia continuo oppure discontinuo. Le teorie unidirezionali, che fanno riferimento a un unico fattore o a un insieme circoscritto di fattori determinanti, presumono l'esistenza di forti limiti e rigidi vincoli alle possibilità dell'individuo di modificarsi nel corso dell'esistenza, attribuendo al percorso evolutivo una direzione univoca in forza delle relazioni causali con i fattori ipotizzati. Una concezione che si fonda sul sistema dinamico di relazioni, sia all'interno dell'organismo sia tra le l'ambiente, sottoscrive al contrario la tesi di una grande potenzialità di cambiamento e quindi prevede modifiche impredicibili in base alle sole condizioni iniziali. Ma c'è un limite: lo sviluppo procede in modo indeterminato ma non casuale, essendo sempre influenzato dagli eventi passati, dalle condizioni attuali e dalle specifiche caratteristiche dell'organismo. Inoltre è temporalmente situato. Pertanto la plasticità del comportamento dipende dalle caratteristiche epigenetiche e probabilistiche dello sviluppo e il compito dell'analisi evolutiva, forse il più impegnativo, è determinare le condizioni individuali e contestuali sotto cui si potrà osservare il cambiamento oppure la costanza.
Direzioni di ricerca
Tra la fine del 20° sec. e l'inizio del 21°, si sono distinte per il loro carattere innovativo le ricerche volte a indagare le prime fasi della vita. In questo ambito si rileva la compresenza di lavori che analizzano casi noti alla luce del nuovo interesse per le dinamiche del cambiamento e di lavori che individuano fenomeni nuovi e impensabili. Nel primo caso le ricerche si inquadrano nella visione generale dello sviluppo di cui si è detto, studiando il cambiamento alla luce dei principi di autoorganizzazione, emergenza delle novità e mutualità delle influenze introdotti dalla prospettiva dei sistemi dinamici; nel secondo caso gli autori utilizzano teorie locali applicando alle novità rilevate una visione generalmente costruttivista e interazionista, che considera sia l'attività dell'organismo sia la relazione con l'ambiente. Esemplifica bene il primo gruppo di ricerche l'analisi dello sviluppo locomotorio di E. Thelen e L.B. Smith (1994), che, avvalendosi di sofisticate tecniche di misurazione dei microcambiamenti progressivi rilevati nel corso del primo anno di vita, mostra il passaggio dall'inabilità deambulatoria iniziale alla deambulazione autonoma, interpretandolo come il risultato dinamico di forze sia centrali (la maturazione del sistema nervoso) sia periferiche e, in questo caso, sia interne all'organismo (la crescita muscolare, il rapporto massa grassa-massa magra) sia esterne (lo stato del terreno da calpestare o i supporti che facilitano l'autonomia del bambino). Viene così superata la visione deterministica precedente, che considerava lo sviluppo locomotorio un fenomeno tipicamente maturativo e quindi del tutto dipendente da un piano centrale contenuto nel sistema nervoso del soggetto, a favore di una visione probabilistica che tiene conto della sua multidimensionalità. In un altro campo, l'adozione della prospettiva dei sistemi dinamici ha consentito ad A. Fogel e ai suoi collaboratori (2005) di mostrare le microtransizioni evolutive della relazione interpersonale intorno alla metà del primo anno di vita, dalla fase in cui l'interesse del bambino si focalizza soltanto sull'adulto allo stadio in cui è centrato solo sull'oggetto, passando per una condizione di alternanza dell'interesse tra i due. Pure in questo caso viene superata l'idea che lo sviluppo dell'esplorazione relativamente agli oggetti dipenda esclusivamente dalle capacità percettive e da quelle motorie dell'organismo a favore di una visione socialmente mediata fin dagli inizi. In questo lavoro, inoltre, il confronto tra le storie evolutive delle diverse diadi madre-bambino analizzate ha permesso di individuare sia gli elementi che risultano comuni a tutte le diadi sia quelli specifici di ciascuna, nonché il pattern di comportamenti sia del bambino sia della madre evolutivamente associati ai diversi esiti del percorso, con ciò mostrando il parallelismo ipotizzato dalla teoria dei sistemi dinamici tra cambiamento a livello individuale entro l'organismo e cambiamento a livello storico-relazionale entro la diade.
Al secondo gruppo di ricerche appartengono i lavori che analizzano lo sviluppo della comprensione sociale, con cui si intende la capacità del bambino di vedere gli altri come persone, come entità dotate di stati interni quali intenzioni, desideri, credenze e pensieri a cui occorre riferirsi per spiegarne il comportamento. Da Piaget in avanti questa capacità di 'mentalizzare' l'altro è stata studiata in termini di assunzione di prospettiva. In questa ottica il bambino è stato ritenuto cognitivamente egocentrico e quindi incapace di tenere conto del pensiero altrui fino al raggiungimento dell'età scolare. Una parziale revisione di questa idea risale alla fine degli anni Settanta del 20° sec., quando l'osservazione delle prime interazioni sociali ha permesso di cogliere la capacità del bambino di funzionare assai presto tanto come destinatario quanto come iniziatore dello scambio, rivelando la sua natura di organismo socialmente attivo e responsivo fin dagli inizi, ben diverso dall'immagine solipsistica della tradizione piagetiana. Non solo. La sintonia relazionale mostrata dalla diade madre-bambino nella comunicazione faccia-a-faccia delle prime settimane di vita, costituita dal reciproco invio di segnali espressivi, vocali e motori, ha suggerito a C. Trevarthen il concetto di intersoggettività primaria (Trevarthen, Aitken 2001), che attribuisce al bambino la capacità di scambiare con l'altro affetti ed emozioni fin da età precoce e quindi, nei termini discussi, di condividere un tipo specifico di stati psicologici.
Tale visione ha avviato una fruttuosa stagione di ricerche sullo sviluppo, producendo dati innovativi in seguito all'ampliamento dell'indagine dagli aspetti affettivi e motivazionali della relazione a quelli di tipo percettivo e cognitivo. L'interesse per tali aspetti, che chiamano più propriamente in causa la considerazione dell'altro come agente intenzionale anziché come partner sociale, è stato mediato agli studiosi della prima infanzia dai risultati delle ricerche effettuate con i bambini più grandi a partire dagli anni Ottanta sulla cosiddetta teoria della mente (theory of mind), intesa come capacità di predire e spiegare il comportamento altrui in termini di ciò che la persona pensa circa la realtà anziché come emanazione diretta e trasparente da essa. Cardine di tali ricerche è lo studio della "falsa credenza" (false belief task), basato su un paradigma sperimentale di grande efficacia. Facendo riferimento allo studio di H. Wimmer e J. Perner (1983), che lo hanno utilizzato per la prima volta, esso consiste nel raccontare, tramite l'utilizzo di pupazzi, la seguente storia: un bambino ripone un pezzetto di cioccolata in un mobiletto blu allontanandosi dal luogo per andare a giocare; in sua assenza, la madre sposta la cioccolata nel mobiletto verde; il bambino ritorna e cerca la cioccolata. La domanda a cui i bambini devono rispondere è in quale mobiletto il bambino la cercherà. Il risultato è che a tre anni i bambini dicono, erroneamente, che il protagonista della storia cercherà la cioccolata nel mobiletto verde, mentre i bambini di appena un anno dopo dicono, correttamente, che la cercherà in quello blu. Da allora, l'età di quattro anni viene considerata una pietra miliare dello sviluppo psicologico, segnando la comparsa della capacità di comprendere che le persone agiscono sulla base delle proprie credenze, vere o false che siano, anziché dei dati di realtà, diversamente da ciò che avviene nei bambini più piccoli che, non comprendendo la falsa credenza, sembrano ritenere la mente un riflesso della realtà esterna anziché un'entità dotata di uno stato autonomo.
Tale risultato non solo ha consentito di anticipare l'assunzione di prospettiva rispetto alla datazione piagetiana, collocandola in età prescolare anziché dopo, ma soprattutto ha riformulato l'argomento in termini più generali, includendolo nella capacità di comprensione della mente dell'altro (social understanding). L'apertura di questo nuovo interesse ha sollecitato il tentativo di rintracciare l'ontogenesi di tale capacità in età precedenti, nell'ipotesi che l'attribuzione della falsa credenza fosse un'acquisizione derivata anziché originaria, risultato della progressiva comparsa di abilità più basilari. Da ciò l'introduzione dello studio della comprensione sociale della prima infanzia, dove la sensibilità del bambino alla relazione interpersonale era, come si è visto, già ampiamente riconosciuta. Dalle numerose ricerche condotte sull'argomento risulta che la fine del primo anno di vita si configura come un periodo cruciale al riguardo, caratterizzato dall'emergenza quasi simultanea di una serie di comportamenti che possono essere considerati i precursori della teoria della mente. Essi attestano il passaggio del bambino da interazioni in cui i partner sono interessati esclusivamente l'uno all'altro, come nell'intersoggettività primaria analizzata, a interazioni in cui sono interessati entrambi a un medesimo oggetto o evento del mondo esterno, passaggio che segnala la comparsa della cosiddetta intersoggettività secondaria. Per esemplificare, nel periodo tra 9 e 12 mesi i bambini diventano capaci di seguire la linea dello sguardo dell'adulto fino a individuare l'oggetto a cui lo sguardo è diretto, di inviare all'adulto segnali comunicativi come il gesto di indicare, allo scopo di spostare la sua attenzione verso un oggetto di interesse comune, di utilizzare l'adulto come fonte informativa per decidere il proprio comportamento in caso di situazioni ambigue; tutti atteggiamenti che sono interpretati come indicatori precoci della capacità di trattare l'altro in termini mentalistici. Lo sviluppo continua nella prima metà del secondo anno di vita, quando i bambini mostrano la capacità di leggere le intenzioni comunicative e le azioni altrui in termini di intenzioni sottostanti anziché di comportamenti manifesti, preparando, in ambito linguistico, la capacità di riconoscere la referenza degli enunciati, vale a dire il legame tra la persona che parla e l'oggetto/evento su cui parla; ciò consentirà di lì a poco lo scambio di significati nell'interazione sociale e quindi la piena intersoggettività. L'insieme di tali risultati ha modificato la concezione della teoria della mente, considerata ora come un processo graduale che coinvolge abilità presenti in età precoce e non più come modulo mentale già dato che matura più tardi, e ha consentito di delinearne il percorso evolutivo: dalla comprensione degli stati mentali di tipo motivazionale e volizionale, più primitivi e più direttamente connessi con la realtà come l'intenzione, l'attenzione e il desiderio, alla comprensione di stati epistemici più avanzati, meno trasparenti e più astratti, come le credenze.
L'indagine su questi temi ha favorito l'incursione della p. dello s. in campi di ricerca affini come le neuroscienze e la psicologia comparata. Nel primo caso vengono utilizzate le tecniche di neuroimmagine con gli adulti per osservare l'attivazione delle aree cerebrali coinvolte nella realizzazione di compiti che richiedono l'uso di abilità interessanti per l'età evolutiva, per es., l'imitazione delle azioni intenzionali; nel secondo caso si studiano le abilità sociocognitive dei primati non umani, come la comprensione della percezione/attenzione altrui, allo scopo di rendere conto di quelle differenze che caratterizzano la nostra linea evolutiva e che sono responsabili del livello di intersoggettività necessario alla produzione della cultura umana. Infine, va segnalato il contributo che lo studio sperimentale di questi temi ha offerto e offre all'ambito clinico, individuando indicatori dettagliati della capacità di comprensione dell'altro come entità psicologica che servono per la diagnosi di sindromi sfuggenti come, per fare un esempio, l'autismo, in cui questa capacità è ritenuta selettivamente deficitaria.
Metodologia
L'obiettivo di studiare il cambiamento favorisce l'utilizzo di disegni di ricerca longitudinali anziché trasversali. I primi rilevano dati sui medesimi soggetti osservati più volte a età successive, mentre i secondi li rilevano una sola volta in gruppi di età diverse. Anche se entrambi i disegni presentano vantaggi e limiti, quelli longitudinali hanno il merito di fornire informazioni sui cambiamenti attraversati dall'individuo con l'avanzare dell'età, consentendo di valutare i processi di sviluppo in modo unico rispetto ai disegni trasversali, che servono a confrontare i prodotti dello sviluppo così come si presentano nelle diverse età. Sono ormai apprezzati i disegni longitudinali intensivi, che, selezionando punti di rilevazione molto frequenti nel tempo, collocati, per es., a una o due settimane di distanza l'uno dall'altro, mostrano la gradualità del processo e quindi permettono di tracciare la forma dell'andamento evolutivo il più fedelmente possibile. Quando tali disegni sono a casi multipli, utilizzando diversi soggetti anziché uno solo, è possibile applicare tecniche di analisi multilivello che tengono in considerazione simultaneamente i dati di gruppo e quelli individuali; ciò consente di tracciare sia la traiettoria comune ai diversi casi sia quella di ciascuno, rilevando somiglianze e differenze tra i percorsi. L'enfasi sul cambiamento favorisce anche l'analisi microgenetica, che, rilevando l'andamento del fenomeno entro la singola sessione invece che esclusivamente tra le sessioni, permette di collocarlo in entrambe le scale, quella del tempo evolutivo e quella del tempo reale. In questo modo si studiano le prestazioni dei soggetti mentre eseguono un compito di apprendimento, allo scopo di confrontare l'evoluzione delle strategie indotte dall'esperimento nella singola sessione con l'evoluzione spontanea osservata nello sviluppo.
Lo studio delle abilità precoci ha favorito l'utilizzo di procedure di tipo non verbale basate sulla percezione visiva e sulla motricità. Appartiene al primo caso la tecnica dell''abituazione': se a un bambino viene proposto ripetutamente uno stimolo visivo, la sua attenzione diminuirà progressivamente ed egli mostrerà di abituarsi all'immagine vista, per cui, presentandogli subito dopo uno stimolo visivo differente, la sua attenzione tornerà alta. Ciò permette di interpretare la sopravvenuta disabituazione come evidenza della capacità del bambino di differenziare i due stimoli. Tale tecnica, tradizionalmente usata per analizzare le abilità infantili nei primi mesi di vita, viene utilizzata con i bambini più grandi relativamente ad abilità più avanzate. Anche in questo caso i bambini vengono abituati alla presentazione di un evento rappresentativo dell'abilità da studiare - la comprensione sociale - e si registra la loro disabituazione all'evento test, modificato rispetto al primo nell'elemento criteriale per l'abilità. Così, per fare un esempio, è stata studiata da A.L. Woodward (2003) una capacità fondamentale nella comprensione del comportamento altrui come la referenzialità dello sguardo: capire che quando una persona guarda qualcosa c'è una relazione tra quella persona e l'oggetto guardato. Due gruppi di bambini, di 9 e 12 mesi rispettivamente, sono stati abituati alla presentazione di un evento in cui un attore si gira a guardare uno di due oggetti; successivamente, sono state registrate le risposte di disabituazione mostrate dai bambini alla presentazione di due eventi nuovi, diversi tra loro nel modo in cui viene trattato il legame tra lo sguardo e l'oggetto rispetto all'evento precedente: nel primo dei due eventi l'attore guarda lo stesso oggetto della fase di abituazione, che risulta collocato in una posizione diversa da dove era prima; nel secondo evento l'attore guarda la stessa posizione guardata durante l'abituazione, dove ora è collocato un oggetto diverso da prima. Le risposte ottenute nelle due condizioni hanno differenziato i bambini di 9 mesi da quelli di 12, consentendo di attribuire solo a questi ultimi la comprensione della referenzialità dello sguardo. È risultato infatti che i bambini più piccoli mostrano livelli di attenzione simili nei due eventi test e quindi sembrano non differenziare la condizione in cui la relazione tra attore e oggetto cambia rispetto a quella dove non cambia; i bambini più grandi invece mostrano disabituazione al secondo evento, dove la relazione cambia, e non la mostrano al primo, dove resta la stessa. Una tecnica più attiva che utilizza la motricità del bambino anziché lo sguardo viene utilizzata in altri paradigmi, altrettanto ingegnosi per sollecitare i comportamenti ipotizzati come indicatori di abilità mentali avanzate. In questo caso si capitalizza sulla tendenza dei bambini a imitare. Un paradigma replicato in diversi studi è stato introdotto da A. Meltzoff (1995) e consiste nel presentare ai bambini alcune azioni interrotte, vale a dire azioni che falliscono quello che alla comprensione adulta sembra essere l'intenzione dell'attore - per es., cercare di infilare una collana in un piolo senza riuscirci - per verificare se i bambini si fanno guidare dalle intenzioni che sono sottostanti al comportamento piuttosto che dal comportamento. Si è visto che i bambini di 18 mesi imitano le azioni tentate anziché quelle manifeste, eseguendo l'azione nella sua interezza come se l'avessero vista. Si è concluso che i bambini di questa età, così come quelli di 15 mesi e a differenza di quelli di 12, interpretano le nostre azioni non tanto in base al comportamento superficiale quanto piuttosto all'obiettivo che abbiamo in mente, anche quando per varie ragioni non riusciamo a realizzarlo.
Queste ricerche condividono tutte l'esigenza di assicurare validità ecologica ai risultati sperimentali, e pertanto accentuano gli aspetti procedurali che avvicinano la situazione artificiale da laboratorio a quella naturale. Quello che si cerca di riprodurre sono le situazioni vissute abitualmente dal bambino - giochi interattivi, scambi comunicativi, forme di cooperazione -, trasformandole in paradigmi sperimentali: da una parte si cerca di conservare la naturalezza dei comportamenti per facilitare ldel bambino nella situazione simulata - per es., richiedendo allo sperimentatore di adottare toni di voce, espressività e posture tipiche di un adulto che interagisce con il bambino in un'analoga situazione naturale -, dall'altra si manipolano aspetti criteriali del comportamento naturale - per es., vocalizzare mentre si indica un oggetto oppure indicare mentre si sta in silenzio - per differenziare il contributo degli aspetti selezionati, in questo caso il gesto e il vocalizzo. L'osservazione e la sperimentazione si integrano così in modo tale da dare luogo a procedure sperimentali sensibili alla quotidianità dell'esperienza. L'osservazione ha migliorato le proprie capacità di cogliere i comportamenti rilevanti, raffinando gli schemi di codifica utilizzati in laboratorio e nel contempo costruendo strumenti destinati ai genitori e agli educatori che danno garanzie di affidabilità. Questi strumenti di rilevazione cosiddetta indiretta, in quanto utilizzati da persone non esperte, consistono in questionari sulle capacità precoci del bambino che valutano il livello di sviluppo in alcuni ambiti, per es., quello comunicativo come il QSCL (Questionario sullo Sviluppo Comunicativo e Linguistico), concepito da L. Camaioni, M.C. Caselli, V. Volterra e S. Luchenti nel 1992 per bambini di 12 e 20 mesi di vita, o linguistico come il PVB (Primo Vocabolario del Bambino), realizzato da Caselli e P. Casadio nel 1995, diretto a bambini da 8 a 30 mesi di età. La loro importanza è notevole per diversi scopi, di ricerca, applicativi ed educativi. In primo luogo, genitori ed educatori, essendo le persone abitualmente a contatto con i bambini, forniscono dati ad alto valore ecologico, su molti individui e in situazioni variate, condizioni che spesso mancano alla ricerca sperimentale. In secondo luogo, i questionari, essendo di rapida somministrazione, possono raggiungere un grande numero di soggetti e quindi servire a scopi di screening per individuare precocemente ritardi e difficoltà su cui intervenire con programmi di intervento mirati (Capirci, Caselli 2002). Infine, richiedendo a genitori ed educatori di osservare in modo accurato le condotte del bambino, essi migliorano la loro sensibilità, favorendo la comprensione di comportamenti difficili da decifrare in età precoce.
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